ANTONIO CAMAIONI

 

E DIMMI... DIMMI DOVE!

IN CHE ALTRO FANGO?!

IN CHE ALTRA SCHEGGIA D'OSSO? ...

 

FINALMENTE NELLA POESIA CONTEMPORANEA CI SONO ANCORA PAROLE, PAROLE CHE RODONO!

POESIA DELL’AMAREZZA E DELL’INCANTO IN ANTONIO CAMAIONI UN POETA FORTE FRA TANTA LEGGEREZZA.

Antonio Camaioni e la sua poesia rappresentano uno di quei casi particolari che capitano proprio una volta tanto, specialmente in questo tempo di labili valori e di feroce protagonismo. Camaioni è un poeta fuori del normale. E’ tanto smagato e smaliziato, pur nella sua immensa ingenuità, per cui si trova sempre in bilico tra l’essere e il nulla, tra la passione della scrittura e i sogni poetici, tra il senso profondo della propria condizione umana dalla quale riesce sempre a trovare riscatto e dal mondo che lo circonda. Odio e amore, realtà e sogno. Capace di sprofondare nei meandri più profondi dell’inferno, come altrettanto può assurgere allo stato di estremo candore, l’uomo e il poeta Camaioni sembrano assumere in sè il peso del dolore, della gioia, della rabbia, della diffidenza, dell’inganno, del gioco, della tenerezza e della contraddizione di un mondo ormai in via d’estinzione che ha, o che ha avuto, in sé, il tarlo del maligno e la grande visione della resurrezione. "Poesia,/ estenuante alludere/ di questo Quasi al Tutto:/deserto scisso in mille e mille selve...". Ecco, tutto il senso della "doppiezza" esistenziale, politico-intellettuale di un’epoca, di una generazione, vien fuori in maniera inequivocabile e sofferta e Camaioni usa i segni della trancia, della sofferenza pura, con prepotenza e con la consapevolezza dell’impotenza, perchè in fin dei conti, l’uomo che soffre è un uomo in lotta, e la lotta può portare anche allo scoramento o alla ribellione più contraddittoria. "Su questo bianco immemore il verde/il senso appeso a uncino - la parola - / è appena appena un brano lancinante...".

C’è insomma, nella poesia di Antonio Camaioni, il senso genuino dell’ispirazione dettata dalla forza della disperazione degli esseri travagliati dagli eventi immani. Se Dino Campana, per quelli del suo paese, era un "avanzo di galera" perchè varie volte era stato "rimpatriato", dai suoi lunghi viaggi, "pidocchioso e stracciato" (D.Campana, Fuorilegge - Gabriel Cacho Millet, Ed. Novecento, 1985), Antonio Camaioni per la poesia italiana contemporanea puo sembrare l’ultimo dei figli terribili a causa della sua disubbidienza di stile e di contenuto nei confronti di un uso ormai burocratico e convenzionale della cultura e dei suoi prodotti. E’ un segno o un segnale naturalmente positivo e illuminante che induce ancora ad avere fiducia e calore nei confronti della poesia.

Ci sono parole,

parole che rodono,

raschiano il cuore,

che covano sepsi in crepe mentali;

spelonche parole sbocciate di noie,

di mozzi pensieri che strisciano, esangui,

in paludi di nenie colate

da piaghe d’attese che aggrumano masse;

obbrobri eleggenti,ossequianti ogni norma,

ogni squallido lusso.

E parole santuari

di slanci accucciati in sé stessi,

nel martirio che figlia nonsenso:

la santissima voglia di un urlo

sotto volte di sordi silenzi...

 

"Ci sono parole, parole che rodono" è la poesia che apre il primo libro di Camaioni pubblicato nel 1990 nei "Quaderni di poesia" del Nuovo Ruolo di Forlì. Da anni conoscevo Antonio Camaioni attraverso una fitta corrispondenza e quello che posso dire è che Camaioni ha bisogno di parlare, di esternare il magma che bolle dentro la crosta del vulcano anche quando non ce n’è bisogno. Ma è soprattutto da un epistolario che l’uomo può venir fuori con tutte le sue variegate sfaccettature. In questo caso il personaggio ne viene fuori assai bene. Ormai ho qui fra le mani più lettere che poesie. Antonio Camaioni è fatto così: per ogni poesia scrive due lettere. E leggendo tutte queste parole ricordo quando io, ragazzo, preferivo Rimbaud a Baudelaire o Dylan Thomas a Eliot... Così, pensando a Camaioni vien da ricordare Rimbaud. Per una strana coincidenza entrambi sembrano essere protagonisti di uno stesso destino, ma alla rovescia. Rimbaud che pianta la sua poesia e le sue rabbie di fanciullo "maudit", votandosi all’avventura per far soldi nelle terre aspre d’Africa; e Camaioni che la fa finita con la sua "saison en enfer" della sua giovinezza, fatta di vagabondaggi sui mari e per le terre d’Africa per votarsi interamente alla parola e alla poesia. Gettata l’ancora, in età ormai adulta, in quel di San Patrignano, Antonio Camaioni non si muove più di lì e ne fa la sua fissa dimora perchè S. Patrignano, per lui, diventa il "Nuovo mondo"! E dalle colline di S. Patrignano, così dolci, pur con la loro nudità che le caratterizza, si vede il mare, s’incontra tanta gente diversa e si può godere del mutamento delle stagioni proprio come se il mondo fosse tutto circoscritto dentro questa valle dai pendii ora scoscesi, ora ondulati, ora malinconici...proprio come la inquietudine dei viaggiatori...E da quando ha scoperto l’uso della parola, dopo i trent’anni, A. Camaioni non fa che usarla insistentemente per affermare di aver riscoperto il suo essere fanciullo. Riparte da zero, con una nuova verginità, per dire il suo dolore e la sua felicità, per dire i suoi umori e le sue rabbie, per cantare, insomma, servendosi della potenza della nevrosi, gli umori della vita. Tutta la sua poesia si snoda lungo un linguaggio univoco, singolare, personale, ricco di metafore e di surrealismi inquietanti. Discorre di amori e di odii, di morte e di dolore donando al senso comune del vivere i connotati di una tormentata avventura senza fine. Addirittura sembra quasi si diverta ad andare, qua e là, a rispolverare parole inusitate, dimenticate, sepolte negli archivi del tempo ma riuscendo sempre a donar loro nuova forza e lucentezza.

Fin dalla prima poesia "Ci sono parole, parole che rodono" Camaioni dimostra che per lui le parole sono forti come schegge penetranti nei meandri più profondi dell’io. Ed è poesia ostile nel senso che rifiuta approcci e ammiccamenti, consolazioni e inutili lirismi. E’ poesia di scavo e di esplorazione della propria coscienza di poeta, che ritorna fanciullo, e del mondo allo stesso tempo. Ogni parola ha un peso ben specifico, ma ha anche la capacità e la bellezza di far vibrare di vera musica ogni sillaba e i suoi ritmi secondo i moduli più alti e delicati della vera poesia. La sua parola spicca genuina fino all’inverosimile perchè conserva tutta la verginità di una voce pura. Essa sgorga direttamente dal profondo della propria coscienza poetica, come si diceva prima, senza bisogno di supporti estranei, senza mistificazioni, nè ridondanze, ma con la consapevolezza dei lazzi e delle buàggini del mondo. "Sarà che non c’è incanto in questo aprile, sarà che scerpo nascenti silenzi, ma tutto ciò che vado tentando sul foglio mi sortisce amarezza, insoddisfazione... Devo forse ristravolgere un po’ il mio "quotidiano", scrollarmi di dosso una qualche zavorra, risentirmi nel vento, e burrasca, ri/soffrire, risgorgarmi da nuove ferite?" Sono parole sue, di molto tempo fa, che Camaioni confida con la massima innocenza, più a sè stesso che al suo lettore, per far luce, per uscire all’aria aperta della vita e delle nuove stagioni della parola, proprio come risalta dalla lettura della sua poesia. Scrollandosi di dosso quella zavorra, Camaioni, predice, mantenendo fede alla parola, la magia dei suoi nuovi incanti, come in un incantesimo, si ribella al proprio io, alla propria condizione ormai sterile improvvisamente cambia vita. Ritorna a casa, fanciullo ormai fatto uomo, fugge dall’inferno nel quale ha purificato l’anima amara, per risgorgarsi da nuove ferite mantenendosi stretto all’officina delle parole.

DAVIDE ARGNANI

 

 

NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA

Antonio Camaioni è nato a Martinsicuro, in provincia di Teramo, il 16 Settembre 1949. Terminati gli studi tecnici, la sua inquietudine lo induce a separarsi da luoghi e affetti cari. Nel 1968 si imbarca su un peschereccio che lo porta in Africa dove trascorre quasi dieci anni. Tornato definitivamente in Italia, ormai in bilico tra estasi e coma, subisce la sottile violenza dei manicomi; sconta quelle dei carceri. Nel 1981 viene accolto in S. Patrignano di Rimini, dove vive fino all’inizio del 1991. Di lì fugge come colpito da improvvisa folgorazione, ritornando a casa a Martinsicuro, dove trova lavoro e reinserimento nella vita sociale. Ha incominciato a scrivere poesie nel 1985, a trentasei anni. Nel 1988 alcuni suoi versi sono stati pubblicati sulla rivista "Poesia" e nel 1989 su "L’Ortica". Sempre nel 1989 altri lavori sono stati inclusi nell’antologia "Le più belle pagine" per le Edizioni Ellemme di Roma.

Nel 1990, le Edizioni "Quaderni di Poesia" del Centro Culturale Nuovo Ruolo di Forlì, pubblicano la sua prima opera di poesia: "Ci sono parole, parole che rodono".


Ma dove, dove quei cigli, quei palpebrii

di sogni e segni d’orizzonti, dove?

 

Non c’è più alcun’ itineraria stella;

solo unghie d’abbagli stridenti a vitrei scuri

e polveri, macerie: materie prime

d’ogni umana industria - o catarro

di gemiti, d’ingoiati aneliti!

 

E parrebbe nulla più valga la pena

o appena un sonno, un breve oblio

la notte non c’è luna, oh non c’è più un lume

che propizi veglia: qui, all’orlo di un millennio

- in cui riallignano radiche di tenebra - tu

al mistero attendi: intesa foglia a un soffio,

sospesa eco tra silenzio e labbro,

tra rinuncia e slancio: nel presagio

che nessuna voce, che nessun annuncio...

 

*

 

Solo issati vessilli sanguinosi

in cima a vette conati d’abissi -

oh marcia, materia antica

nel cavo della mente annichilita

ove il delirio le sue orde ingozza

e scricchiano, crollano steccati di memorie,

d’ogni dubbio umanissimo e preghiera

ai sinistri urti di necessità -

ah, quali cataste!

le grucce dei panici:

arderle, tutte, nel presente inferno

a respirarlo, il fumo degli dei...

 

E per te, o saggezza occidua,

per te che rumini la polta storia

sarà soltanto legna o un altro inverno:

ravvolta in pelli di sgozzate razze...

 

*

 

Non sai darmi, non sai dirmi

dove arda la fiamma più scarlatta -

dove cenere posi e fumo svoli -

dove del tempo impreziosisca cere:

da te appena la brace di una fede incerta,

il fioco lume e tremulo della parola

dentro la sinagoga del pensiero -

 

per queste piaghe aprirmi

sentieri serpenti

traverso plaghe di memorie, secoli,

del sangue agli argini raggrumato in razze;

 

Ah! nell’enigma della corruzione

solo infima ipostasi di verso reso tisi -

e verso un gemito scarnificato,

e verso un volo che avrà ala un’eco...

 

*

 

E dimmi, dimmi dove:

in che altro fango,

in che altra scheggia d’osso?

 

- Eh, tu e i tuoi silenzi:

miniere obsolete da cui estrai parole;

tu e i tuoi orizzonti vocali, perdutamente

ancora orti a occidenti;

tu e le tue fonti di memorie e lacrime:

sgorghi d’umanità a deserti astrali;

tu e i tuoi tremori:

fronde avvinte a bronchi d’esistenze;

ah, tu e la tua solitudine inoltrantesi

nelle plaghe barbariche dell’essere:

senza tregua, senza pace errante

da soglia a soglia ignara

se d’asili o esili...

 

*

 

Dai tuoi murcidi turgori

tu mi dici: è una memoria, culla

antica, madia colma d’ogni voglia.

 

No, è sudore, non rugiada;

la tua africa una piaga aperta a fiotti

di materia; solo un’orgia di pensieri

abortienti ogni mancanza, slanci

a baratri a venire. La tua africa

una selva inaccessibile d’istinti -

puoi raggiungerla, a smarrirti, col

macete del tuo ego su un vascello

senza rotta: vele gonfie d’incoscienza,

di delirio e non di vento...

 

e io a quest’africa rinuncio -

esecrando ogni altro approdo -

ora erotto, d’improvviso, rigettato

dal mio ventre: ostia quasi poso esangue

dentro al petto ri-assumendo

lontananze, soglie e lacrime.

E sciami a suggermi di bimbi,

a cospargermi su rive senza orme;

a sospingermi lontano dai fragori e

da muggiti, da stridenti superfici -

fin giù ai labbri dei fondali, ai silenzi

immemoriali, gorgoglianti dei miei feti...

 

oh forse all’africa che dici!

 

*

 

Vorrei tanti anni

e se potessi vite:

tante, da non scordare,

finché l’ultima pesi -

grumo di carni su lo stelo d’osso -

come macigno d’ombra su un germoglio

 

sì da accogliere -

oh a mani giunte accogliere -

la leggerezza, il senso della cenere.

 

*

 

E’ loro norma eccellere

in tutto quanto l’indovarsi esige;

tramare bucini, infiorare spini,

fare commercio di cotenne e bucce -

dell’altrui pianto orlando quei catini...

 

ma non c’è lacrima,

oh non c’è più lacrima che valga una pupilla,

nessuna più la gota d’un’infanzia -

sì la pietà morbosa,

sì la gola d’ogni sete immonda:

 

succhiare, inghiottire,

rigurgitare poltiglie d’amore

in greppie a saziarsi ottusamente: bestie!

 

*

 

Ah! i tuoi occhi orme d’immemoriali pene

abbarbicate ai picchi dell’insonnia

 

e caro, caro mi dicevi,

cara la vita - col tuo idioletto

polito dal dolore, con la semplicità

ch’era il tuo poema - mentr’io

pupille ancora ebbre d’aprili

la rigettavo già, oh ti rigettavo,

macerato amore...

 

Mai nulla seppi darti, se non strazi.

E adesso, fanciullo canuto,

questo sgorgo di canto non mio

che dal profondo del perduto erompe,

del non detto e non fatto per quell’odio

a me instillato dai millenni in cranio

ma non al cuore, non al cuore

da sempre di te colmo, orlato

per te d’eco d’ali e fronde,

giù - quasi natale - giù per ignudi clivi:

costole a grembi di valli avvolte

nei tuoi stessi veli:

carezze sparse chiome di brine

a brune rughe e fonde, fondi solchi:

labbri di semi di sussurri colmi

ai limpidi silenzi che mi posano, sù:

su rame in alto volte, vocanti come braccia

che tu ora tendi, amore, e a quali cieli!

 

*

 

Da stelo a sterpo, da testa a teschio:

ossami rosicchiati

da afasi che frugano, affamate,

mucide madie e vuote

di parole...

 

*

 

"Tu n’est pas content?"

interrogava ella quel silenzio

che onda quieta, all’alba, mi risospingeva -

lontano dal naufragio dei miei labbri -

la mente a frusci d’infantili rive...

 

"tu n’est pas content?"

come in preghiera:

remote carezzandomi -

già d’esse fronde lievi -

le sue vesti...

 

*

 

A lacerarti, dentro,

non è la debolezza che tu credi

è forza: la tua salute affondata

un bisturi nel cancro di questo serpe tempo

che t’alligna, in petto, a corromperti

ogni palpito per farne suoi rintocchi

 

La sola colpa che ti strozzi, o amore,

è questo groppo di mondo, quest’aborto...

 

*

 

Già luce un velo avvolge, immilla

nidi in cui posare, struggere

nivee ali: nostalgie...

 

e brocca ottobre si colma, d’incanti,

trabocca a seti antiche

liba foglie: elette sillabe

annunzio da un soffio...

 

*

 

Filo

il pensiero alla cruna di un ago:

cuce brani di voci, di labbri,

orla buio e silenzio

d’aprili fruscianti, d’involi:

e più nessuna voglia di tornare -

oh in pena piuttosto!

su purpurei spini:

memori e pungenti un cuore

che anela pulsare bambino...

 

*

 

Cenci d’idee

e sordidi sudori, quali squallori

a concimarci questo sogno ancora:

 

a prone fami miche di mistero

in credenze raccolte di rinunce

 

o squarci, squarci di lampi a cecità:

le fitte feline delle sue pupille?

 

*

 

E non cercarmi!

non doni potrei ora, nessuna tenerezza

ma ischeletriti aneliti

in loculi d’attese...

 

- oh se anche una sola spina, quella spina

dammi: un’ah per dire al mondo

che pure laceratasi la vela

offre brandelli al vento, irriducibile...

 

*

 

non una ma cento, mille morti

ripeterti devi, convincerti

che un’altra vita, un barlume d’aprile

sarà al seme d’un verso, che un soffio universo

al tuo osso d’idea...

 

*

 

Quando mi seppellisce noia -

massa informe che a marce ottuse frana -;

quando voce è balbettio che macera

il cuore di silenzio

nell’attesa - oh non so più di cosa -;

quando io sono io e nient’altro che io

dalla ressa del noi ingoiato e rigettato,

nella mente l’ignoto deflagra

e precarietà riafferma i suoi domini:

falcia messi di speme, germogli

di domani, trita semi...

 

e quando questo mi accade,

tu, ferocemente distante ad aspettarti

un fronzolo di verso da proporre, tra belletti

e balocchi, a fronzoli di vite.

 

*

 

Non più calici a te, o scolo dei secoli,

ma queste cloache -

eh, l’onda dei freschi pensieri

dall’orizzonte della fronte ardente!

cigni di schiume

dalla maestà d’ogni entusiasmo alati:

bimbo ancora suggevi, li suggevi

i miraggi che l’arsura evoca...

 

ora eccoti, spettro, mendìco esausto

per i deserti vicoli dei versi:

non a pietevoli fluenti fasce

ormai scolpite in marmi di memorie -

in croste t’incancreni, piaga

gemi dinieghi a birce fissità inchiodato:

mentre arsi in insonni e sconcian notti

colando lenti i ceri della mente

e nei mattini, spenti,

solo il pallore gelido dei grumi...

 

*

 

C’inchioda vista

alla croce del paesaggio:

golgota d’immondizie...

 

e tu cieco, dicci, dicci

a quale sito - dai visceri del buio -

lo slancio stupefatto dei tuoi occhi...

 

o lucente altrove incastonato

al cupo marmo di questa sinagoga!

 

*

 

Quanti, quanti ne abbandonasti

dei te stessi persi in foreste infantili,

da fanfare in sogni stornati?

Quanti, quanti ne abbattesti

in vichi di frontiera, nella polvere

dei vicoli ciechi?

 

E per tutto questo...

oh questo speco d’ombra che inghiotte

l’urna cava del tuo essere!

 

*

 

Rincorsi libertà in ogni partenza -

non volto al giungere ma all’andare incontro -

nei gesti che raccolsero il necessario, il caro.

La intravidi in albe rivolanti

dalle ferite delle serrature,

negli embrionali sonni degli erranti:

fanciullo in fuga dai lacci degli affetti -

l’ho sfiorata -

per poi intrecciargli briglie lucenti di ritorni:

in asili di vecchiaie tacite e belle,

pupille immerse nel blu a pescarmi perle...

 

 

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Ultima modifica 02/08/97