SANTE NOTARNICOLA

UN SINGHIOZZO

E L'AMORE

DETURPATI

DA TROPPO SILENZIO

 

DIETRO QUEL MURO...

 

Sante Notarnicola nasce nel ’38 a Castellaneta, dove trascorre la prima infanzia fra miseria ed emarginazione sociale. Abbandonato dal padre, è costretto a subire lo sfascio della propria famiglia in un Istituto per l’Infanzia Abbandonata, dal quale uscirà a 13 anni per raggiungere la madre, nel frattempo emigrata a Torino. Nella capitale industriale del Nord, dove vive in un quartiere-ghetto, Notarnicola inizia a frequentare per necessità gruppi di operai e di ex partigiani e con loro milita prima nella FGCI, poi nel PCI: sono gli anni del dopoguerra, anni in cui negli ambienti della sinistra italiana si continuano a nutrire speranze rivoluzionarie, e in modo particolare il sogno di continuare la lotta condotta durante la Resistenza, per portare a termine quella trasformazione che si era bruscamente interrotta con la fine della seconda guerra mondiale; e sono gli anni in cui, di fronte ai sogni di una generazione, si delinea la svolta istituzionale del Partito Comunista, che prende sempre più le distanze dalle idee rivoluzionarie.
E’ fra le quinte di questo complesso scenario che matura l’esperienza politica e umana di Notarnicola, ed è da questa esperienza che bisogna partire per capire il senso della sua poesia, una poesia nutrita di storia, di umanità, di sentimenti, più che di parole.
E’ il ’59 quando Notarnicola inizia con alcuni compagni una serie di espropri, organizzando rapine in banche e gioiellerie per raccogliere denaro a favore dei movimenti di liberazione nei paesi coloniali; ed è durante una di queste rapine (la sanguinosa rapina di Largo Zandonai a Milano) che, nel ’67, viene arrestato, insieme a Cavallero e altri due compagni, e poi successivamente condannato all’ergastolo: da quel momento (il ’68 e le BR sono ancora lontani) i giudici si affanneranno ad attribuirgli etichette sempre diverse, da sobillatore a sovversivo, da nappista a brigatista, da irrecuperabile a irriducibile. Oggi, vivendo in condizione di semilibertà, così descrive la sua uscita dal carcere, dove ha vissuto per più di 20 anni: "Erano le 19 del 25 luglio 1988. Alle 19 precise varcai il portone della prigione. Avvertii una luce diversa. Era l’abito colorato di Severina che strinsi forte, forte, forte." (1)
Nessuna euforia, solo una pacata felicità: dietro quel portone Notarnicola ha lasciato 21 anni della propria storia, la storia di un uomo che ha scelto di vivere la propria condanna all’ergastolo con ostinazione, con coraggio, senza cedimenti.
Pur riconoscendo gli errori commessi, Notarnicola, infatti, non ha mai accettato nè il "pentimento" nè la "dissociazione", rivendicando la sua identità politica come senso della propria esistenza: "Oggi guardo indietro, a quei tempi, e misuro il distacco, la strada percorsa, e sento che senza quell’esperienza forse non sarei in galera, ma sento pure che se non fossi diventato comunista, l’intera mia vita non avrebbe avuto senso. E per me, essere comunisti è l’unico modo di essere uomini." (2)
Ma al di là di questa irriducibilità politica, c’è in Notarnicola un’altra irriducibilità, quella di un uomo che accetta la sfida dell’ergastolo come esperienza di vita, mai come sconfitta o morte. E in carcere fonda il movimento dei Dannati della Terra, che inizierà una serie di lotte per il miglioramento delle condizioni di vita dentro al carcere, battendosi contro i pestaggi e le celle di isolamento; in carcere cercherà di abbattere le barriere fra detenuti politici e comuni, cercando di dare a questi ultimi una nuova coscienza di sè; ma soprattutto in carcere prenderà corpo quella voce, quell’urlo "che spazza via il muro di cinta della prigione": la sua esperienza poetica, che trova proprio nei limiti di una cella la sua condizione di possibilità.
La poesia non è per Notarnicola un esercizio di letteratura, ma un modo di rompere il silenzio che lo circonda, uno strumento di comunicazione, di contatto col mondo, con tutto ciò che vive oltre il muro, oltre le sbarre, e che acquista il suo senso proprio perchè al di là: è il mare "azzurrissimo", sono i gabbiani che volano "altissimi", è la "stupenda" primavera, è il sorriso del proprio amore: è la Nostalgia e la Memoria di un mondo negato. Ma è una nostalgia senza rimpianti, senza languori decadenti, totalmente priva di autocommiserazione; ed è una memoria che consente di pensare al futuro, anche dentro una cella d’isolamento.
Perchè se Notarnicola non ha nulla da vendere, ha molto da difendere: "Difendere le 200 lettere a Severina, difendere i suoi 14 anni di colloquio (...) Lei tutto il mio cielo, la tenacia, la tenerezza. (...) E i sorrisi spariti. E i soggettivismi sconfitti. E gli odi fra i compagni. E le demolizioni personali. E la disgregazione umana. E le perquisizioni anali. E le sei diottrie perse. E l’assalto con i cani nelle celle. E i compagni colpiti da schizofrenia. E i primi tradimenti. E la massa dei dissociati. E l’isolamento politico. E l’isolamento umano. E la piorrea che avanza. E gli anni che passano e i giorni che conti. E i silenzi, i silenzi, i silenzi." (3)
La poesia di Notarnicola, insomma, nasce e cresce in un circuito particolare: è il riassunto di una vita ma, nel contempo, è il tramite che permette a questa vita di continuare, sigillando la memoria al presente, facendo esistere il presente in nome di un futuro sognato fra le sbarre:

Quando
mano nella mano
percorrerai
la Via Lattea
mia rosa,
non dimenticare...

GABRIELLA COVRI

 

Note

1) Rivista POLITICA E CLASSE, N°2/3, Dicembre 1989

2) LA NOSTALGIA E LA MEMORIA

Giuseppe Maj Ed.

3) Rivista POLITICA E CLASSE, N°2/3, Dicembre 1989

 

Bibliografia

-L’EVASIONE IMPOSSIBILE

Giangiacomo Feltrinelli Ed., Milano, 1972.

-LA NOSTALGIA E LA MEMORIA

Giuseppe Maj Ed., Milano, 1986.

 


 

LA PRIGIONE

Incasellai nella mente

sguardi fiori e uno spicchio di cielo.

La pianura addormenta l’anima,

ma la prigione resta ferma sulla collina.

 

Dopo, tentai di gettare l’anima

al di là del muro. Zelante

il guardiano me la sbattè sul muso.

 

S. Vittore 21 ottobre 1971

 

 

APPUNTAMENTO AL CARCERE

Con gli ultimi spiccioli

avevo comperato

un piatto di carne fredda

un limone

una bottiglia di vino rosso

un pacchetto di sigarette

una cartolina illustrata

e una rosa.

 

Tutto era pronto amore mio

e tu non sei venuta.

 

Procida 28 luglio 1972

 

 

GALERA

Là, dov’era più umido

fecero un fosso enorme

e nella roccia scavarono

nicchie e le sbarrarono

 

alzarono poi garitte e torrioni

e ci misero dei soldati, a guardia

 

ci fecero indossare la casacca

e ci chiamarono delinquenti

 

infine

vollero sbarrare il cielo

 

...

 

non ci riuscirono del tutto

 

altissimi

guardiamo i gabbiani che volano.

 

 

Favignana 1 giugno 1973

 

 

UNA POESIA TRISTE TRISTE

E così anche tu

hai ceduto, ci volti le spalle.

 

Eri un compagno sereno.

 

T’annoiava la parola

evoluta/ricercata.

T’infastidivano

i documenti illeggibili

e, per "dopo...",

i tuoi desideri erano:

minimi-minimi-minimi.

 

Disprezzavi l’arroganza dei forti

(anche la nostra,

quando forti eravamo...)

e la rivoluzione per te

era anche una questione di cuore.

Amavi citare i poeti

e la logica del firmamento...

 

Ora che fai? Alla ricerca

del Cristo pure tu? Va là...

stai semplicemente accodandoti

agli insolenti capetti rossi

che, a gruppi, o in solitudine,

se la stanno squagliando!

 

 

Palmi 4 settembre 1984

 

 

LA NOSTALGIA E LA MEMORIA

Talvolta

vorrei ripercorrere

le strade del mio quartiere.

E ritrovare vorrei

quella generazione

che si formò

sul testamento

di Julius Fucik,

colui che sotto la forca

scrisse a noi, per noi.

 

La generazione

che compatta correva

da Papà Cervi, a consolarlo,

a consolarsi.

 

Quella generazione

che, disarmata,

raccolse la bandiera

della Resistenza

prima che la borghesia

l’agitasse, oscena...

 

Vorrei ritrovarmi

con gli operai perseguitati

da Scelba e da Valletta,

quelli dell’officina Stella Rossa,

i licenziati che seppero tenere,

e ricordare qui vorrei,

gli anni ’50.

Tutti. Uno per uno.

Giorno dopo giorno.

Ricordare gli affanni

Ricordare la fame

Ricordare il freddo,

il carbone

comprato a 5 chili per volta,

e il baracchino

con la pasta scotta

e null’altro.

 

Poi gli scontri:

luglio ’60

e gli struggenti ragazzotti

di Piazza Statuto,

col selciato tra le mani.

Ripercorrere vorrei

tutta via Cuneo,

attraversare la Stura, la Dora

e tutto il quartiere mio.

 

Guardare vorrei

per una volta ancora

la vecchia casa

col cesso sul ballatoio,

ritrovare per un momento solo

i vent’anni miei,

colui che per primo

mi chiamò terrone

e m’insegnò poi

che fare il crumiro

era il crimine più grande.

 

In ultimo vorrei chinarmi

assorto

sull’elenco angoscioso

di chi non c’è più

e nascondermi vorrei

in via Chiusella

la più brutta delle strade

del quartiere mio.

 

Ricordare anche l’addio,

violento, feroce. L’ira...

 

Ma pure

ritrovare le radici

in questo quartiere,

piatto come l’anima,

vasto come l’orgoglio,

amato e vissuto

da quella generazione,

 

la più infelice

la più dura

la più cara.

 

 

Cuneo 28 agosto 1985

da LA NOSTALGIA E LA MEMORIA

Giuseppe Maj Editore

 

 

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