LO SPECCHIO

DEGLI OCCHI MUTANTI

 

Le parole del filosofo le piacquero. "Questi occhi assolutamente senza protezione, la parte più nuda del corpo umano, oppongono una resistenza assoluta al possesso", aveva detto Levinas.

Gli occhi, la parte più nuda del corpo umano... ben presto l’immagine si fece ossessiva nella mente di Lucia e l’iterazione si colorò di intensità crescente. La parte più nuda, più scoperta delle mani, del naso, della bocca; più nuda dello stesso sesso nudo... si sentiva esaltata. Se è la parte più nuda è anche quella più indifesa; ma no, si disse, è la parte più vera, quella che non mente, quella che è talmente libera da non poter essere posseduta da niente e da nessuno, nemmeno dall’Io. Quest’ultima constatazione le provocò una leggera vertigine.

Le venne allora in mente un sogno che, a suo tempo, l’aveva fortemente impressionata.

Era il tramonto. Nell’aia di una corte di campagna, dalla classica struttura quadrata, con le costruzioni in mattoni rese più rossastre dagli ultimi raggi di sole, i ragazzi e la gente del posto si erano tutti ammassati al centro incuriositi e intenti a guardare uno strano animale. Era grigio, ricoperto di un pelo irto e ispido. Se ne stava lì in atteggiamento aggressivo e smarrito nello stesso tempo; sembrava selvatico e nessuno osava toccarlo, anche se era chiaro che non avrebbe attaccato per primo.

Pian piano la gente si allontana e il grigio animale resta solo. A questo punto mi avvicino, lo osservo attentamente e rimango colpita dagli occhi: sono occhi buoni, struggenti; occhi che parlano di una cupa e primordiale solitudine; occhi carichi di desiderio; occhi che chiedono aiuto; occhi di sconfinata dolcezza e di travolgente voglia e paura d’amare. In questi occhi si allargano lentamente e progressivamente i miei e con stupore mi accorgo che l’animale non è un animale, ma un ragazzo, un giovane uomo.

L’atmosfera del sogno si fece così attuale che Lucia sentì fisicamente quella trasformazione.

Di nuovo le piacque l’idea della libertà assoluta degli occhi.

Si guardò allo specchio. All’improvviso sui suoi grandi occhi verdi si sovrapposero quelli piccoli e grigi della madre.

Gli sguardi della madre. I ricordi si affollarono tumultuosi.

Una sorta di panico le strinse lo stomaco e un disagio di ancestrale memoria le attraversò le ossa.

Mia madre parlava con gli occhi. Gli sguardi dicevano se ero degna di approvazione o di disapprovazione, se - alt! - dovevo fermarmi lì o se mi era concesso proseguire, se ciò che facevo era assolutamente indifferente o se aveva valore.

Mamma, che occhi grandi che hai!

Per controllarti meglio, bambina mia.

Mamma, che occhi strani che hai!

Per possederti tutta, piccola mia.

E sullo specchio apparvero due dilatati occhi magnetici.

Gli occhi di mia madre, che pure sfuggivano al suo controllo, non tolleravano il limite e sembrava che volessero dominare il tutto con una manifesta ansia dolente.

La mia dipendenza acquiescente si alternava talvolta a maldestri e insicuri tentativi di ribellione. Allora esplodeva in un'ira violenta, paurosa, che s’incentrava sempre negli occhi; lo sguardo si stravolgeva e si trasferiva in un’altra dimensione; in un altrove misterioso, sconosciuto, paralizzante; un altrove di fissità che evocava istantaneamente, come per sortilegio, le buie sbarre di una prigione; poi s’innalzava addirittura materialmente ed era accompagnato dall’ergersi dell’intera persona: erano quelli gli occhi terrificanti e terrificati della follia.

Ci vollero parecchi anni prima che Lucia capisse che quello sguardo di pazzia si trovava sulla soglia di un baratro: di qua, una realtà da possedere onnipotentemente pena l’annientamento del Sè; di là, l’abisso, il VUOTO, l’assenza.

Quando mia madre si accorse dell’impossibilità del dominio totale, si volse dall’altra parte e si calò nel nulla.

Il ritorno dall’abisso cambiò i suoi occhi. Era come se un terremoto le avesse modificato la geografia interna, come se interi strati rocciosi si fossero spaccati, rimescolati e avessero creato nuovi percorsi, nuovi sentieri. E gli occhi riflettevano il nuovo cammino. No, non erano zampillanti ruscelli o fresche acque sorgive che trasparivano dalle iridi fatte più chiare, ma un lento e mesto fluire di sguardi sofferti e addolciti che sapevano di infinito.

 

Mamma, che occhi tristi che hai!

Hanno visto l’altrove, figlia mia.

Mamma, che occhi liquidi che hai...

 

Lo specchio si appannò. Le lacrime sgorgarono silenziose dagli occhi di Lucia, scesero abbondanti come piccoli cristalli trasparenti che lasciavano intravvedere interi microcosmi. Erano sogni, pensieri, fantasmi, situazioni che, racchiusi nelle minuscole sfere, si scioglievano e si dissolvevano nei mille rivoli che bagnavano il petto, le mani, le vesti della ragazza. Allora si sentì libera e respirò freschezza. Era libera. Libera di amare, di correre, di saltare, di... guardare; sì, di guardare anche in faccia al suo amore.

E libera pure di farsi guardare, di farsi vedere finalmente tutta da lui per il piacere, soltanto per il piacere di sentirsi osservata da quegli occhi buoni... buoni... buoni da cullarcisi dentro.

Lui, con gli occhi desideranti; lui, con i dolci occhi invitanti. Lucia si sentì avvolta da una calda e festosa ventata di sguardi che premevano, circondandola, per farsi notare, per emergere, per farsi riconoscere: ecco gli sguardi del trascolorare nell’indefinito; ecco quelli ammiccanti; quelli profondi in cui era stata sempre così restia ad abbandonarsi; e poi quelli lucenti e quelli ridenti...

Si accorse che non aveva mai osato veramente guardare e fu presa da un desiderio nuovo, da uno sconosciuto slancio vigoroso, da una originaria vitalità.

Da quella notte la loro stanza, ogni volta illuminata a giorno, si riempì di sguardi intensi e appassionati che si incrociavano, si rincorrevano, si diffondevano sino a trasformare tutto lo spazio esistente nell’essenza stessa del loro libero gioco di amorosa seduzione, di totale accoglienza e di magica ed esaltante complicità.

FRANCA PINNIZZOTTO

 

 

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Ultima modifica 02/08/97