RAMON DELMONTE

ISTANTI

DI UN TEMPO FOLLE

 

Remo Delmonte è nato il 16 luglio 1950 a Montecavolo, ridente paese che si stende su quelle che vengono considerate le più dolci colline del Reggiano, preludio ed anticipazione dell’Appennino da un lato e della bella Valle dell’Enza dall’altro.

Non è superfluo soffermarsi un momento sulle caratteristiche di questo luogo, in cui vive tuttora Delmonte, perchè è proprio qui, nella parte antica del paese, che affondano le radici della sua Weltanschauung e della sua poesia. Montecavolo oggi si presenta contornata da una miriade di ville e villette, sparse all’intorno, testimoni di una prosperità economica mai conosciuta prima, ma con al centro il suo vecchio borgo ancora intatto, che ha mantenuto, oltre alla struttura, la composizione sociale di sempre.

Borgo contadino, popolare, negli anni ’50 -gli anni dell’infanzia di Delmonte, gli anni che sappiamo determinanti in ogni storia individuale- Montecavolo portava tutti i segni del disagio e della povertà del dopoguerra, e forte e vivo era nell’animo della gente il risentimento per la mancata "rivoluzione", che molti aspettavano come logica conseguenza della Resistenza partigiana.

Il clima era molto teso; la grande miseria dei poveri contrastava in maniera abnorme con la ricchezza dei "signori" che possedevano lì ville e antichi castelli, in cui erano soliti trascorrere l’estate e presso cui andavano a "servire" le donne del paese.

L’uguaglianza sociale, il diritto ad una vita degna di essere vissuta, un avvenire di pace per i figli, una giustizia che fosse veramente tale, la rottura di quel terribile ed atavico bavaglio culturale che teneva il popolo in condizioni di inferiorità, di emarginazione e di subalternità, erano gli obiettivi che animavano la gente, la gente comune, la gente che ogni giorno si trovava a dover affrontare il problema della sussistenza; gente "arrabbiata", decisa, poco incline a farsi incantare da facili promesse o da enfatici discorsi.

In questo ambiente, Delmonte bambino si rende subito conto, come dolorosa necessità presente nella vita, della componente di lotta e, soprattutto, della lotta di classe.

Se ne rende conto e traduce immediatamente in comportamento ciò in cui crede, con un senso di impegno e di fedeltà ai principi, che comincia ad elaborare, che diventerà poi una costante specifica di tutta la sua vita.

Si tratta del concreto opporsi all’indigenza, del fare la sua parte seppur bambino: si mette a disposizione di un eccellente fabbro artigiano come piccolo garzone e impara così giorno dopo giorno l’arte di forgiare il metallo, di battere e di sbalzare il rame, dimostrando ben presto di possedere estro e qualità artistiche, che affinerà successivamente e che lo porteranno a creare, adulto, sculture in bronzo, rame, oro e argento di alta fattura.

Il tempo del lavoro manuale si deve conciliare con quello dello studio (frequenterà un istituto tecnico superiore e poi s’iscriverà alla facoltà di Filosofia dell’Università di Bologna) e con quello dell’attività politica che sarà intensa, totalizzante.

Ramon -così è conosciuto da tutti, con questo soprannome che pare evocare i nomi di battaglia- non tollera le mezze misure: i grandi Maestri del Comunismo diventano i suoi Padri; li studia e nello stesso tempo la sua militanza si concretizza facendosi promotore e partecipando in prima persona alle lotte giovanili e studentesche e a quelle di più largo e di più specifico carattere politico-sociale negli anni fine ’60 e ’70.

Durante il servizio militare paga di persona il suo impegno politico: accusato di propaganda sovversiva, viene condannato e sconta 4 mesi e mezzo di carcere in parte a Palermo e in parte a Peschiera.

L’esperienza del carcere lascerà tracce incancellabili (in molte poesie ritorna ossessiva l’immagine della cella percorsa ossessivamente negli unici suoi tre passi possibili), ma non scalfisce, anzi rafforza ulteriormente la sua volontà di lottare per una società nuova e veramente libera.

Il forte temperamento, che pare dunque totalmente assorbito dall’azione e dalla passione politica, lo spinge invece prepotentemente anche verso l’arte.

Gli interessi e le attitudini sono vari (oltre alla scultura, coltiva la ricerca storica sulla Resistenza nella provincia di Reggio E. e nell’83 pubblica, insieme a Oddone B.Saltini, l’opera "La tana della tigre"), ma al di sopra di tutti si colloca l’amore per la poesia. E’ un amore dapprima originario, istintivo, che egli si ritrova dentro alla stessa stregua degli altri appetiti. E’ l’amore per la musicalità del suo dialetto, per la bellezza espressiva di quel dialetto che tutti parlano nel borgo, per la unicità comunicativa di quella che è la sua prima lingua, per la pregnanza formale e anche per la connotazione di classe che il dialetto può rappresentare. La sua iniziale produzione poetica è pertanto in dialetto, che, comunque, non abbandonerà anche in seguito.

I temi sono diversi e vanno dalle esperienze quotidiane ai problemi sociali, alla natura e all’amore.

La poesia può dar vita all’indicibile nel momento in cui sa far "sentire", sa far vibrare le corde più nascoste dell’anima; può permettere la conciliazione, almeno sul piano artistico, degli opposti inconciliabili, delle contraddizioni inestricabili della nostra complessa esistenza.

La poesia può offrirci, ad esempio, l’anatomia di un sentimento, ma dal vivo, nel suo caldo sorgere e nel suo drammatico manifestarsi. Si veda "Malinconia". Il sentimento esce quasi di prepotenza dall’ambiente, dal corpo, dal paesaggio, da un incontro casuale... e tutto coinvolge, tutto, tutto, al punto che "at fa scordèer/perfîn/al sfrutamèint/la fadîga." ("Ti fa scordare/persino/lo sfruttamento/la fatica"). Il sentimento è corpo, è "un quèl/ch’et ghèe ind-al stòmegh" è "un quèl... ch’agh mâgna al fédegh" ("è qualcosa che hai nello stomaco" "un qualcosa... che mangia il fegato").

La forza delle espressioni dialettali s’impone con immagini che rendono addirittura corporea la comunicazione e noi ci troviamo letteralmente "in un spîgh" dove "gh’é ancòra al sôl" ("In uno spigolo" dove "c’è ancora il sole") o a "calsèer/ i sâss col mân in sâca/in na stèeda/dove en gh’é pió gnân un cân." ("Calciare/i sassi con le mani in tasca/in una strada/dove non c’è più neanche un cane").

Delmonte sente poi la necessità della riflessione, della lettura e conoscenza dei poeti del passato e del presente, della ricerca della sua identità poetica che ha comunque bisogno di punti di riferimento, di basi su cui innestarsi o perlomeno di scoprire e di sapere su quale strada storicamente segnata egli si sta muovendo e vuole muoversi, visto che per lui poesia non è sfogo intimistico o analisi critica al di sopra delle parti di un individuo chiuso in un’asettica torre più o meno d’avorio.

La suggestione esercitata da autori come Brecht, Majakowskij, Eluard, Hikmet, Neruda è certamente legata alla vicinanza ideologica e alla specificità del momento storico, ma questo è il filone in cui si riconosce, in cui s’identifica e ancor oggi, benchè condivida l’amara constatazione di Fortini: "La poesia/non muta nulla.", crede anche che (sono sempre parole del poeta fiorentino): "Nulla è sicuro, ma scrivi." (F.Fortini, Traducendo Brecht, in Una volta per sempre. Poesie, 1938-1975, Torino, Einaudi, 1978, pag.218)

Se è vero che l’arte non può certamente sostituire la lotta politica per le trasformazioni e i cambiamenti sociali desiderati, è vero anche che rimane uno strumento insostituibile contro il pericolo, sempre attuale, di disintegrazione, di scissione, di frammentazione dell’Io e della società; uno strumento che può offrire qualche aggancio per non perdersi, per non calarsi nel profondo mare della solitudine e dell’isolamento, per non dimenticare che il "male di vivere" è comune e per non trascurare quell’immenso patrimonio collettivo che pure è alla base della nostra storia.

Queste sono le idee che hanno animato Delmonte quando, molto coraggiosamente, ha dato vita alla rivista di poesia, arte e cultura "DEA CAGNA" attraverso la quale, fra gli altri obiettivi, intende riproporre quei poeti di ogni tempo e di ogni paese che hanno fatto della poesia la loro arma trasgressiva, l’espressione del loro impegno politico e del loro anticonformistico opporsi al potere.

Per alcuni questa operazione è anacronistica; può darsi, ma le risposte sinora ottenute fanno pensare che forse non è così certa la distanza da reali esigenze presenti nel mondo d’oggi, soprattutto nei giovani.

Certo è che con questa iniziativa, che comporta un notevole impiego di energie intellettuali ed economiche, Delmonte vuole anche sperimentare la possibilità di fare cultura in prima persona, di non delegare ad altri scelte e gusti personali, di non "subire passivamente" decisioni altrui, ma di poter porsi dialetticamente a confronto misurandosi direttamente con l’esterno e per questo la rivista offre spazio alle voci nuove.

Voce nuova è anche la sua. Voce che diventa "Canto disperato", "Urlo bianco" dopo che "Il grande albero" dei principi e delle idee "che solo/sfidavi il vento/... muro possente e antico/contro il tuono" è stato abbattuto e "Gli occhi luccicanti/del tempo/si vendicano/beffardi/indicando/piramidi rovesciate."

Il tema del tempo è ricorrente, dolorosamente ricorrente. Nella brevissima poesia "Anni" (sono solo 11 parole), l’effetto di tutto il carico di "lunghi/anni" è perfettamente raggiunto e il contrasto fra la leggerezza di quel "ho danzato" e la violenza di "tempeste" è di grande efficacia espressiva.

L’angoscia della vita non vissuta, della violenza che uccide la vita è al centro di "Vivere", ma qui c’è anche tutta la consapevolezza che l’impossibilità di vivere non è nè legge di natura, nè frutto di una forza demoniaca, ma "c’è gente/che ci impedisce/di vivere!" e la vita "soffocata/dai giorni sempre uguali/uccisa/dai luoghi comuni/l’ha ingoiata per prima/la noia."

La devastazione più angosciante è presentata nel poema "Istanti del tempo". In esso troviamo tutto ciò che non vorremmo sapere, tutto ciò che non vorremmo incontrare, tutto ciò che non vorremmo riconoscere: "Disperso in un vivere/effimero/scompaio/nel disordine dell’ombra/che annulla gli occhi/confonde i cervelli/distorce il tempo."

L’insoddisfazione, la tristezza, i volti anonimi, il tempo "troppo veloce/e micidiale come un I.C.B.M." si abbattono sul poeta "sciacallo vecchio e tremante... spezzato dall’assenza struggente di dolcezza" e ne distruggono ogni illusione: "Abbiamo abbandonato/le nostre armi/ai vili... /E ora vomitiamo/la vita/all’angolo/poco illuminato ...".

Gli interrogativi si fanno pressanti, martellanti: "Dov’è il senso/di questa vita?" "Cavallo di primavera/perchè non sei mai/arrivato?!" "Caro/dolce/Nazim/vecchio Hikmet/dimmi: /""Che destino è mai questo!"" e raggiungono un climax di drammatica intensità quando il poeta si chiede: "Non riuscirò mai un giorno/a colmare/a illuminare un poco/l’antro/vuoto/che ho dentro?/Non riuscirò mai un giorno/ad attenuare/il fragore innaturale/l’inquietudine/della mia mente?"

Bellissima la chiusa nella sua scarna essenzialità: "Non sono un eroe./Sono un uomo."

"Sono un uomo" e come tale "Ho dovuto trasformarmi/nel carceriere di me stesso", così recita successivamente in "Quell’alta violenza che mi getto addosso". E infatti non è forse violenza dover soffocare non solo i sogni, ma anche quella parte di sè che aspira ad una autentica libertà individuale e sociale; dover reprimere non solo gli slanci creativi, ma anche gli entusiasmi possibili?

Del resto, al momento, "non è rimasta altra via di scampo".

Tuttavia, pur nel carcere -metafora terribile della vita- non bisogna cedere alla morte, alla distruttività dilagante: "Devi vivere!/Devi vivere!" e il canto del poeta si diffonde oltre le ferree sbarre, oltre le anguste celle.

Canto del poeta è quello di Delmonte per la forza trascinante dei suoi versi; per quella ricca aggettivazione che, spesso apparentemente realistica, sa innalzare le immagini e le cose in un ambito altamente evocativo e suggestivo; per il ritmo incalzante; per la potenza comunicativa delle parole suscitatrici di profondi sentimenti; e in un’epoca così schizofrenica come la nostra, così alienata, così desolatamente omologata, così mortalmente frastornata, saper smuovere e far palpitare la "capacità di sentire", credo sia aver già trovato una prima risposta a quegli inquietanti interrogativi di "Istanti del tempo", un portare un poco di luce al nostro "antro vuoto", un acquietare "il fragore innaturale" delle nostre menti.

FRANCA PINNIZZOTTO


MALINCONIA

Gnîr a cà

dòpa tanti ôri ed lavôr

pinsând a un quèl

ch’et ghèe ind-al stòmegh

che in sèrt momèint

at fà scordèer

perfîn

al sfrutamèint

la fadîga.

Magnèer

un pcôn ed pân

ed côrsa

bèver

na botéglia ed col bôn

sèinsa sintèirn’al savôr

perchè

et ghée

ind-la mèint sôl un lavôr.

Andèer

fôra a pée

sèinsa la màchina

fèer dû pâss

da per té

calsèer

i sâss col mân in sâca

in na strèeda

dove en gh’é pió gnân un cân.

In un spîgh

gh’é ancòra al sôl.

Ciapèer col pòo che ghé rméez...

E té

ch’et pèins a lée.

Catèer un amîgh

un

ch’et cgnòss e bâsta

dîr doo coionèedi

fèer trèi ridûdi

e ló ch’at fà

et vèd bèin

t’ée alêgher!

L’ée pròpia n’imbambìi.

Al pió dal vòolti

chi réd e schèersa

ai fà

per nascònder un quèl

ch’al ghà dèinter

e ch’agh mâgna al fédegh.

Mó fà gnînt...

Col quèl

ind-al côr

l’ée malinconia

o forse n’èeter lavôr

divèers.

Pinsèer a lée

mó en savèier mia

n’dó lée

en vèderla quêsi mai

en savèier mia sla ghà ind-la tèsta

e pó...

Ormai l’é cèera

l’an sà gnân chi tée...

Mó l’é listèss!

MALINCONIA

Andare a casa

dopo tante ore di lavoro

pensando a una cosa

che hai nello stomaco

che in certi momenti

ti fa dimenticare

perfino

lo sfruttamento

la fatica.

Mangiare

un pezzo di pane

di corsa

bere

una bottiglia di quello buono

senza sentirne il sapore

perchè

hai

nella mente solo una cosa.

Andare

fuori a piedi

senza la macchina

fare due passi

da solo

calciare

i sassi con le mani in tasca

in una strada

dove non c’è più neanche un cane.

In un angolo

c’è ancora il sole.

Prendere quel poco rimasto...

E tu

che pensi a lei.

Trovare un amico

uno

che conosci appena

dire due cazzate

fare tre risate

e lui che ti fa

ti vedo bene

sei allegro!

E’ proprio un coglione.

Il più delle volte

chi ride e scherza

lo fa

per nascondere un qualcosa

che ha dentro

e che gli mangia il fegato.

Ma non fa niente...

Quel qualcosa

nel cuore

è malinconia

o forse un’altra cosa

diversa.

Pensare a lei

ma non sapere

dove sia

non vederla quasi mai

non sapere cos’ha nella testa

e poi...

Ormai è chiaro

non sa nemmeno chi sei...

Ma è lo stesso!

 

 

ISTANTI DEL TEMPO

Disperso in un vivere

effimero

scompaio

nel disordine dell’ombra

che annulla gli occhi

confonde i cervelli

distorce il tempo.

Ho lasciato la vita rotolare

ai margini della strada

ho abbandonato

rantolante

una vita barcollante

lungo il ciglio

di un marciapiede qualunque

anni ceduti per poche lire

alla malinconia

anni assopiti

anni feriti

sanguinanti

trascorsi

a inseguire solitudini

immobile

in bilico

su una finestra del primo piano

braccato dall’insoddisfazione

vinto

dalla tristezza

menti cancellate

pesanti come marmo rosso

volti senza volto

sguardi appiattiti

anonimi

occhi

senza pupille nere

messaggi di ferro

corroso

da un tempo troppo veloce

e micidiale come un I.C.B.M.

si trascinano

senza parole

come ombre strisciano

di osteria in osteria.

Curvo

sotto il peso

100 Megatoni

del vuoto

per l’assenza di idee

mi muovo per una città

troppo familiare

e per questo

ormai estranea

accumulando nell’animo

solo lattine di birra

chiudendo gli spazi

vuoti del tempo e delle idee

con vino e sbornie

senza orgoglio

senza più rispetto per Ramon

sciacallo vecchio e tremante

piegato in due

dalla mancanza di vita

spezzato

dall’assenza struggente di dolcezza

che tenta

ugualmente

di vivere

aggrappandosi

disperatamente

alle tempeste

ai ghiacci del cielo

nella speranza

di una sporgenza

anche minima

un appiglio

anche tagliente

le unghie tese

affilate

come aratri immensi

tracciano

solchi profondi

abissi infiniti.

Abbiamo ceduto

le armi!

Abbiamo abbandonato

le nostre armi

ai vili...

E ora vomitiamo

la vita

all’angolo

poco illuminato

dall’odore acido

di un nero

stretto

sporco

vicolo

dopo aver bevuto

tristezza

a grandi sorsi

sputando

svendendo

gli anni

passati a urlare invano

alle pietre

quando neanche più i muri

ti accompagnano

con le loro parole

spezzati

soli

nel buio

di cessi puzzolenti

per avere un attimo di

illusione

e non rimpiangi i giorni passati

e non sai più nemmeno

se sei vivo

se esisti

o un pallido spettro vagante

barcollante

di quello che eri

giorni a pezzi

sere atroci

notti lancinanti

dal buio angosciante

percorse

lentamente

fino a lasciare i polmoni

tra i rifiuti dell’asfalto

vomitando dolore

veleno

che non riesco a bruciare

piango

guardando quel buio infinito

chiedo intimorito

alla notte

di avvicinarsi.

Vorrei sapere...

Quale vendetta

ingiusta

perchè!

Metallo inerte

immobile

impassibile

spettatrice

dell’unico spettacolo infinito

notte implacabile

mi ricordi

mi getti nella mente

come frustate schioccanti

il peso della disperazione

la mia tristezza inaccessibile

il richiamo desolato dell’angoscia

la malinconia senza tempo.

Destino

vorrei

fare

un baratto con te.

Non ho molto da proporti

forse non ho niente.

Vorresti la mia anima?

Dicono che un’anima

valga molto.

Più di ogni altra cosa.

Eh!?

Che ne dici?

Ti andrebbe bene?

A essere sincero

non è che per me

abbia particolare valore.

Non vale molto

ciò che non esiste.

Non rispondi?

Perchè?

Nessun accordo

con chi dispone

solo

di anime.

Furfante

ladro

canaglia

tempo

vile

che strazi

la mia giovinezza

destino

che hai il potere

di trasformare

una vita in inferno

dov’è il senso?!

Dov’è il senso

di questa vita?

Che vita è mai

questa?

Sperare

desiderare

follemente

aspettare

spasimante

che alla tristezza

si aggiunga un momento di felicità

per poi diventare preda

agonizzante

del timore

mentre il nulla ti avvolge

lupo affamato

e non hai niente

e la realtà

si trasforma in nemico?

Ormai

l’illusione

siede sul trono

della realtà

il sogno

prende posto accanto alla realtà

piacevole

l’unico che può darti

anche per un solo istante

speranza

felicità

dolcezza

assurdamente negate

il sogno

l’illusione

con la loro segreta

strana

impalpabile

dolcezza infinita

diventano

quell’istante magico

di sollievo

che titubante

cerchi

ma con tutto te stesso

la fuga dalla vita

la fuga dal reale

gli occhi

lontani

illusione

sogno

sogno

illusione

illusione

sogno.

L’impotenza

che è nel nulla

ti circonda

ti penetra

ti assale

conquista il tuo corpo

che dà sempre meno

segni razionali di vita

e a volte

il pensiero quasi inavvertitamente

si spinge persino

al soprannaturale

nel tentativo vano

di sconfiggere il nulla

ma il nulla

rimane

amara certezza

che a volte ti è dolce

a volte inaccettabile

impossibile.

Cavaliere

tra le ombre

che irrompi

senza dio

accanto al sogno

nel tentativo

di abbattere

nemici

tutti gli ostacoli

nel nulla...

Fascino maledetto!

Non esiste vita

oltre la vita

non esistono

frammenti

di vita

oltre la vita.

E cerchi di assaporare

l’ultima

sottile

fremente

tremolante

goccia di vita.

Cavallo di primavera

perchè non sei mai

arrivato?!

Perchè non mi hai

ancora raggiunto?

Ho cenato

a lume di candela

in ristoranti lussuosi

bellissimi

ho camminato per mesi

in una prigione

poi in un’altra

peggiore

per finire in un’altra ancora

peggiore delle prime due

se questo poteva essere possibile.

Per tutto quel tempo

ho contato tre passi

solo tre passi

era lo spazio che avevo

e ancora oggi

non riesco a dimenticare

di avere contato tre passi per mesi!

E ora

continuo

a camminare

con le macerie

in un cuore soffocato

e mi vengo sempre a trovare

seduto

per caso

a giocare

allo stesso rosso tavolo della tristezza

della noia

della malinconia

con la paura

terribile

che mi assale

che mi gela

quando mi accorgo

del ripetersi

dei giorni

sempre uguali.

Ho bussato

tante volte

alla parete rocciosa

del destino

ho tentato

di parlare d’amore

ho cercato perle

nei mari bianchi

tra le onde accecanti

del mattino

che nasce

giorni perduti

giorni

mai avuti

ho cercato

di riempire

l’esistenza

con le grandi verità

i princìpi

le idee

l’arte

l’amore

la fama

l’orgoglio

le cose che contano...

Impossibili!

E sapevo di mentire a me stesso!

Nel tentativo di

coprire

la solitudine

la tristezza

la malinconia

l’insoddisfazione

e sapevo!

Manichino

mosso da altri

che regolano l’esistenza

sempre in giro

pazzo

a cercare

qualcosa

che non ho

che non avrò

quante bottiglie

riempite delle speranze

più strane

più diverse

mi si sono fermate davanti

per confondere i miei occhi

per nascondere alla mia mente

i fallimenti

per dimenticare

per non vedere

quel lampo

d’acciaio

quel raggio elettrico

che insegue

questo treno di vita incolore

che vuole colpire

che vuole uccidere

anche quel poco che resta.

E quando non potrò più avere ricordi?

E quando il sorriso

abbandonerà

definitivamente

il mio viso

il mio cuore?

Occhi misteriosi

avete mai

immaginato

dove andrete a morire?

Solo!

Anche nell’ora più infame

più desiderata

più odiata

più amata

più temuta.

Almeno non mi costringeranno

a guardare

come uno sberleffo

le facce piangenti

di chi il giorno dopo

riderà

e forse

vorrei

essere io

a decidere

della mia ora.

Caro

dolce

Nazim

vecchio Hikmet

dimmi

""Che destino è mai questo!

Diventare polvere,

terra immobile.

Una nostalgia amara

un fumo nero,

o mia bella,

che destino

è mai questo!

Una tristezza così grande

a questo punto,

mia stella,

non la conosco che io.""

Alcune finestre della vita

si stanno chiudendo.

Anche i forti

impallidiscono

si piegano

sotto il peso

della tristezza.

Tendo l’orecchio

al battito

delle stelle

al passare

sommesso

avvolto in un impermeabile

grigio chiaro

col bavero tirato in su

in incognito

del tempo.

Non riuscirò mai un giorno

a colmare

a illuminare un poco

l’antro

vuoto

che ho dentro?

Non riuscirò mai un giorno

ad attenuare

il fragore innaturale

l’inquietudine

della mia mente?

 

Qualche goccia

del grande sogno

cadrà mai

sui miei occhi?

 

E tu Luna

ti prego

non ridere di me.

 

 

Sto pagando troppo.

Non sono un eroe.

Sono un uomo.

 

 

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Ultima modifica 02/08/97