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Usi
e costumi
Il tramonto del linguaggio dialettale melegnanese fu provocato dalla accettazione universale della lingua italiana, entrata in tutte le famiglie di Melegnano, specialmente parlata dalle nuove generazioni del dopoguerra. Ed il tramonto del dialetto melegnanese trascinò nella dimenticanza fenomeni abituali paesani, come quello di affibbiare un soprannome alle persone, con una parola schiettamente dialettale. Invece l’evoluzione culturale, nozionistica, e soprattutto razionalistica, legata inconsciamente al neopositivismo in filosofia, con il rifiuto della metafisica sempre più accentuato ai nostri giorni, ha dato inizio alla erosione ed al dissolvimento di usi, di comportamenti, di modi, di manifestazioni che erano abituali per secoli a Melegnano e che si sono lungamente protratti. Quasi sempre si tratta di un insieme di credenze che si appoggiano su presupposti emotivi, sentimentali, ricchi di fantasia, ed in nessun modo razionali, e che toccano diversi campi, a seconda del modo di angolazione con cui sono considerate. Comunque essi rappresentavano un substrato emozionale popolare melegnanese, vivo per secoli, alimentato dalla ferrea resistenza della tradizione paternalistica legata il più delle volte alla ignoranza incolpevole del popolo melegnanese dei secoli passati. Usi, comportamenti, modi, manifestazioni che si esprimevano dal settore religioso, istrionico, civile-commemorativo, terapeutico, con mescolanza di chiara superstizione. Il Falò di S. Antonio, che si accendeva nei cortili melegnanesi o sulle piazzette, alla sera del 17 gennaio, festività di S. Antonio abate, uno dei fondatori dell’ascetismo e padre degli eremiti, cui si attribuiva il potere di vincere l’eresipela del bestiame, e ritenuto protettore contro il fuoco e le fiamme. Nel pomeriggio di tale ricorrenza i ragazzi entravano nei cortili, nei bugigattoli di deposito di legname e di materiale da bruciare, e rubavano perfino i secchi, le assi per lavare e le forcelle per tendere i fili del bucato da asciugare. Se ne faceva un mucchio alto e verso sera si appiccava il fuoco, e tutta la gente del vicinato stava attorno alla fiamme parlando, con il solito baccano dei ragazzi. In seguito tali falò a Melegnano sono stati proibiti sia per tutelare le case da possibili incendi, sia perché i luoghi per i falò si restringevano, sia per i fili della corrente elettrica. Parecchie donnette prendevano le braci da quel fuoco e le mettevano nella scaldina per riscaldare il letto prima del sonno notturno. Legati al periodo della settimana santa e della Pasqua stavano le uova della settimana santa bevute a digiuno al mattino ritenute salutari ed efficaci contro la matrìssia e il paternòn, che altro non era che il vomito schiumoso di chi aveva mal di fegato e dell’apparato digerente. Caratteristiche erano le tradizioni legate alla Pasqua: le foglie di ulivo piantate nelle uova sode tagliate a metà il mezzogiorno di Pasqua; bagnarsi gli occhi al sabato santo quando le campane suonavano a distesa il ressurrèssi per annunciare che Gesù era risorto con una luce sfolgorante da colpire gli occhi delle guardie che curavano il sepolcro. Dilungate durante l’anno continuavano altre forme espressive tradizionali legate alla festa dei santi: la vigilia degli apostoli Pietro e Paolo, la sera del 28 giugno, in un vaso di vetro chiaro pieno di acqua si versava l’albume di un uovo, perché nella notte, esposto alla rugiada, si doveva formare il disegno di una barca, simbolo della barca del pescatore palestinese; il 23 agosto festa di F. Filippo Benizi, celebrato nella chiesa dei Servi al borgo Lambro, si distribuivano i michini, che erano piccole pagnottine rotonde con il segno della croce, contro le malattie e per ottenere la protezione del santo; alla festa della decollazione di S. Giovanni Battista in chiesa prepositurale, alla messa in canto, si bruciava il pallone, appeso in chiesa e tutto ornato, con la pronuncia della frase: cos’i passa la gloria del mondo, sic transit gloria mundi: alla sera della vigilia dei Morti, il giorno uno novembre, la famiglia raccolta attorno al fuoco o alla stufa recitava tre rosari mentre bollivano le castagne. Più spiccatamente superstiziose erano il passare sotto uno stendardo, da una parte all’altra della via, mentre si svolgeva una processione sacra, con l’intento di ottenere la protezione del santo raffigurato sullo stendardo; far toccare fazzoletti, maglie, biancheria al quadro o alla statua di qualche santo o della Madonna, per metterli a contatto con qualche persona ammalata di casa; togliere il manto dell’effigie dell’Ecce Homo, che è nella chiesa di S. Pietro, per indossarlo a qualche infermo ormai considerato spacciato dal medico e diminuire il tempo dell’agonia, quando diventava lunga e penosa; portarsi nella chiesa del Carmine, all’altare di S. Diego e legare, con le mani dietro il dorso senza guardare, un nastrino alla balaustra dell’altare per ottenere la guarigione contro le febbri lunghe (e probabilmente erano dette febbri lunghe le febbri della tubercolosi) che erano dette, in dialetto, le febbri dei cunsùnt. Feste rionali Le feste rionali, poi, avevano tutta una loro vita festosa, dalla novena con le campane a festa il mezzogiorno e le «campanate» alla sera, gli addobbi in chiesa, le illuminazioni per le vie, il pranzo più abbondante, le osterie più affollate, la processione con partecipazione e curiosità degli altri rioni, le liti tra i prevosti e qualche osteria perché si organizzavano i balli contro i quali si tuonava dai pulpiti, la visita verso sera alla chiesa della festa, e il ribattino al lunedì. Speciali congregazioni rionali religiose erano addette anche per portare la statua della Madonna, ed i membri della congregazione dei portatori avevano un loro abito che li distingueva, e parecchie volte alcuni portatori si mettevano a portare la Madonna che erano già ubriachi o brilli per il vino bevuto a pranzo o fin dal mattino alle osterie, e parecchi di essi andavano alla chiesa solo in quelle occasioni. E queste feste rionali tenevano un loro soprannome: la festa di spassapulée, che era quella del Carmine perché si diceva che quelli di là del Ponte di Milano e quelli del Carmine rubassero le galline come loro abitudine; la festa di rùscapelòi, che era quella di San Rocco in agosto, alla quarta domenica, mentre quella del Carmine era alla quarta di luglio; ed in agosto vi sono le angurie e la parte delle angurie che non si mangia era detta pelòia, e siccome tale festa si celebrava proprio nel periodo delle angurie, ecco che la festa di San Rocco era detta la festa dei rùscapelòi cioè di quelli che prima mangiavano la polpa dell’anguria e poi ne rosicchiavano anche la parte bianca; la festa dei goss, che era quella dei Servi alla quarta domenica di settembre, ossia la festa dei gozzi, meglio degli ingordi, forse per una lontana memoria di pozzi con acque inquinate che erano origine di deformazioni alla gola, oppure per l’ingordigia nel mangiare o anche per una certa chiassosa intemperante baldoria, o per il collo grosso della Madonna dei Servi. La Serafina Una figura caratteristica nel settore della superstizione locale era la « Serafina », cioè la Serafina Meazza, sposata, separata dal marito, morta appena dopo la seconda guerra mondiale, abitante nella corte degli angioli. La gente di Melegnano la credeva indemoniata ed in contatto con il diavolo, con il quale si sarebbe intrattenuta tutte le notti. Fin dal 1915 essa leggeva le carte ed interpretava il futuro di chi andava da lei per sapere gli avvenimenti del destino. Viveva con questa arte, e spesso seminava di sale il suo cortile per attirare la gente a farsi predire il futuro. Naturalmente i suoi artifici erano strani, medievali, circondati da stupore e da curiosità: segnava la presenza del verme solitario nei bambini; parlava da sola sotto il camino; preparava filtri d’amore con il sangue di drago; mandava i topi in casa dei suoi presunti nemici; mandava i malefici e faceva le « fatture » contro chi non le dava l’aglio. Nel campo amoroso si credeva innamorata di un aviatore che era impersonato da diversi tipi: Giulio Cesare, Diego colonnello, il Capitano. E quando un aereo volava a bassa quota, essa correva per tutta Melegnano invasa da follia amorosa. Una volta alcuni giovani imbastirono la farsa clamorosa delle nozze tra la Serafina e l’aviatore, con un corteo serale per le vie dei rioni melegnanesi. Le dicerie sulla sua pazzia erano comunque parecchie e intinte di stranezze, come quella dell’ufficiale nel tempo della prima guerra mondiale che la Serafina teneva legato con le sue arti magiche, obbligandolo a casa sua, in corte degli angioli tutte le sere, e qualora non fosse andato, l’ufficiale per tutta la notte aveva la diarrea. La poca normalità psichica le faceva commettere anche azioni che potevano essere pericolose: durante la seconda guerra mondiale, in pieno oscuramento del paese, lei di notte usciva con la candela accesa anche in caso di allarme aereo. Alla fine della sua vita viveva di elemosina. Dobbiamo dunque dire che tutte queste tradizioni, usi, costumi e superstizioni, sono soltanto una parte di tutto il variopinto mondo irrazionale melegnanese di tutti i secoli. Ecologia Nel corso dei secoli Melegnano ebbe tesoro naturale la limpi-ità delle sue acque e la purezza dell’aria. Le acque dei fossi che correvano in periferia e dentro l’abitato melegnanese erano chiare e pulite, e servivano per diversi usi: l’irrigazione degli orti e dei giardini che erano abbastanza numerosi a ridosso e dietro le abitazioni, soprattutto in periferia e nei rioni popolari; la lavatura dei panni e della biancheria, in misura notevole, perché quasi ogni giorno le donne di casa si mettevano chine o in ginocchio lungo il margine delle acque correnti per lavare e risciacquare; il bagno corporale dei ragazzi nei mesi estivi, quando nei pomeriggi, a gruppi, nuotavano e godevano della frescura nell’onda pulita. Inoltre questi fossi erano ricchi di pesci, specialmente di tinche, di carpe, di temoli, e in alcuni punti particolari si annidavano in notevole quantità le anguille. Ma col tempo i fossi melegnanesi sono stati coperti e nascosti alla vista, specialmente per necessità urbanistiche. L’unico corso d’acqua che ancora rimane ai nostri occhi è il fiume Lambro. Ma sia i fossi nascosti, sia il fiume Lambro sono acque ammalate e inquinate. Le cause dell’inquinamento delle acque sono dovute ad industrie che scaricano i residui di lavorazione nelle fognature; a ciò si aggiungono i liquami domestici non biodegradabili, cioè non attaccabili dai batteri presenti nelle acque, e quindi indistruttibili. Inoltre la purezza dell’aria era assicurata dalle numerosissime piante che in Melegnano e nella periferia rurale crescevano quasi come patrimonio necessario e come una normale abitudine di vita agreste: ogni cortile, ogni piazza melegnanese, ogni vicolo e ogni angolo aveva i suoi alberi. Da ciò l’ossigeno abbondante e la utile funzione depurativa costantemente e naturalmente assicurata. La speculazione edilizia, la necessità di ristrutturazione urbanistica in sviluppo, il bisogno di spazio libero e vuoto da impedimenti, ed anche una irragionevole trascuratezza e svalutazione del valore degli alberi, hanno operato una decimazione ed una rarefazione degli alberi. L’equilibrio della natura fu alterato, l’ossigenazione dell’aria fu turbata, e la respirazione vegetale ed animale incomincio a risentirne. I fumi della motorizzazione e del riscaldamento immettono ossido di carbonio e benzopirene nell’aria che respiriamo, tanto più che è sempre in aumento a Melegnano il numero delle automobili e dei camini. Talvolta sono colpevoli i sistemi di riscaldamento con combustibili che lasciano troppi residui, a volte è la cattiva conduzione della caldaia. Gli aerei che passano a bassa quota sulla traettoria verso gli aeroporti milanesi, e che parecchie volte si soffermano a girare, nell’attesa del loro turno di discesa, danno un forte aumento per la corruttibilità dell’aria respirabile, oltre agli effetti negativi dei rumori. Le punte massime della degradazione dell’aria melegnanese si hanno logicamente nei momenti di traffico lento e intenso, soprattutto nelle vie centrali che rappresentano le arterie insostituibili per il traffico nelle ore serali, domenicali e festive: la struttura delle vie melegnanesi è articolata in maniera da sopportare il traffico di tipo artigiano tradizionale, e le stesse vie centrali sono, in alcuni punti, molto ristrette; da qui risulta il conseguente concentramento di traffico difficoltoso e lento, e quindi una immissione sempre maggiore di gas velenosi nell’ambito della nostra città. La flora Nel discorso ecologico si inserisce la considerazione sulla flora e sulla fauna melegnanese. La flora melegnanese, che è l’insieme delle piante e dei fiori formanti il regno vegetale, è molto varia, anche se a prima vista non apparirebbe così. E’ vero che in alcune zone vi erano alberi oggi scomparsi: piazza della chiesa del Carmine; piazza della stazione ferroviaria; via Frassi; in fondo a via Monte Grappa; sul lato del Castello verso via Predabissi; e in parecchi cortili pubblici e privati. Si pensi anche che, per secoli dove attualmente vi è la piazza Matteotti e si trovava il cinema Sociale, sorgeva un grande giardino quasi come un parco ricchissimo di alberi secolari, ed era il giardino Visconti. Ogni casa melegnanese, sia in centro sia in periferia, aveva quasi sempre un pezzo di orto, dove si coltivavano ortaggi e verdure e fiori, ma dove vi erano anche alberi ornamentali o fruttiferi. E tutto questo formava una naturale continua produzione di ossigeno per il territorio umano melegnanese. Gli alberi che ancora esistono a Melegnano sono specialmente i tigli (Tilia platyphilla hibrido argentea), come alberi ornamentali di alcuni viali; platani (platanus orientalis); pioppi (populus nigra fastigiata o cipressina); ippocastani (aesculus hippocastanum); cedri (cedrus atlantica glauca); robinie (robinia umbraculifera); laurocerasi (prunus laurocerasus); tassi (taxus baccata); magnolie (magnolia grandiflora); cipressi (cupressus sempervirens); pini (pinus silvestris); salici (salix alba); salici piangenti (salix babilonica). Il parco Da dodici anni e aperto al pubblico il parco, adiacente al Castello Mediceo, su vasta zona verde, dove prima erano alberi secolari e giardini e orti di persone private. Da secoli in quello spazio verde crescevano oltre 500 alberi; poi, sia per la guerra, sia per la vecchiaia delle piante, il numero andò diminuendo. L’attuale parco o giardino pubblico, già nelle intenzioni delle amministrazioni passate, fu concretato dall’amministrazione Danova e aperto quotidianamente alla gente, al passeggio ed allo svago di chiunque voglia trovare tranquillità e salute. In tal parco vi è ancora ricchezza di alberi, ed attualmente sono in numero di 180, divisi tra acacie, betulle, catalpe, faggi, liquidambar, pini, querce, salici; con una nutrita rappresentanza di piante da frutta, già in parte esistenti, albicocco, amarena, cachi, ciliegio, fico, melo, melograno, noce, nocciola, pero, prugna, susino. La funzione del giardino pubblico è principalmente di ordine pratico: deve offrire a tutti possibilità di svago, di movimento, di riposo, lontano dai rumori e dal pericolo del traffico. Un altro scopo del giardino pubblico è quello di interrompere la continuità dei fabbricati e delle case in serie con un elemento libero, generatore di ossigeno e posto nelle migliori condizioni per far penetrare nelle case una abbondante e compatta massa di luce e di aria pura. La fauna Un secondo fattore vivo ed operante in stretti rapporti con l’ambiente è rappresentato dalla fauna, cioè il complesso degli animali che trovano la loro vita a Melegnano. Si tratta comunque di animali comuni a tutti gli altri paesi e cittadine della Bassa Milanese, in simili condizioni di vita e di rapporti ecologici. Tuttavia il discorso sulla fauna melegnanese, dal punto di vista di interazione tra vivente e condizioni ambientali, si fa più interessante quando si vogliono puntualizzare alcune evidenti conseguenze negative. Vi è una fauna di passaggio stagionale e che si ferma solo per nidificare, come l’anatra alzavola, fischio e germano; e il beccaccino che si ferma anche in ottobre oltre che in primavera. Vi è una fauna che vive tutto l’anno nel melegnanese: il passero (fringilla domestica); il fagiano (phasianus colchicus); la quaglia selvatica (coturnix dactylisonans) che però è diventata rarissima; il falco dei campanili e delle torri del castello (pernis apivorus); l’upupa (upupa epops); la civetta (athene noctua); animali che stanno da noi diminuendo. Vi erano nei tempi passati altri animali più numerosi perché la loro vita era legata a fattori non soltanto ecologici, ma anche urbanistici e architettonici: la rondine (hirundo rustica); il pipistrello (vespertilio); il piccione (culumba livia); bisogna dire che le nuove costruzioni in cemento armato, con linea architettonica elegante e pulita non ammettono nel modo più assoluto la presenza di tali animali, come pure sta riducendosi il topo e lo scarafaggio, la cui vita era in rapporto al marciume delle abitazioni umide e vecchie: una zona melegnanese, l’attuale via Lodi, era stata denominata per secoli « borgo ratti », una denominazione, però, discutibile. Scarseggia dai nostri giardini ed orti la libellula (libellula quadrimaculata); il maggiolino (melololtha vulgaris); la lucciola (lampyris nocticula) e il calabrone (vespa crabro), e in numero assai limitato si vedono ancora il riccio (erinaceus europaeus) e la tartaruga (chelone imbricata). La lottizzazione e la progressiva scomparsa dei tradizionali cortili melegnanesi, ha ridotto quasi a zero ogni tipo di allevamento privato di galline, tacchini, oche, anatre; ed ha scoraggiato la presenza, prima abbondante, degli animali tipicamente domestici, cani e gatti, mentre sulle vecchie mura ancora si osservano al sole le lucertole. Una specie di mistero avvolgeva la zona del cimitero e della tomba di famiglia dei Buttafava, oltre la via Emilia. Si vociferava che vivessero strani tipi di animali, di vipere e bisce velenosissime, di ramarri e addirittura di serpenti. Ma la scomparsa clamorosa anche nel melegnanese è quella riguardante il cavallo, perché sono rimasti pochi esemplari quasi a titolo affettivo. La Fiera del Perdono del 1922 espose oltre 800 cavalli sulle piazze di Melegnano; la Fiera del Perdono del 1946, all’indomani della seconda guerra mondiale, organizzò la Mostra equina riservata agli allevatori per cavalle fattrici di ogni età, di tipo agricolo, gravide o seguite da rodeo; pariglie di cavalli di tipo agricolo; cavalli stalloni di tipo pesanti approvati per la stagione; ed una Mostra equina riservata ai commercianti per gruppi omogenei di cavalli dei due sessi di tipo agricolo e per pariglie di cavalli di tipo agricolo. Ed ora, dopo una o due generazioni, il cavallo è scomparso dal Comune di Melegnano; ultimo tenace conservatore ed estimatore era il commerciante di bestiame Giuseppe Domini. Lo studio ecologico riguardante il corso principale d’acqua melegnanese, il Lambro, è sempre incentrato sulla situazione dell’inquinamento. |
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