MARIO TEDESCHI

Dal libro :

"Si bella e perduta ( storia del battaglione Barbarigo )".


 

VI VEDEVO TUTTI BELLI (Intervista con Raffaella Duelli, ausiliaria del «Barbarigo», sempre in servizio.)

T - Tu sei fra le primissime donne italiane che abbiano fatto il soldato, perché prima non ce n'erano e sono nate con la Repubblica sociale...

D - Penso di si.

  T - Soldato sul serio, non come fanno adesso alle prove, con quei giochetti pubblicitari. D - Soldato sul serio, si.

  T - Quanti anni avevi quando ti sei arruolata?

  D - Mi sono arruolata il 18 marzo del 1944; il giorno dopo avrei compiuto 18 anni e perciò mio padre ha dovuto mettere la firma per autorizzarmi; firma che poi è stata anche autenticata in Delegazione. T - E poi, che ha fatto tuo padre?

  D - Mi ha accompagnato in caserma.

  T - Insomma, eri quella che a Roma chiamano «una fijetta de' casa».

  D - Come no, ero la più grande di cinque figli.

  T - Perché decidesti di arruolarti?

  D - Molto difficile, adesso, analizzare quelli che potevano essere i sentimenti di allora. Ero fascista, ma per quanto poteva esserlo una ragazzina di quell'età; avevo fatto parte della scuola di recitazione, avevo vinto i littoriali giovanili per la cultura, mi avevano rappresentato all'«Argentina» una commedia intitolata «Il richiamo del cuore»; insomma, la mia esistenza rifletteva quello che era lo spirito di allora. Mussolini era un po' un ideale, ma lontano. Il senso patriottico era profondo e pensavo sempre che i siciliani, al momento in cui le truppe americane o inglesi fossero sbarcate nell'Isola, sarebbero insorti. Li immaginavo secondo lo stile della Domenica del Corriere; vedevo questi contadini con il forcone in mano ributtare in mare gli invasori.

  T - Invece hanno fatto pappa e ciccia...

  D - Esatto; e proprio per questo l'8 settembre è stato determinante per me, come anche per mio padre. Il quale non era certo uno sfegatato; raramente lo avevo visto con la camicia nera. Era del '99, aveva fatto la prima guerra mondiale, era capitato giusto in tempo per prendersi i piedi congelati a Caporetto, e poi nient'altro. Però, dopo l'8 settembre, fu uno dei primi ad iscriversi al Fascio repubblicano.

  T - E l'arruolamento?

  D - Dopo mio padre, fui autorizzata ad iscrivermi anche io, ma nel frattempo avevo cominciato a svolgere lavoro assistenziale. Collaboravo con due ufficiali che facevano da tramite con gli internati, i primi internati in Germania, ed avevano un ufficio a Santa Croce in Gerusalemme. Parlavo il tedesco abbastanza bene, perché la mia nonna materna era austriaca. Insomma, cercavo di rendermi utile. Ma se dovessi dirti come sono arrivata a Fede Arnaud, francamente non me lo ricordo.

  T - Perché Fede, allora, veniva a Roma.

  D - Allora Fede stava a Roma e organizzava il nucleo delle ausiliarie che sarebbe stato poi col «Barbarigo». Io però non sapevo niente di lei; sapevo soltanto che al Distaccamento Marina c'era qualcuno che arruolava le donne, e li sono andata. Verso la metà di marzo, me lo ricordo bene perché io sono nata il 19 marzo e quindi avevo 18 anni meno un giorno. A casa non ci furono storie: papà venne e firmò. Per lui era giusto che fosse così.

  T - Senti, io ti ricordo bene perché, durante una «fuga» a Roma, venni al Distaccamento e voi stavate al pianoterra, entrando a sinistra nella caserma. D - Si, certo; io ero già in divisa.

  T - Si, e io avevo avuto una spallina e una mostrina squarciate da una scheggia di granata; venni lì e voi me le ricuciste in qualche modo.

  D - Era una delle poche cose nelle quali ero esperta, ed è rimasto sempre così; anzi, non è che la mia arte di cucito sia andata più in là delle mostrine e dei bottoni, nonostante i figli maschi.

  T - Come si svolgeva la tua vita da soldato?

  D - E cominciata subito, perché Fede immediatamente mi ha fatto restare al Distaccamento, negli uffici, dove abbiamo preso in mano quella che poteva essere la fureria distaccata del battaglione «Barbarigo». Quindi io ricordo di avere avuto nelle mani i primi avvisi di morte, le prime comunicazioni dei morti e dei feriti; poi ho conosciuto tanti di voi, giusto fra un intervallo e l'altro dal fronte.

  T - Si, quelle che noi chiamavamo le «fughe» e che duravano ventiquattr'ore.

  D - Poi c'erano le altre, che facevano servizio all'ospedale del Celio. Io, essendo al Distaccamento, al Celio andavo soltanto la domenica. Portavamo il rancio ai feriti. Ne ricordo due che tra l'altro poi sono morti: uno era Enzo Chiaverini e l'altro Maurizio Falessi. Dopo il 4 giugno 1944, ho avuto contatti con le famiglie di quelli che erano rimasti a Roma. Le ragazze arruolate da Fede, a mano a mano che si presentavano andavano a raggiungerla al Nord, dove aveva organizzato il centro scuola, a Sulzano.

  T - Tu, invece, fin quando sei rimasta a Roma?

  D - Fede mi aveva detto che dovevo restare fin che ci fosse rimasto il «Barbarigo». Dovevamo rimanere Maria Eva ed io, tanto che Fede ci aveva fatto fare apposta la divisa. Oltre a lei, l'avevamo soltanto noi due perché dovevamo essere come un simbolo.

  T - E poi?

  D - Il pomeriggio del 3 giugno si sentiva chiaramente il cannone che si avvicinava a Roma. Bardelli venne in caserma e mi disse: «Vai a casa ad avvisare che parti; prendi poche cose e viene su con noi, perché nessuno di noi rimane più qui». Ricordo perfettamente che, mentre stavo uscendo, lui era seduto con altri sui gradini nel cortile del Distaccamento e mi chiamò a voce altissima: «Raffaella!». Qualcuno gli aveva dato il nome, evidentemente. Mi voltai e lui mi disse: «Togliti la giacca e il basco». Io francamente lì per lì non capii; a Roma non ci aveva mai dato fastidio nessuno, anche a notte fonda, quando dovevo tornare a casa a piedi perché abitavo all'Alberone, sulla circonvallazione Appia, che allora era periferia. Però probabilmente il comandante Bardelli aveva pensato che se fossi andata in giro a piedi quella sera, in divisa, avrebbe potuto essere pericoloso. Mi fece telefonare ai miei, loro mi aspettarono. Mio padre mi accompagnò poi al Distaccamento e ancora adesso, ricordandolo come era, rigido, severo nei confronti delle figlie femmine, in particolare della più grande, che ero io, ancora adesso non riesco a capire dove abbia trovato il coraggio e la forza di accompagnarmi...

  T - ... e di farti partire...

  D - ... e farmi partire. Una cosa della quale ancora lo ringrazio. Perché ci volle tanto coraggio, e mio padre non era un coraggioso, anzi un pavido. Però quelle due manifestazioni, cioè quella di andare ad iscriversi al partito fascista repubblicano e quella di accompagnarmi, mi dimostrarono che evidentemente in lui dopo l'8 settembre era scattato un meccanismo. Del resto, noi eravamo una famiglia molto unita, in casa si parlò e si discusse anche su questo: qualcuno doveva fare qualcosa. Mio padre no, perché ormai era avanti negli anni e poi era capofamiglia; dopo di me, c'erano tre sorelle e un fratellino piccolo.

  T - Quindi toccava a te.

  D - Si, toccava a me. Penso che sia stato questo il motivo della scelta di mio padre, altrimenti non mi saprei spiegare il suo comportamento. Poi siamo partiti. Siamo andati via con un pullman guidato da quel Padelletti di Firenze, il sergente Padelletti, che portava sempre i guanti quando guidava e che ho continuato a frequentare anche dopo. Con noi c'erano alcuni feriti leggeri del Celio, perché quelli grandi erano già andati via barellati, in ambulanze. Nella notte fra il 3 e il 4 il pullman rimase intasato a Ponte Milvio, e allora ci rendemmo veramente conto di quello che poteva essere una ritirata. Con me c'erano Maria Eva e sua sorella Etta, Norma Bonanni e Antonietta De Simone, che poi fu uccisa a Vittorio Veneto. Eravamo in cinque. Arrivati a La Storta, la mattina del 4, gli aerei mitragliando ci hanno bruciato il pullman e noi siamo rimasti li nascosti sotto le siepi. Poi, la sera, sentimmo un vocio sulla strada e arrivaste voi, a piedi; voi della «ultima Compagnia».

  T - Gli aerei nemici avevano distrutto anche il nostro camion.

  D - Il vostro arrivo ci rincuorò; c'era Cicerone, c'era Posio, c'eravate voi che io avevo già conosciuto; si unirono a noi anche quelli della «Nembo». Li guidava il capitano Alvino; erano veramente conciati male, avevano combattuto a Castel di Decima tutta la notte. Ci siamo comunque arrangiati. Io per arrivare a Brescia ci misi diciotto giorni, sai. Anzi, per l'esattezza andai a Sulzano.

  T - Dove c'era il Centro Scuola.

  D - Si; però ricordati che durante la ritirata qualcuno dei nostri riuscì ad abbattere un aereo e questo, cadendo al suolo, esplose; alcune schegge mi andarono nella gamba destra. Naturalmente, quando arrivai a Sulzano, la gamba si era infiammata e Fede mi portò all'ospedale di Brescia, dove rimasi per una decina di giorni. Una volta guarita andai a Grandola, sopra Menaggio, dove si era trasferito tutto il primo corso delle ausiliarie. Alla fine di agosto abbiamo fatto il giuramento e poi siamo partite per la destinazione. Dalla fine di agosto al dicembre del 1944 io fui destinata alla segreteria del comandante Borghese, proprio a contatto con lui, insieme al capo Morbelli e al capo Scarpelli. Infine Cencetti chiese a Fede d farmi rientrare al reparto.

  T - E arrivasti a Vittorio Veneto.

  D - E sono arrivata a Vittorio Veneto, dove ci rivedemmo e ci incontrammo. E fu una cosa molto piacevole. Ero molto contenta di essere tornata al Battaglione e da allora l'ho seguito in tutte le vicende, fino in fondo.

  T - Io invece, come sai, finii in prigione a Milano, e tu conosci anche i motivi.

  D - Me lo ricordo; e poi noi ci siamo rivisti proprio a Milano, e tu mi hai riconosciuto nel cortile del Distaccamento Decima e mi hai chiamato dall'alto della prigione. Questo me lo ricordo benissimo, era vero il 29 marzo del 1945. Eravamo andati a Milano con Feliziani perché dovevamo ottenere dai Tedeschi alcuni camion e benzina.

  T - Quindi tu hai seguito il Battaglione a Gorizia.

  D - Io sono arrivata a Gorizia quando voi stavate rientrando dalla battaglia di Tarnova e sono venuta via col Battaglione, che poi andò al Senio.

  T - E al Battaglione, in questa ultima fase, che cosa facevi?

  D - Aspetta, devo dire un'altra cosa, perché non c'è soltanto Raffaella. Quando siamo partiti per il fronte del Senio noi ragazze siamo andate a salutare il centro scuola del Saf (il Servizio ausiliario femminile) della Decima, che si era trasferito sopra Vittorio Veneto, a Col di Luna. C'era il terzo corso e Fede, su richiesta di Cencetti, diede al reparto altre ausiliarie: due sarte, una infermiera, Onorina Merlino, che veniva dalla Francia ed era stata con Zingarelli ed aveva una diecina di anni più di me, poi Dora Castro le giovanissime Eugenia Cuculich, Paola Balletti, Panzeri Elettra e Tina Bertoloni. Tina Bertoloni, dai meravigliosi occhi azzurri, che spalancò in faccia al comandante inglese che a Padova ci chiese come mai noi donne ci fossimo arruolate e rispose, puntando il dito sui civili italiani che lo circondavano: «... al posto di questi signori che non hanno fatto...». Insomma, io voglio dire che al fronte non c'era una sola ausiliaria; eravamo sei.

  T - E cosa facevate mentre il «Barbarigo» era in linea, al Senio?

  D - Stavamo col comando. Io avevo in mano il ruolino del Battaglione.

  T - Praticamente, facevi il servizio della fureria.

  D - Del resto avevo cominciato a farlo a Roma e l'avevo continuato a Vittorio Veneto. Questo consentiva di liberare due o tre marinai. Poi, siccome ero pure interprete, ogni tanto mi usavano per questo servizio.

  T - E invece, nel periodo in cui ti trovasti alla segreteria di Borghese? Parlando con i nostri commilitoni, tutti quanti ricordano con grande entusiasmo Bardelli come una personalità straripante, mentre Borghese appariva più freddo e distaccato. Quale è il tuo ricordo?

  D - Bardelli l'ho frequentato poco, ma è vero che era straripante; però anche lui, quando arrivava il momento, sapeva essere freddo.

  T - Certo, quando era necessario Bardelli sapeva essere «tosto»; questa è un'altra cosa.

  D - Borghese, si. Per tanti mesi sono stata nella sua segreteria, ho avuto continuamente rapporti con lui. Forse è vero: era un po' distaccato o, per lo meno, mi metteva una gran soggezione. Cosa che con Bardelli non è mai avvenuta; Bardelli magari faceva una grande urlata. Borghese invece non l'ho mai sentito perdere le staffe, benché l'abbia frequentato per quattro mesi. Ti guardava con quei grandi occhi e ti annientava.

  T - Torniamo al Battaglione. Tu hai seguito il «Barbarigo» dal Senio fino a Padova.

  D - Si, fino alla fine. E quando arrivammo a Padova, al momento della resa, fu la cosa tragica, perché finimmo con il «Lupo», con lo «Scirè», con il resto del Reggimento, e c'erano altre sette ausiliarie; in tutto eravamo dodici, perché alcune di noi erano state spedite al Nord, a Thiene, un momento prima della ritirata. Nel momento in cui siamo stati catturati tutti insieme, gli Americani e gli Inglesi si sono portati via gli uomini e a noi dodici donne ci hanno lasciate nella caserma di Prato della Valle, dove c'erano gli Italiani. È stato veramente un momento da avere paura. Quando siamo entrati a Padova, noi siamo state accolte in maniera terribile. Marciavamo in silenzio, puoi immaginare in quali condizioni di spirito, e la gente quando vi vedeva urlava: «Maséle, copéle, strangoléle». A noi, capisci, «maséle», capisci. Però Cencetti e gli altri avvisarono gli Americani che c'erano dodici donne rimaste isolate e così, dopo 24 ore, vennero a riprenderci e ci portarono nei vari campi di concentramento. Siamo state in campo di concentramento a Terni e in due prigioni, a Terni e a Spoleto. A Terni l'allora Procuratore del Re ci aiutò molto e ci fece trasferire a Spoleto. Poi, a mano a mano, siamo uscite. Io sono rientrata a Roma alla fine di settembre. Ma non voglio continuare a parlare di quelle giornate. I miei ricordi meravigliosi sono legati ai momenti della riaccettazione della donna nel «Barbarigo», a dicembre del '44. Ed è stato molto difficile, te lo confesso.

  T - Si? Perché? A Roma sembrava tutto naturale!

  D - Prima di tutto perché, allora, noi donne eravamo abituate in maniera diversa da quelle di oggi, e la battuta, la barzelletta spinta riuscivano a ferirci, o infastidirci. Poi, ritornando, non trovai una grande accettazione. Ma c'erano i «romani», quelli che ci avevano conosciute al Distaccamento e al Celio; c'eri tu, naturalmente, c'era Cencetti, c'era Nicoletti, c'era Feliziani; e così, piano piano, ritrovai il clima che mi piaceva. Non fu facile perché, al momento di lasciarmi andare, Fede, la mia comandante, mi aveva detto che dovevamo farci dare del voi ed io, siccome ero graduata, dovevo esigere di essere chiamata col mio grado. Puoi immaginare cosa disse il buon Gattoni quando, entrata in caserma a Vittorio Veneto, mi presentai a lui, che era l'aiutante maggiore, e gli dissi: «Però datemi del voi e chiamatemi "scelta"». Fu un po' complicato, ma alla fine tutto divenne facile, come era stato all'inizio.

  T - E Fede, come te la ricordi?

  D - Favolosa. Innanzitutto, riusciva a farci fare cose al limite dell'assurdo. Per esempio diceva: «Vai a Milano, vai a prendere tre macchine da cucire e portale qua», e non ci diceva né dove dovevamo andare, né come potevamo pagare. Voleva che noi fossimo capaci di organizzarci da sole. Ma ho un altro ricordo splendido, legato al momento della partenza dal Centro Scuola per raggiungere Vittorio Veneto. Eravamo a Col di Luna e insieme a noi doveva rientrare al reparto, quasi completamente guarito, Sandro Pocek; con lui rientrava anche Eliseo Preti, quello mutilato di un braccio, che era stato ospite del Saf in quegli ultimi giorni. Ti puoi immaginare. Fede sapeva che la sera stessa saremmo partite per il fronte. La ricordo in piedi, in divisa, bellissima con quei suoi occhi azzurri penetranti; stava un po' distaccata dagli altri, ci salutava romanamente e piangeva, le venivano giù le lacrime.

  T - E fin qui, la guerra. Ma, fra tutti noi, tu sei la sola che, anche dopo la guerra, ha continuato a considerarsi in servizio, insieme a Silvana Millefiorini. Tutti noi, diciamo così, abbiamo finito, mentre voi due...

  D -... abbiamo continuato.

  T - Avete continuato, è esatto. E adesso spiegami in che maniera avete continuato.

  D - Forse tu non lo sai, ma noi abbiamo cominciato subito il nuovo servizio perché, quando il «Barbarigo» stava in campo di concentramento, noi raccoglievamo pacchi; e non soltanto con Silvana, ma con Luciana e con Benita, che adesso non c'è più. Raccoglievamo pacchi e li spedivamo ai campi di concentramento; un piccolo lavoro, cosa da niente; ma con i tempi e con la miseria di allora, e con la situazione politica in cui ci trovavamo, non era facile. Eravamo in contatto con la vedova di Bardelli e ci aiutava Mario Bordogna. Quando il Battaglione nostro e gli altri reparti furono riportati in patria, a Taranto, Bordogna veniva a casa mia, che era diventata una specie di deposito, di comando tappa, perché tutti quelli che volevano mandare qualcosa, vestiti o generi alimentari, ai prigionieri giù a Taranto, facevano capo a me. Noi come famiglia avevamo una fame nera, ma quelle cose erano intoccabili. Bordogna arrivava, caricava queste enormi valigie e, con mezzi di fortuna, andava a Taranto a portarle. Poi, quando Ligetta Bardelli ci avvisò che il campo di concentramento era stato aperto, con Silvana organizzammo subito un bellissimo comando tappa alla Stazione Termini. La nostra gente la riconoscevamo subito, anche se ovviamente nessuno era in divisa. Portavano vestiti borghesi tutti rattoppati, o troppo ampi o troppo stretti. Noi gli andavamo vicino e gli chiedevamo: «Decima?». E magari questi non capivano.

  T - E poi cominciò il recupero dei nostri caduti...

  D - Si. Come ti avevo detto, mia nonna era austriaca. Quindi a casa nostra si erano rifugiati due austriaci, ex ufficiali della Wehrmacht, e uno di costoro un giorno mi disse: «Sai che c'è un maggiore tedesco, Seifert, che sta cercando le salme dei caduti a Nettuno per conto dei Tedeschi?». Mi fece conoscere questo Seifert e costui, un bel giorno, mi telefonò per dirmi che aveva trovato alcuni caduti italiani e ne aveva portato i resti al cimitero del Verano. Fu difficilissimo ritrovarli, perché non ci volevano dire dove li avevano depositati. Allora io andai ai giornali, non ricordo se al Tempo o al Momento, e chiesi aiuto. Uscirono una serie di articoli. Infine, per vie traverse, non ricordo quali, trovammo le prime salme. Si sparse la voce e un bel giorno si verificò un fatto che mi indusse ad iniziare un lavoro in profondità. A casa mia, sempre alla Circonvallazione Appia, arrivò un certo signor Cornuda, che veniva da La Spezia ed era il padre di Franco Cornuda, morto al fronte, del quale non si era trovato più nulla. Mi disse: «Mi aiuti. Io ho girato per la Piana Pontina; so che mio figlio è morto durante la ritirata; l'avevano visto saltare da un camion e quindi è scomparso durante un combattimento, in quella ritirata terribile che avete fatto voi. Mi aiuti». E allora andammo al cimitero. Intanto avevamo incominciato a girare con Luca, in bicicletta.

  T - Luca era tuo manto...

  D - Si, era mio marito, veniva dal Battaglione «Lupo» ed era senza una gamba; l'aveva persa sul Senio, nel gennaio del '45.

  T - E andavate in bicicletta...

  D - Però un momento: caricavamo la bicicletta sul treno, scendevamo a Littoria, a Latina insomma, e da lì con la bicicletta andavamo in giro.

  T - A rischio di saltare su un proiettile inesploso...

  D - Beh a questo non ci abbiamo mai pensato.

  T - Si, non ci avete mai pensato, ma questo non cambia le cose. Ad ogni modo, diciamo così, eravate tu, Silvana Millefiorini e tuo manto...

  D - E Luca, si; soprattutto Luca era lo spericolato numero uno. E siamo andati in giro proprio con grande pazienza. Però, credimi, il lavoro difficile era anche quello della pulizia delle salme.

  T - Me lo immagino!

  D - Eravamo insieme a due o tre della «Nembo», che raccoglievano i loro. Lo ricordavo proprio l'altro giorno, quando siamo andati ad una cerimonia al «Campo della Memoria» con Luciano Orefice. E allora dicevamo: questo è tuo, questo è mio. Avevamo trovato che le spazzoline per pulire le scarpe di tela servivano bene a pulire le ossa. Perché noi abbiamo anche pulito le ossa. La cosa non ci dava fastidio, lo facevamo con amore. Ma voglio tornare alla storia di Cornuda, perché ti aiuta a capire. Lui era alto quasi un metro e novanta e a noi, al cimitero del V'erano, avevano insegnato che, misurando i femori, si poteva ricavare, in proporzione, la misura dell'intero corpo. Noi, avevamo trovato uno scheletro con un femore che corrispondeva. Insieme c'erano anche diversi pezzi di stoffa, di camisaccio; qualcuno era stato sepolto dentro ai sacchi, qualche altro in cassette di legno. Attaccata a quel femore avevamo trovato una mutanda con l'elastico, però fatta a mano; allora molte madri facevano la biancheria ai figli. E così questo povero signor Cornuda, che poi era appena rientrato dalla prigionia in America e che, dopo avermi rintracciato, non si era più mosso da Roma, mandò questo pezzo di mutanda alla moglie che disse: «Si, l'ho cucita io». E allora, sai, vedere quest'uomo che diceva: «Beh, almeno ho ritrovato mio figlio...», è stata davvero una grande cosa. Ricordo che il signor Cornuda scrisse una lettera che, mi sembra, Diego Calcagno pubblicò sul Tempo, elogiando il nostro lavoro e dicendo: «Mi hanno ridato mio figlio». Io intanto mi ero sposata, aspettavo Marco, ma continuavo ugualmente ad andare in giro, grazie sempre all'aiuto del maggiore Seifert, che ci avvisava quando trovava salme di italiani.

  T - Un lavoro improbo.

  D - Si, però doveva essere fatto. E ricordo una cosa. Un giorno, con Silvana Millefiorini, si decise di andare a prendere le salme di una trentina dei nostri, che stavano a Valvisciolo; erano quelli morti in ospedale. Il cimitero era custodito dai Benedettini e il priore ci aveva detto che l'acqua faceva scivolare le salme verso il basso e le portava via; quindi, se scavavi direttamente non trovavi niente, dovevi scavare un po' più lontano rispetto alle croci. Allora siamo andate, abbiamo affittato un camion a Roma, e avevamo anche comprato le cassettine ossario. Siamo andate la mattina con Silvana ed era venuto anche uno stagnino di lì, che ci aiutò a chiudere le cassette. Poi abbiamo caricato tutte le cassette sul camion e il Sindaco di Latina, lo ricordo bene perché ho conservato le carte di tutto questo lavoro, ci prestò una bandiera tricolore. Così, su questo camion, e puoi immaginare che razza di camioncino sconquassato fosse, caricammo le trenta cassettine con la bandiera tricolore, e poi siamo salite noi. Io aspettavo Marco, mi pare che fossi al sesto mese. Ad un certo punto ci fermò la Polizia, probabilmente la Stradale. Quando spiegammo cosa avevamo con noi e mostrammo una autorizzazione del Commissariato onoranze ai Caduti, come lo avevamo ottenuto non me lo ricordo, sai cosa fecero? Ci scortarono fino a Roma. Ci hanno scortato, di loro iniziativa. Non c'era proprio necessità e non lo fecero per motivi di sicurezza, perché quei nostri poveri morti, di sicuro non scappavano.

  T - Poi, se non sbaglio, il vostro lavoro si allargò.

  D - Si; i giornali pubblicarono le nostre richieste di notizie, molti ci scrissero. Lì nella Piana, noi intanto eravamo riusciti a raccogliere più di cento salme e così fu necessario prendere una tomba al Verano. Naturalmente la presi a nome mio, perché in caso contrario non ci avrebbero dato l'autorizzazione al seppellimento. Fra quei poveri resti c'erano anche nove sconosciuti. Per ciascuno di loro abbiamo fatto una busta e ci abbiamo messo dentro, non so, un pezzetto di camisaccio, una medaglietta ricordo, qualcosa che potesse servire ad identificarli. Naturalmente, qualche famiglia si è portata via i resti del suo caduto. Una volta, ricordo, siamo andate, sempre con Luca, in un posto dove ci avevano detto che erano sepolti cinque morti italiani, dietro l'asilo infantile di Littoria. Paolo Posio, che aveva una memoria eccezionale e che mi ha riempito di carte, mi disse che in quella tomba dovevano essercene altri tre, mi diede i nomi: e noi, tirandoli fuori, ricostruendo, perché allora le piastrine si potevano ancora leggere, li abbiamo identificati.

  T - E quelli che erano stati sepolti al cimitero di Littoria?

  D - Li abbiamo presi e trasferiti a Roma con gli altri. Ne avremo trovati 120, 130...

  T - Ma i morti furono molti di più.

  D - Si certo; ma, per esempio, molti erano caduti uccisi nel Canale Mussolini e fu impossibile ritrovarli; e poi, qualche contadino aveva arato, e quei poveri resti erano andati dispersi.

  T - Secondo me questa è una storia veramente incredibile: tre scalmanati, uno con una gamba sola e due donne, che vanno in giro in bicicletta per la Piana Pontina a scavare nei luoghi dove si era combattuto, senza curarsi della possibilità di saltare in aria. Tu dici che non ci pensavate...D - In effetti è la prima volta che ci penso, perché mi ci fai pensare tu. E poi, quando abbiamo cominciato era già l'estate del 1946.

  T - Ma ancora adesso si trovano residuati bellici, si trovano proiettili inesplosi...

  D - Questo non lo abbiamo mai considerato.

  T - Me ne rendo conto. Insomma, tu sei la Fureria sopravvissuta al Battaglione, questa è la verità, la sostanza delle cose. E come tale ti sei presa cura anche della faccenda del «Campo della Memoria».

  D - L'idea, come sai, è stata di Sandro Tognoloni, che disse: «Noi ce ne stiamo andando, di noi non so come e quando parlerà la Storia, cominciamo a lasciare qualcosa». Poi siamo venuti da te, e tu ci ha dato subito il nome.

  T - Va bene, questo è il mestiere mio.

  D - Poi abbiamo incominciato a cercare il terreno, lo abbiamo trovato, abbiamo trovato i soldi.

  T - Parli come se tutto questo fosse normale, ma per me è straordinario. E soprattutto, andando indietro con la memoria, mi sembra straordinario il fatto che quando vi vidi per la prima volta in divisa, voi ausiliarie, mi parve una cosa normalissima. Questo dimostra, che fin dall'inizio, da parte vostra ci fu un inserimento immediato nei reparti.

  D - Si certo, anche se in principio mi pesò il fatto di essere sola. Però non vi furono mai mancanze di rispetto. Eppure, credo, in fondo ero una ragazzina abbastanza graziosa, nell'insieme mi presentavo bene, no? Si, c'erano gli innamoramenti, ma a carattere molto spirituale, e a questo proposito posso raccontarti un episodio divertente. Uno dei giovani, che adesso non è più giovane, tempo fa in un incontro del «Barbarigo» mi ha detto: «Ah Raffaè, che pensieri mi facevi venire tu, allora!». E io: «Adesso me lo dici?».

  T - E i tuoi figli?

  D - Ma i miei figli sono i figli di una ausiliaria della Decima, del «Barbarigo», e di un mutilato del «Lupo». Mio figlio Andrea dice: «Mamma, noi siamo vissuti con la Decima e con i subnormali», perché io per tanti anni, per 19 anni, dopo la guerra ho lavorato come assistente sociale, e ogni tanto ne portavo qualcuno a casa. E le mie nipoti, poi, sono quelle che vogliono sapere di più. I miei figli queste cose le hanno vissute: con Sandro Tognoloni ci si frequentava; Silvana Millefiorini i miei figli la chiamavano zia. Ma le nipoti, che certe cose non le hanno vissute, ora vogliono conoscere; so che ne hanno parlato perfino a scuola.

  T - E di tutta la tua esperienza di guerra, cosa ricordi?

  D - Ricordo quanto avvenne durante la ritirata dal fronte del Senio. Noi ci siamo trovati ancora a marciare e combattere quando praticamente era già tutto finito, Mussolini era già stato ammazzato, ma non lo sapevamo. Dopo avere attraversato il Po in barca, abbiamo dovuto superare l'Adige per arrivare dall'altra parte, a Cavarzere. Il ponte era stato quasi distrutto; sopra la testa avevamo gli aerei americani che ci spezzonavano. Su quello che restava del ponte avevano messo qualche palanca e insieme a noi c'erano i carriaggi dei cosacchi della Wehrmacht. Avevano i traini per i cannoni, a due, quattro sei coppie di cavalli. E allora noi, mentre saltavamo da una palanca all'altra su quello che restava del ponte, sentivamo giù in basso i soffi dei cavalli morenti che erano caduti nell'Adige; vedevamo i cadaveri dei soldati nostri e di quelli tedeschi. Tutti lì sotto, tutti mescolati proprio sotto il ponte. E questi aerei che ci venivano sopra e noi che dovevamo correre. Sono stati pochi minuti, ma a me è sembrato di camminare su quel ponte per una vita. Così ancora adesso, quando vado a trovare mio figlio che sta a Vicenza, viaggiando nel treno comodissimo, ogni volta che attraverso l'Adige mi ricordo quel giorno; e poiché sono una persona che attacca volentieri bottone in treno, finisco per raccontare l'episodio alle persone che mi stanno a fianco. E magari qualcuno mi prende anche per matta. Ma quella ritirata non riesco a cavarmela dalla testa. Ho visto il tenente Maggiani, il medico, proprio a Cavarzere, con la testa quasi staccata di netto, ucciso mentre curava un ferito pur avendo bene evidente sul terreno la Croce Rossa. Ho visto Feliziani andare alla ricerca del nipote, pure lui con la testa quasi troncata. Ne ho visti tanti, di feriti e di morti.

  T - Senti, per concludere, dimmi una cosa sola: tu, ragazzina, ragazzetta, quello che vuoi, come ci vedevi? come vedevi questi soldati?

  D - Ah, vi vedevo belli, tutti belli! Mi sembravate tutti belli e mi commuovevate. E ho visto pure come si fa presto a diventare uomini. Quando cominciò l'ultima ritirata, i nostri sono arrivati a Imola, una mattina all'alba. Li guidava Farotti. Avevano passato qualche tempo al fronte. Erano partiti ragazzi e tornavano uomini; erano tutti un pochino più curvi e non avevano voglia di scherzare, mentre prima avevano sempre la battuta pronta. Allora ho capito veramente cosa era la guerra.


 

MARIO TEDESCHI

Dal libro :

"Si bella e perduta ( storia del battaglione Barbarigo )" clicca e vai nel sito del BORGHESE e trovi il libro completo.


MARIO TEDESCHI

 

Nel suo ultimo libro, Si' bella e perduta (Serarcangeli <http://www.algoritmo.it/serarcangeli>, 1993) , narra la sua esperienza vissuta sul fronte di Nettuno a fianco dei tedeschi contro gli angloamericani e al Nord con la RSI, sempre nella Decima Mas.


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