Vincenzo ha sempre avuto una propensione morale che lo ha guidato nel suo lavoro di pittore: i suoi quadri significano sempre qualche cosa di più che non dicano le immagini, o l'ordito di forma e colore che lui pazientemente, e con perizia di artigiano, conduce a compimento. Le immagini, si dice, o meglio i simulacri: c'è, in Vincenzo, una forte passione religiosa che si misura con il potere anagogico della visione ("trasumanar-significar per verba non si porìa") e con la inestinguibile connessione di luce e messaggio, parola di verità, o promessa di liberazione. Da qualche anno, Vincenzo non prepara più tele costruite in concorrenza con la fotografia. Le immagini assumevano più significati, fuoruscendo sovente dalla carta patinata di una rivista, di moda o di attualità, per acquisire il sapore scabro di un bianco e nero smerigliato, uomini e donne del nostro tempo in pose abituali, e per questo oscene, tra sesso e consumo del sesso, l'effimero di speranze senza aldilà, la perdita di senso e il gioco fine a se stesso dei commerci umani. Avevo visto, anni fa, una mostra sulle ambiguità della figura femminile coniugata nei pret-à-porter o nella haute couture: mi avevano colpito certi corpi di donna, oggettivati con una luce fredda da obitorio, giunchi ridotti in situazioni di violenza, di perdita della misura personale nella lucidatura di immagine, un pò quello che accade per tutti noi, nel villaggio della comunicazione di massa, senza che abbiamo neppure il tempo per farci caso. Questa freddezza e lucidità di sguardo, Vincenzo Marano lo ha ricavato dai tedeschi, è uno sguardo europeo che non ha avuto bisogno di attendere la lezione iperrealista americana. Ed è il ricordo migliore che abbiamo del suo testimoniare realistico, del suo " prendere parte", come pure vuole il suo temperamento di artista-moralista, o, se vogliamo, che crede nel valore morale del suo lavoro. Quel realismo, Marano non lo ha mai negato, se si pensa al fondo intimamente programmatico, apodittico, e ideologicamente motivato, che lo anima: per lui, la pittura non è fine a se stessa, come abbiamo già detto; ma si misura, nel rispetto delle sue tecniche, con altri valori, interviene nel mondo, lo giudica e pretende di farsene coerente critica. In una mostra a Cagnes-sur-mer, del 1985, avevo già scritto delle capacità straordinarie di Marano nell'utilizzare i materiali fotografici e della storia dell'arte, per mettere in relazione l'emozione estetica con una situazione sociale precisa e storicamente determinata. Testimone di una realtà che si avvicina all'universo orrendo di Pasolini, la pittura di Marano - scrivevo - si può leggere come "una sottile metafora religiosa della condizione umana, implacabile, irrimediabilmente sottomessa al dominio dei corpi". In questo senso, un quadro di grandi proporzioni come La caduta, è davvero illuminante: uomini, sperduti nel mondo come i naufraghi di Géricault sono rappresentati a testa in giù, in una complicata miscela di corpi, in attesa e sospensione, avvinghiati come i dannati della Sistina, e pur sempre espressione di un segmento spazio-temporale, senza principio nè fine privo di redenzione, nella circolarità ossessiva dei gesti e dei movimenti. Vincenzo, da qualche anno, non dipinge più i suoi manifesti di denuncia, o le gelide analisi della irredimibilità del mondo: e pure, non pare che la vena di una didascalica-pittorica si sia spenta in lui, magari per ripiegare su orizzonti descrittivi, o soluzioni di acceso estetismo. La parabola della vita ha avuto un passaggio ulteriore, di genere letterario, diremmo, se questo termine non apparisse, all'occhio sprovveduto, diminutivo: qui, l'elemento letterario fa l'ufficio di un decoro "morale" della pittura a titolo, metà ironico, metà profondamente serio, del risarcimento dell'arte nel tempo moderno. Decisivo, in questi anni, è stato per Vincenzo il ripensamento del lavoro, e del mondo estetico, di Giorgio De Chirico. Potrà tornare utile, in proposito, il piccolo manuale di tecnica pittorica, sui colori e le loro mescolanze, che Vincenzo ha redatto a penna, stampandolo alla meglio, sulla carta di una agenda telefonica, e distribuendolo in preziose rarissime copie per gli amici. Vi è in quella esperienza tutto il culto per il "mestiere" di cui esempio primo è stato in Italia il pictor optimus, e, al tempo stesso, tutta la volontà di esaltare nella pittura la vita intera, come metafora e come pratica di esistenza. Basta pensare al modo in cui Vincenzo "sente" i materiali della pittura: come quella essenza di pino, ad esempio, che "ritiene gli spiriti volatili, che non li lascerà salire in alto e li lascia purificati e netti". Ecco una rappresentazione di fede assoluta nel mondo delle composizioni chimiche, nello straordinario mondo degli elementi naturali, le polveri minerali, le essenze, gli olii, tutto ciò che contribuisce a realizzare quella misteriosa pasta su cui si vengono ad iscrivere le forme, ma che al tempo stesso configura in se stessa la "forma", perchè è "materia che vive", che esercita una originale virtù formativa. L'interesse di Vincenzo per le favole della alchimia corrispondono al sogno suo, di Polifilo moderno, che guarda in filigrana nell'intricato inferno contemporaneo, e vi scorge le lettere di un alfabeto straniante, un decalogo delle verità senza tempo, le regole iniziatiche della pietra filosofale, della saggezza, della bellezza e della verità. Le straordinarie tavolette, che incarnano visioni dall'indole perfettamente italiana, dove la tradizione della pittura diventa quasi emblema, sono una delle più convincenti opere realizzate da Vincenzo Marano negli ultimi due anni: così, tra archi e paesaggi rinascimentali, piazze e arcate ombreggianti giovani donne al bagno i leoni e atleti, aquile, serpenti, fontane della giovinezza, melarance allegoriche, e figure divine con Apollo e Diana, si dipana una lunga teoria di sogni allegorici, che lasciano pensare alla lenta meditazione di una nuova "visione del mondo". Ciò che più conta, anche qui, è la materia ricca, e riccamente elaborata, che si affina ad uso delle rappresentazioni, quasi seguendo l'antico precetto di San Bonaventura: l'opera è "bella", perchè è "fatta bene" (quod bene pro - tracta est) e corrisponde a ciò cui si riferisce (illud ad quem est). Vi è in questa attitudine (che anche nei lavori precedenti non abbandonava Vincenzo Marano) una vocazione tipicamente "antimoderna": quella di vincere l'estetismo puro e raggiungere, con il mezzo della pittura, l'esatta corrispondenza di parola e verità. di "arte" e "verità". Vincenzo crede al linguaggio della pittura, ma non lo divinizza in quanto tale: la pittura è un prezioso e docile strumento per interrogare gli astri, il presente, e il mistero dell'esistenza, alla luce delle immagini e del potenziale visionario che le correda. "Che cos'è questo desiderio verso la tradizione - ha scritto una volta Vincenzo - della pittura antica, questo sguardo all'indietro, è un ritemprarsi nel ritornare alle origini incontestate e non inquinate del pensiero dell'uomo...". Si condensa brevemente in queste osservazioni tutta una tensione che fa dell'artista un uomo che sceglie di vivere una integralità di esperienza, contro la frammentazione, o, se vogliamo, l'inquinamento contemporaneo. Vincenzo è andato avanti, in questa direzione. Nell'ultimo anno ha dipinti, dopo la parabola alchemica, riferimenti alla Bibbia, con le sue Salomè, Giuseppe e la moglie di Putifarre, Giacobbe ed Esaù, l'adorazione del vitello d'oro... Sono quadri smaltati, che sembrano aver perso il qui ed ora del tempo, e pure sono quadri che non restituiscono l'impressione dell'artefatto, nè tantomeno del gusto antiquariale: tutti noi sappiamo come è difficile - quasi sacrilego! - affrontare il tema della rappresentazione religiosa, senza correre rischi seri di scadimento espressivo (ahi, noi profani!). "Già da tempo - scrive Vincenzo in un commento luminoso - avevo desiderato di elaborare la storia di Giuseppe, e di altri personaggi biblici, ma non riuscivo a vincere la difficoltà della forma, specialmente perchè non avevo confidenza con nessun genere di iconografia che potesse essere adatto per un tal lavoro. Ed ecco trovai molto comoda una elaborazione della pittura classica e mi ci applicai d'impeto. Cercai di distinguere e svolgere i caratteri e di fare dell'antica e semplice storia un'opera nuova e indipendente, intercalandovi incidenti ed episodi. Non pensai quello che in realtà la gioventù non può pensare, che a questo scopo è necessario un contenuto e che questo può sorgere solo dalla coscienza della propria esperienza. Insomma io mi rappresentai tutte le vicende fin nei minimi particolari e me li dipinsi per filo e per segno con la massima precisione". C'è forse bisogno d'altro - dopo aver seguito un simile percorso artistico, e con quest'ultima citazione - per valutare a pieno il carattere metafisico, religioso e altamente letterario della vocazione totale di Vincenzo Marano alla pittura, e al suo straordinario "mestiere"?
Duccio Trombadori
IPERREALISMO
Tendenza dell'arte contemporanea americana,caratterizzata in pittura e scultura dalla meccanica riproduzione integrale di elementi della realta' visiva. E' nota anche con i termini equivalenti di superrealismo,realismo radicale,realismo fotografico (sharp-focus realism). sviluppatasi nel corso della seconda meta' degli anni sessanta,l'arte iperrealista americana si è affermata nel 1972 attraverso la mostra organizzata alla Sidney Gallery di New York (la medesima che nel 1961 aveva siglato la consacrazione ufficiale della pop art, da cui direttamente deriva l'iperrealismo e la partecipazione dei suoi esponenti alla rassegna internazionale di Documenta 5 a Kassel. Basata essenzialmente sulle tecniche del riporto fotografico e del calco (per la scultura) e priva di apparenti interferenze soggettive da parte dell'artista (ma comunque espressione di un atteggiamento contestatario), la nuova figurazione dell'iperrealismo americano (che non ha mancato di propagarsi anche in Europa , ma con precise distinzioni culturali) annovera tra i suoi maggiori esponenti R.Estes, R.Goings, D.Hanson, R. McLean, J.Salt, J. De Andrea, S. Possen, C.Close, H. Kanowitz.
Testo estratto dal cdrom "La grande PITTURA ITALIANA" edizioni De Agostini,multimedia 1995-1996
In Francia : Monory
In Italia : A. Titonel,V.Marano
Andy Warhol
Nel suo ruolo d'artista - così affermò spesso - si sentiva "passivo", non "creativo" poichè si metteva allo stesso livello degli oggetti della sua osservazione. "Tutto è bello", "Tutto influenza tutto", "Tutto è noioso": queste celebri affermazioni di Warhol sono solo luoghi comuni tanto quanto egli sentiva luogo comune e pieno di ripetizioni il mondo. La quantità forma la qualità in un'epoca di comunicazione e produzione di massa. Anche il consumo è una forma passiva di appropriazione, un approccio non creativo alla realtà che sostituisce le autentiche potenzialità espressive dell'uomo. Dalle modalità di comportamento e produzione standardizzate si forma l'accettazione dell'uniformità delle cose e delle immagini. "Tutto è bello" significa anche intercambiabilità e capovolgimento dell'affermazione con "Niente è bello" oppure - per continuare il gioco retorico - "La bellezza? Che cos'è? La bellezza in se stessa è nulla". Warhol applica il criterio della "quantità come qualità" tanto alla gente quanto ai beni di consumo. Da una massa di fatti banali, egli seleziona quanto vi è di tipico, i simboli del tempo divenuti miti e proprietà, comune della società. Dal 1962 fino al 1970 l'iconografia di Warhol riguarda categorie come le stelle del cinema (Marilyn Monroe, Liz Taylor, Marlon Brando e altre), personaggi del mondo artistico (Monna Lisa, Robert Rauschenberg, Leo Costelli e altri), personaggi della politica (Jackie Kennedy, Nelson Rockfeller e altri) e inoltre , l'ambiente della malavita (Gangster - Funeral, Thirteen Most Wanted Men), modelli e simboli di sentimenti e comportamenti (Happy come titolo di un ritratto, fiori, baci, Tunafish, Disaster), azioni politiche (Race Riot, la bomba atomica), (Scatola della Campbell, Coca Cola, L'Empire State Building). Nel contesto artistico questi dipinti, proprio per il loro banale contenuto, racchiudono un aspetto sorprendentemente innovativo. Sono inconsueti, chiunque sente che si tratta di qualcosa di nuovo anche se il soggetto è arcinoto. Anche qui la bellezza e l'orrore procedono affiancati, ma i dipinti Do-Lt-Yourseft di Warhol rivelano l'orrore di un'estetica senza significato. Il loro effetto è quello di una violenza estetica, di una superiorità che opprime e sopprime la creatività. Attraverso l'opera di trasformazione dell'artista essi raggiungono una sensazionale peculiarità pittorica: Warhol espone e dimostra le proprie possibilità artistiche nell'identificazione con la più bassa cultura della realtà omologata. Egli la toglie dal "lerciume" della sua nullità e dal tedio e applica il proprio correttivo alla sua potente onnipresenza.
Testo estratto dal libro "Pop Art" di Tilman Osterwold, 1991 Benedikt Taschen Verlag Gmbh