1961 |
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Roma 1961 - Ferragosto - tardo pomeriggio … Mi prende uno sconforto insostenibile, le gambe mi diventano molli. Mi lascio andare sul gradino polveroso di un negozio… appoggio la testa sul metallo caldo della saracinesca. Guardo su, il rettangolo lungo di cielo quasi bianco, immobile tra le fila dei palazzi… Mi
metto a piangere… Luchino è ritto davanti a me, gli occhi pensosi e preoccupati che mi guardano interrogativi; alza le braccine stanche, e mette le sue piccole mani sulle mie spalle… una di qua… l’altra di là… si china premuroso piegando la testina su un lato cercando i miei occhi. Vedo le amate ginocchiette rotonde flesse nello sforzo di stabilire un contatto con me… “Non è niente, amor mio!… niente….” Mi
guarda dubbioso e incerto… Lo tiro a me con violenza, lo stringo forte e gli dico: “Aiutami….” E
lui, il mio omettino di tre anni, mi dice piano sussurrando appena:
“Ci sono io… ti proteggo io…” E
un dolore profondo mi lacera dentro. La
consapevolezza che sto facendo del male a mio figlio è una tenaglia che
non molla la presa: tutto il mio corpo è percosso da questa verità… Mi alzo di scatto graffiandomi via dal viso il pianto colpevole. Lo prendo per mano saldamente, per dirgli che tutto è passato, per farglielo sentire nella pelle, che veramente tutto è passato…
Roma,
20 agosto 1961 - ore 14 La
pensione dove alloggiamo è di Laura, una quarantenne alta e abbondante,
con grossi seni appuntiti e un gran sedere largo e piatto: dà l’idea
di una gigantesca portaerei… Lunghi
e ricciuti capelli scoloriti le ondeggiano con ritmo preciso quando
“sciabatta” per la casa. Un passo…”slaff”… i capelli tutti a
destra… un altro passo… “slaff”… tutti a sinistra: “slaff…
slaff… slaff… slaff”… E il rossetto, la bocca, di Laura… il labbro inferiore proteso e poi rovesciato all’ingiù, colorato d’arancio… Le dà un’aria molle e sdegnosa, un’aria untuosa e sciatta di pigra indolenza. Ma è buona, Laura… e generosa con noi poveri cristi alle pendici dei nostri calvari. Racconta con orgoglio di essere stata in prigione per prostituzione e di aver condiviso la sua cella con la “Bebawi”, di averle carpito qualche segreto, ma lei, giustamente, è una tomba, inutile insistere… Ma
poi si contraddice: ora che mi vede scrivere, mi dice sorniona: “Vuoi
le mie memorie?” Roma,
22 agosto 1961- mattino Chiamarla
pensione è un eufemismo. Laura è un’affittacamere. Un lunghissimo corridoio scarno e luminoso con poche porte a destra e a sinistra. Dietro ogni porta una montagna di speranze, una o due reti ed un paio di seggiole. E
per arrivarci, dodici rampe di scale con altissimi gradini… le
gambette di Luchino non ce la fanno e dopo il secondo piano me lo prendo
sulle spalle come fosse un piccolo zaino, il “mio” zaino… Ma la luce! La nostra vita, mia, di Oscar, di Antonello e di tutti gli altri abitanti di questa casa, è inondata di luce chiara, gioiosa, di una splendida luce affettuosa che ci avvolge ed accarezza ad ogni ora della giornata… Che solarità! Il mio Luca ne è intriso… quando lo abbraccio, io abbraccio la luce!… pomeriggio Oggi siamo qui. La tavoletta di legno sopra alle ginocchia regge il quaderno. Mi guardo attorno: le brande gemelle riempiono la stanza. Contro
il muro, due seggiole ospitano i nostri pantaloni e camicette. Le scarpette di Luca, in bell’ordine in un angolo, accanto alle mie… come sono piccoline! Luchino si dondola sul letto con una gambina per aria e intanto bofonchia non so quale storiella. Dalla finestra spalancata entra una buona aria che sa di fontane e pini marittimi…
Roma, 1° settembre
1961 Laura
ha un figlio tredicenne. Alto
e grosso come la madre, e la stessa bocca molle e umida, sempre. Si
aggira strisciando per la casa lungo i bianchi muri disadorni, e bussa
alle nostre porte, cercando un po’ d’attenzione… Ma
noi siamo distratti, abbiamo le nostre vite a cui pensare, i nostri
egoismi da coltivare. E siamo sordi. E
poi… francamente… ci mette a disagio questa grossa ameba vagolante,
con gli occhi cerulei ed annacquati, fissi e vuoti d’ogni
espressione… E sopratutto non gli perdoniamo il senso di colpa che ci
prende ogni volta che lo ignoriamo! Ma
oggi sono buona. Al
suo incerto bussare mi alzo dalla branda e apro la porta… Sta
nel vano occupandolo per intero. Gli
dico: ”Vieni!”… e lui non se lo fa ripetere due volte.
Strascicando i sandali, avanza dondolando, come una vecchia grossa oca. Libero
una sedia e gliela offro. Non
reagisce: sta lì, mi guarda fisso. Devo dirgli: “Siedi!”. Obbediente,
s’accartoccia su sé stesso; solo le grosse spalle e il testone roseo
si offrono allo sguardo. Il resto è compresso sotto di lui. La sedia,
una povera sedia di antica data, scricchiola un po’. La
radio trasmette una canzoncina che vuole essere allegra. Guardo
il ragazzo e mi si stringe l’anima. Mi fa pena e rabbia. Se
ne sta lì muto, cogli occhi vacui, tutto ingobbito… le grosse cosce
divaricate e i piedi dalle dita grasse che spuntano dai sandali… Mi
dico: “Ma è un bambino!…” e cerco della tenerezza dentro di me,
qualcosa di buono da offrirgli, che lo consoli del suo essere così. Anche
Luchino non osa avvicinarlo. Appollaiato sulla brandina, lo guarda con
inquietudine… Cerco
di rompere la sensazione di ghiaccio che pare invadere la stanza. “Vuoi
dei biscotti?… Sono buoni, prendi!” Allunga
una mano senza battere ciglio e se li ficca in bocca con voracità.
Non ha mutato espressione, gli occhi rotondi spalancati sopra di me:
sembra non possedere muscoli facciali. “Come
sta la mamma? Sono due giorni che non la vedo…” Devo
ripetere: “E Laura come sta?…” Alza le spalle impercettibilmente, mentre con la lingua va raccogliendo una briciola rimasta nell’angolo della sua bocca molle e bagnata. Distolgo lo sguardo, non riesco a reggere la fissità vuota dei suoi occhi. Provo ancora: “E la scuola? Fra poco ricominci… sei contento? Ci vai volentieri?” Mi rendo conto di quanto sia goffo il mio approccio, di quanta poca pietà ci sia in me. Rifletto rapidamente: questo ragazzino è sempre desolatamente solo… Laura non è mai in casa, probabilmente ha ripreso la sua antica professione… chi si occupa di lui? Gli vado vicino, allungo una mano per una carezza, ma lui volta via la testa. Non
so che cosa pensare. Non vuole il contatto, ma ci cerca… Mi chino, accosciandomi vicino a lui. “Senti, Oscar mi presta la sua casa al mare, al Circeo, sta su in paese. Io e Luca ci andiamo per una settimana… Vuoi venire?… Il tempo è ancora caldo, sarà bello!”… Dopo
un lungo silenzio sento dire: “Dillo a mamma”… La
sua voce è atona come tutto il suo essere… Lo
prendo per la mano tirandolo via dalla sedia. È il doppio di me. Lo
trascino verso la porta e gli dico: “Va bene, lo dirò a Laura” e
intanto lo spingo fuori, fuori. La radio cantilena la sua mediocre melodia, Luchino si è appisolato, e io non sono contenta di me.
Circeo 1961, 4° giorno di
permanenza …
Esco dall’acqua, la sabbia è calda come una madre, mi ci butto con
gioia, il mio Luca rotola vicino a me, lo abbraccio e me lo tiro contro,
il nasino schiacciato contro il mio e le guancine albicocca piene di
efelidi dorate sono salate sotto ai miei baci… la felicità, ecco la
felicità! Il
ragazzo è in piedi controsole e ci guarda. È
un lampo! La cognizione della sua impotenza. Lo
afferro e lo attraggo verso di noi… si punta coi piedi, resiste nel
suo costumone rosso… non vuole! Ma
io ho la forza della gioia, tiro ancora e lo incito. Luca strilla:
“dai, dai, dai!…” Ancora uno strappo… un piede annaspa
nell’aria… ed ecco che ci piomba addosso con tutto il peso della sua
malinconia. Risate,
sabbia che vola, sabbia nei capelli, nella bocca… risate e ansimare di
tutti e tre, e ancora risate… Mi
blocco un attimo… il ragazzo ride!… Tutto sudato, con un velo di
sabbia sulla fronte, la bocca spalancata al sorriso, gli occhi celesti
socchiusi dallo sfinimento… ride inebriato dal nostro rotolare… La sabbia calda ci abbraccia e ci veste di un brillio di pagliuzze fatte di antiche conchiglie e vetri di mare che ad ogni nostro movimento si accendono e spengono sotto il sole… Dio, come siamo vivi!
Roma, 25 settembre 1961
…
Mangiavo contenta, quando alzando gli occhi… vedo due grosse lacrime
rotolare sulle guance di Luca… “Che
c’è amor mio?” Lui
scoteva la testina, con la bocca piena serrata stretta stretta. “Che
c’è? Hai male?” Stavo spaventandomi. I
singhiozzi silenziosi gli sollevavano il piccolo petto. Riuscì alfine a
deglutire e con occhi smarriti mi dice: “Non posso!…” “Cosa
non puoi, amor mio?” “L’insalata…” “Come
l’insalata? Che ha l’insalata?” ero sempre più in ansia, ma non
volevo se ne accorgesse. “Masticarla!…
non posso!… è troppo
tenera… le faccio male!” Mi
sono sentita il cuore rattrappire… In
un attimo ho saputo quanto dovrà soffrire nella vita, questo mio
piccolo figlio… Ora
sono qui, scrivo il fatto… e
sto male… Roma,
20 ottobre 1961 - ore 14 …
Luchino è a Milano dai nonni e a me… a me… Metà di me non c’è
più! Questa stanza, senza di lui… è insopportabile!… Non so come tirare avanti... Me ne sto ore sul letto… Poi mi alzo… scrivo due righe, per
fermare sulla pagina questo mio dolore, per guardarlo in faccia, per non
dimenticarlo… e torno sul letto… e via così, così… Che ne sarà
di noi? Roma,
24 ottobre 1961 - sera Sono
quattro giorni che il mio Luca è dai nonni; sapere che sta bene non mi
consola del vuoto in cui mi ha lasciato. Mi
sono rimessa a cercare il lavoro: corridoi, corridoi della TV, della
Radio, delle Produzioni… Per ora non si prospetta niente. Ho
una grande angoscia per il futuro. Non
vedo tante possibilità, per me che sono piccolina e, mi dicono,
buffa… Buffa?
come, buffa? Faccio
finta di ridere e poi chino la testa dalla vergogna. Buffa!… Certo
non sono una maggiorata, sono dieci anni che si punta sulle maggiorate,
ma… Mi
sento ferita nella mia femminilità della quale pare non accorgersi
nessuno. Se
penso ai sogni che ho fatto solo nove anni fa, quando ho cominciato
l’Accademia! Sembrava così facile e gioioso! E
ora passo i miei giorni qui, uno uguale all’altro, le ore, una uguale
all’altra… ore, ore, ore, ore… Dio, come sto male! Roma,
fine ottobre 1961 …
non so nemmeno che giorno sia… sto
malissimo. Sono
qui inebetita, senza capire né il luogo né il tempo… Solo la mano va
per abitudine al quaderno, alla penna… Ordine,
ordine!… nelle idee, nei pensieri, nei sentimenti; devo fare ordine
sennò muoio! Muoio! Roma,
un giorno qualsiasi di metà novembre del 1961 Questa
mattina, quando mi sono alzata per rispondere al telefono, non sono
riuscita a parlare. Balbettavo… Sono passate ore e ancora non riesco ad articolare… Ho paura! Che faccio, che faccio? E perché balbetto?… Cosa mi sta capitando? Roma,
il giorno dopo Sono
stata alla mutua a cercare un medico che mi aiutasse. Ho trovato un
neurologo che era di turno. “Bu-uong-giorno….”
Mi
ha guardata, deve avere visto la mia faccia perché m’ha detto: “Che
succede?” “Bal-ll-balb-betto…
da ie-ieri bal-betto…” Mi
ha sorriso, mi ha fatto sedere, mi ha preso le mani, com’erano calde
le sue! E mi ha fatto bere un po’ d’acqua… Mi
sono messa a piangere per la sua bontà. Ha
voluto sapere la mia storia. Non so come, farfugliando, annaspando con
le sillabe, ho svuotato il sacco… “Infanzia?” “Orfanotrofio
e collegio” “Mamma?” “Sempre
lontana” “Papà?” “N.N…” “Studi?” “A
quattordici anni lavoravo” “Sposata? “Vedova” “Come?” “Colpo
di pistola. L’hanno ucciso” “Figli?” “Uno,
tre anni” “Lavoro?” “Non
ce n’è” “Si,
ma che fa?” “Teatro…” “Il
bambino?” “Dai
nonni” “Lontano?” “Sì…
Milano” Altro
pianto. “Ve-vede?…
Piango se-sempre!” Mi
dà all’improvviso del tu. “Saresti
malata, se non piangessi, povera figlia!…” Mi
ha dato delle pastiglie. E poi una carezza. Ora
sono qui, e la sento ancora sulla guancia… Milano,
1° dicembre 1961 Sono
tornata a casa di mamma. Sto
mettendo insieme i miei pezzi. Ho
venticinque anni e sono già sfinita
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