2000

Zagarolo, 12 gennaio 2000 - ore 16,45

Che pace!…

Mamma dorme… sta meglio. 

La guardo… 

Chi è questa donna, con il viso consumato, il respiro un po’ roco, le mani abbandonate sulla coperta a grandi fiori? E i suoi piccoli gioielli… la vera, l’anello con la perla ereditato da una cugina, l’anellino che io le ho regalato? Le mani sono scure, quasi abbronzate… le piccole gioie riescono a brillare anche nella penombra di questo tardo pomeriggio invernale…Sento un moto di tenerezza e… paura per lei. È così fragile, con le ossicine divenute minute col tempo, la stringi e le fai male!…

Zagarolo, 19 gennaio 2000 - mercoledì - ore 14,30

Oggi sono quindici anni di matrimonio.

Non una rosa da Dario, ma una mela grattugiata perché ho male alla bocca.

Dario è così, mi vuole bene a suo modo.

Ma in questo giorno io sono più sentimentale. E in questo giorno io mi sento più umiliata che mai. Il dentista mi sta facendo dei lavori e io mi ritrovo con la bocca in disordine; mi fa male la lingua: non posso mangiare, non posso parlare…

Come si può portare una rosa a una così?

Zagarolo, 27 aprile 2000 - ore 16

… sono gelosi l’uno dell’altro…

Dario mi dice: “Vedi? S’impasticca!…”

E Luca mi fa: “È ubriaco”.

Io mi tormento le mani e il cuore: so che hanno ragione tutti e due. Ma io, che ci faccio io qui in mezzo?

Piango disperatamente pregando: “State buoni!…”

Ma nessuno mi sente…

Zagarolo, 5 giugno 2000 - ore 18

Abbiamo camminato per i viali della clinica… molto verde, molti prati ed alberi…

Lui taceva. E fumava. Una sigaretta via l’altra.

Poco prima, seduti attorno ad un tavolo di plastica bianca del giardino e davanti a mio figlio ha detto senza imbarazzo: ”Io non provo più per te quello che provavo una volta”.

Luca m’ha guardato, credo m’abbia visto scolorire. Con mossa sicura è venuto da me, mi ha sollevata dalla sedia e m’ha detto: “Facciamo due passi…”

Mi sono voltata indietro: era rimasto lì al tavolo, solo, con lo sguardo azzurro lontano… Sono dovuta ritornare a lui… perché questa pena?

Una desolazione infinita, una pietà accorata per i nostri destini, un non capire e capire insieme che quello che ci stava accadendo era lì, immoto, nell’aria sospeso, tangibile e greve come questo pomeriggio di giugno.

Zagarolo, 21 giugno 2000 - pomeriggio

Ma quando rientro a casa io non posso fare finta di niente! Non posso! Giro per le stanze… scendo le scale… vado in cucina e quando sono lì mi chiedo? “Perché sono venuta qui?”, ma non c’è un perché… non c’è! Risalgo di nuovo, sino alla mansarda… mi affaccio e vedo i monti lontani… Ma non me ne frega niente dei monti lontani! E così ridiscendo, vado in camera: ”Dovrei dividere i letti?…” E poi di nuovo qui, la radio mi dà fastidio, non voglio parlare con nessuno! e il telefono squilla, io lo sento appena, non gli dò retta e quello squilla… Adesso il suono è penetrante… mi turo le orecchie, non voglio nessuno, non voglio parlare, non voglio ascoltare…

Come un lampo arriva il pensiero: “E se qualcuno ha bisogno di te?”.

Corro all’apparecchio, la cornetta mi cade, la riafferro al volo: “Pronto?…” Il cuore mi batte forte… Luca? mamma? Dario?… ma non c’è più nessuno. Resto lì, col telefono in mano e gli occhi nel vuoto…

Poi finalmente esco in giardino, ecco una cosa da cristiani, mi dico. I cani mi vengono incontro: Tobia col suo musone nero e la piccola Viola saltellante sulle sue tre zampette. Tobia mi lecca la mano, Viola guaisce d’amore per me. Mi siedo per terra tra loro. Le lastre del viale sono ancora calde di sole… I cani felici mi assalgono da tutte le parti, Tobia mi vuole dare la zampona e intanto con la lingua veloce cerca di baciarmi sul viso… Io lo schivo e lo allontano con la mano, ma lui è più forte di me e sopratutto mi ama di più.

Così questo pomeriggio, tra le mie bestie per terra, ho cominciato a piangere sconsolatamente. E i cani, forse consci, si sono acquietati d’incanto.

Zagarolo, 27 giugno 2000 - ore 22

Ci siamo chiusi il cancello alle spalle: i cani disperati, protendevano frenetici le zampe fendendo l'aria al di qua delle sbarre, nel tentativo di seguirci, uggiolando miseramente.

… Scendemmo lungo la stradina azzurra-violetta nel crepuscolo. Dario mi teneva la mano, protettivo come sempre. L'aria era piena di odori e di voci che salivano dalla valle. I fiori selvatici, ai bordi della discesa, erano tutti richiusi su sé stessi per l'approssimarsi della notte.

Fu un grido, quello che gli uscì dal petto, un grido lungo, improvviso… un "No!" lacerante e pieno di dolore… "Non voglio lasciarti!” gridò.

Io tacevo.

“Non posso lasciarti!… Non voglio!”

Ho preso un fazzoletto e gli ho asciugato la faccia inondata di lacrime e di sudore.

“Non devi farlo, se non vuoi”.

Mi abbracciò strettamente.

“Non posso lasciarti… e non posso… restare!”

Pensai: “Siamo due disperati, ecco cosa siamo, due disperati”.

Allungai una mano verso il suo viso coperto di ombre e che ormai non vedevo più, tanto era mangiato dalla notte… Grosse lacrime mi rotolarono nelle mani… ne provai sgomento e un poco di ripulsa…
Mi vergognai di me stessa: il suo dolore era autentico e palpabile.

Zagarolo, 7 ottobre 2000 - 0re 21

… le forze paiono abbandonarmi. E tutto il carico che ho sulle spalle, mi schiaccia…

Mi ritrovo con la faccia a terra, e da lì i miei occhi vedono lo scorrere delle ultime formiche, i granellini di terra polverosi, piccoli semi di chissà quale albero, qualche foglia rinsecchita che vibra ogni volta che respiro. È un mondo piccolo, raso terra, mai intravisto prima così chiaramente, come attraverso una lente. I fili d’erba, impalliditi dal troppo sole estivo, dondolano piano… Ci sono come delle piccole ghiande, i frutti dell’alloro forse?… Sono spaccate sulla cima, semiaperte… e anche… poco lontano dal mio viso… del muschio scolorito, una minuscola pietra nera, chissà da dove viene…

Chiudo gli occhi, voglio restare così, in questo piccolo mondo innocuo, tanto più adatto alla mia piccola esistenza.

Il sole di ottobre mi accarezza piano, mi veste di tepore…

Zagarolo, 11 ottobre 2000

… La memoria!… strano binario che corre a ritroso nel tunnel buio…

Ecco! Un tempo ancora più lontano…

1943, Collegio per orfani di guerra - Selvino.

Dei gradini di marmo grigio davanti agli occhi, a pochi centimetri da me, mentre faccio le scale sulle ginocchia perché Suor Emilietta mi sta prendendo a calci nel sederino di bambina di sette anni…

… e poi, ancora Suor Emilietta che passa, nella grande camerata, di lettino in lettino, per avvolgerci i piedini gelati nella vestina di lana che portavamo durante il giorno…

Strana creatura suor Emilietta, capace di nefandezze e di gesti così amorosi e delicati…

La guerra era a pochi passi da noi, Selvino era occupata dai tedeschi che ogni tanto facevano irruzione nel collegio per controllare Dio sa cosa…

Allora venivamo radunate nel “campo” per l’alzabandiera, l’altoparlante gracchiava sguaiatamente “Presente!” e “Sole che sorgi”…

Poi i partigiani avevano la meglio, i tedeschi indietreggiavano… Nel collegio era tutto un subbuglio per nascondere gli enormi ritratti del Re e del Duce che troneggiavano nel refettorio…

E noi, confuse, a battere le mani agli uni e agli altri…

Questa era la guerra, e guerra era il rumore delle bombe sopra Bergamo, che arrivava sin lì… e le squadriglie spaventose di aeroplani sopra le nostre teste… Inconfondibile il rumore della bomba che cade e uccide… Prima un lungo sibilo… e poi…

Avevamo tazze e piatti di alluminio e solo il cucchiaio. Sedevamo composte alle nostre tavolate, aspettando avidamente le suore che con enormi pentoloni passavano di tavolo in tavolo a servirci… Piatti di cipolle crude con un uovo sodo… Alle volte una pappa grigiastra e maleodorante, collosa e vomitevole…

E un giorno, non so come, ci ritrovammo tutte a battere col cucchiaio sul piatto di alluminio: era un rumore forte, martellato… Le suore impazzite correvano di qua e di là per zittirci, volavano scapaccioni, ma noi, imperterrite, col cucchiaio impugnato saldamente, “dalan dalan dalan dalan…”, continuavamo a cadenzare la nostra rivolta…

Le suore cedettero, e si misero a girare tra i tavoli con una ciotola di sale…. un pizzico a te…  un pizzico a te… via via, per tutto il refettorio.

Fu la nostra battaglia del sale. E lì appresi che se si lotta tutti insieme senza paura guidati da “un pensiero unico”, si può anche vincere. Avevo setto-otto anni, ma imparai subito la lezione.

Un giorno venne mamma a trovarmi: era bella, battagliera, coi lunghi capelli rossi che si muovevano col vento e l’abito leggero che le fluttuava armonioso attorno al giovane corpo, la bocca carminio aperta al sorriso… Sedevamo su una panchina del “campo”…

Attorno a noi le montagne azzurrine… un bel sole caldo che ci illuminava… la guerra lontana e dimenticata…

Si avvicina una bambina… “Signorina, ha detto la suora di tirarsi giù la veste, perché dà scandalo!”…

La sua giovinezza aveva offeso la vergine reclusa, il suo corpo sterile era stato insultato dalla nostra gioia.     

Zagarolo 1° dicembre 2000

È tutto finito.

Un’aula fredda e affollata di altrettanti disgraziati rancorosi e dolenti. Una fila di coppie, evitando di guardarsi, venivano a sancire il loro fallimento.

La voce neutra e piatta del giudice. “… da questo momento più nulla è dovuto, cade ogni obbligo dell’uno verso l’altro…”

Poche parole… e la coppia non c’è più, con la benedizione della legge.

Ma il dolore rimane. E assieme al dolore, uno stupore profondo…

Adesso sono qui… Mi aggiro per la casa…

Guardo la finestra rigata di goccioline di pioggia: io non riesco a piangere…

Non c’è più niente.

Zagarolo, 3 dicembre 2000

… un buio cupo cala su me, annegandomi l’anima.

… Cammino su e giù, su e giù, dalla porta d’ingresso alla rampa di scale che porta in cucina, su e giù… su e giù…

I miei occhi guardano i muri bianchi cercando un appiglio dove potermi perdere, lontano da questa lucida coscienza di me e della mia nullità… I miei occhi scivolano sulle pareti, ottusamente: un quadro, un pezzo di muro… un altro quadro e ancora muro… I miei occhi sono secchi di caparbietà: non devo piangere. I miei occhi bruciano, ma resistono, perché io voglio così. Niente pianti da donnina che ha perso il suo uomo.

Dove sono andata a finire? Strati e strati di tempo infinito, fatto di abitudini, di convenzioni, di ipocrisie, di lezioni imparate a memoria, di immobilità intellettuale, di mortificazione dello spirito, di ignavia del proprio corpo… Sotto tutto questo, forse ci sono io, come un quarzo schiacciato da stratificazioni millenarie.

Un latrare insistente richiama finalmente la mia attenzione. Ecco l’appiglio che tanto cercavo! I miei cani!…

Esco da casa un po’ barcollando, la luce mi ferisce, il sole da dietro le nubi, le trasforma in uno specchio insostenibile allo sguardo.

Non piove più. La terra ha un buon odore antico: inspiro profondamente, anch’io voglio avere questo odore.

I cani si strusciano come gatti contro le mie gambe, uggiolano piano, amorevolmente, vogliono le mie carezze…

Fa molto freddo: Tobia trema visibilmente non so se per passione, o per l’aria pungente che ci incalza.

Apro la porta, capiscono all’istante. Dolcissimamente, come in punta di piedi, si affacciano increduli: “Davvero possiamo entrare?”. Dico loro: “Coraggio!”, e già sono sdraiati sul tappeto, con le schiene nervose lucide di pioggia.

“Oh, la mia povera casa!”, mi vien da dire. Ma che m’importa della casa? Che me ne importa?

Prendo dall’armadio una vecchia maglietta e mi inginocchio ad asciugarli, le zampone di Tobia e le zampettine di Viola, il grande testone nero e la tenera testolina, una volta di un bel marrone lustro, ora già imbiancata dagli anni…

E penso ai miei, di anni, che sono tanti, anche se la mia testa non ha un capello grigio…

Mi siedo a guardarli e grosse lacrime mi cadono sulle mani…

Il mio cervello ormai è inerte. Vinta, mi lascio piangere senza più combattere.

Vedo i cani guardarmi preoccupati col muso teso verso di me…

Zagarolo, 16 dicembre - ore 15

Oggi è tornato un pallido sole che non riesce a scaldare la mia anima dolente. Un pallido sole malato.

Il giardino è spoglio e disadorno: le foglie secche per terra, fanno da padrone. Qua e là, piccole cacche lasciate dai cani, chiamano con impellenza un mio intervento, ma lo sguardo passa oltre con distacco. Neanche il volo di un merlo intirizzito riesce a catturare la mia indifferenza.