… Sì, tornai a casa quella volta. E dopo, ancora e ancora, me ne andai e ritornai, nella casa di mamma dove tutto era su misura. Qualche gatto raccolto per via, la gabbia di canarini, la coperta bella di pizzo fatta dalla nonna e le sue sorelle, dieci centimetri al giorno, che faceva mostra di sé nel lettone matrimoniale, le “gelosie” delle finestre che filtravano il sole con discrezione.

Questa la mia casa, e la dovevo lasciare, ogni volta con più strazio perché lì lasciavo anche mio figlio.  Me ne andavo su e giù per il mondo a “fare l’arte” come si diceva allora… Su e giù, treni, automobili, navi e aerei, per andare lontano, sempre di più, ovunque il teatro potesse arrivare.

Ne è valsa la pena?

No, assolutamente no. Ogni volta che tornavo il figlio era sempre più uno sconosciuto, soprattutto col passare degli anni. Quando potevo lo portavo con me, ma questo accadeva solamente d’estate, troppo poco per un bambino senza padre. Ricordo le sue attese estenuanti su una poltrona di un teatro ad aspettare la fine del mio lavoro per poter andare a mangiare o a dormire. O la mia ansia convulsa quando lo affidavo al portiere dell’albergo perché vegliasse il suo sonno, mentre io mi arrabattavo a guadagnarmi lo stipendio, fuggendo ogni mezz’ora alla ricerca sfrenata di un telefono per sentirmi dire da lui che stava bene, che era tranquillo…. Era molto savio il mio bambino: “Non ti preoccupare mamin, ho i giornalini…” e io, col cuore stretto, andavo a fare il saltimbanco.

Se Luca oggi è quello che è, la colpa è anche del teatro: al teatro ho sacrificato tutto, intimità, protezione, tenerezza, una famiglia “mia”, la mia vita di donna, e soprattutto la mia maternità. E non me lo posso perdonare.