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UNA STORIA VERA


 

Non è per vanità né per imprudenza che mi sono deciso a narrare gli eventi straordinari che mi sono accaduti in queste ultime settimane, ma sono mosso in tale modesta intenzione unicamente dalla fedele necessità di cronaca, e dal giovamento che altri potranno trarre dalle mie parole di speranza.

Orbene, inizierò ad esporre i fatti essenziali per la corretta comprensione dell’intera vicenda, e partirò descrivendo alcuni particolari concernenti la mia, pur tragica, vita.

Nacqui in una serata uggiosa, e mi vide alla luce una spoglia parete di una stanza di albergo, a metà strada tra le fresche lande costiere del nord e il ghiaccio perenne degli alti monti centrali. Mia madre era stata un’onesta lavoratrice, alle dipendenze del signor T., proprietario del locale e solerte imprenditore, finché non venne licenziata a causa della gravidanza. Tuttavia il signor T., che non doveva essere del tutto estraneo allo stato in cui mia madre si era trovata all’improvviso, fu magnanimo, e le permise di restare nell’albergo sino al momento del parto. Questo fu assai doloroso e fatale per la povera donna, che nondimeno volle fortemente vedere il frutto della sua pena, nell’agonizzante chiarore del tramonto. Non ebbe però la ventura di ammirarmi, quella sera, poiché l’estrema fatica cagionò la sua prematura dipartita dall’universo dei mortali. Proprio alla sua morte si deve probabilmente il mio innato senso di colpa, anche perché il tristo proprietario non volle saperne di occuparsi di quella infelice creatura, e mi lasciò, ancora umido dei primi vagiti, sotto un albero, sul ciglio dell’autostrada di fianco all’albergo. Il suo imbarazzo dovette essere notevole, quando poco dopo un cliente occasionale mi ritrovò e mi raccolse, e mi mostrò a lui. Dapprima il signor T. negò la mia esistenza, ma poi, mosso dalle formali proteste del cliente, finì per essere indulgente, e mi consegnò a lui in cambio di una notte gratuita nella migliore stanza. Di qua aumentò il mio sentimento di colpa, esteso alla sorte dello sventurato albergatore, e nel contempo nacque in me il disprezzo e l’odio verso colui che mi aveva sottratto all’equo grembo della notte mortale. Decisi comunque che sarebbe stato meglio così. Mi sarei abituato presto alla nuova condizione, che, in fondo, non credo mi sarebbe dispiaciuta troppo.

Il mio salvatore era uno scaltro giocatore d’azzardo, sempre preso dai fumi dell’alcool. Ed era un baro. Riusciva tuttavia a dissimulare questa sua singolare abilità a tal punto da sottrarsi usualmente alle ire delle vittime predestinate. In fondo era un uomo dabbene, che, a parte alcuni momenti disperati momenti in cui sembrava volermi abbandonare alle più strane creature dell’ancestrale fantasia delle umane oscurità, mi educò e mi allevò fintantoché non fossi in grado di gestire il mio destino. Quell’ora giunse presto, egli giudicò, e alfine mi lasciò libero di vagare indisturbato tra le strade del mondo, anche fuori dalla piccola stanza in cui ero stato cresciuto.

E allora vidi per la prima volta coi miei occhi la buffa varietà che serpeggia nel regno di madre natura, e seppi anche osservare me stesso con maggiore lucidità.

Avevo sei anni, ed ero poco alto (solo due piedi) quando egli mi lasciò andare. Curiosamente dovetti fare una strana e spaventevole impressione alla gente, che mi guardava con sospetto. Forse era per via della breve protuberanza che mi adornava la spalla mancina, che oltretutto dava l’apparenza di congiungersi con la molle escrescenza che, dalla linea obliqua, ma dolce, dei miei tre occhietti sereni, mi pendeva fino a terra, e che con imprudenza ero uso legarmi alla medesima spalla, acciocché non mi fosse d’impiccio quando camminavo.

Escogitai in seguito un valido sistema per occultare quella singolare difformità, e mi decisi a coprire il nodo alla spalla avvalendomi dell’unico, grande orecchio di cui disponevo. La cosa mi riuscì bastantemente, dacché non vi era modo alcuno di scorgere lo scomodo intreccio carnoso sotto la copertura dell’immenso padiglione.

Vissi diversi anni in queste condizioni, nell’ignominioso scherno che nei rapporti con gli altri esseri umani si scagliava contro la mia persona, finché, un fausto giorno, gli eventi iniziarono a seguire un corso a me favorevole.

Non voglio indugiare più a lungo sulle infamanti accuse che molti mi versarono addosso, né sulle tristi vicende che per mesi mi costrinsero alla più bieca solitudine. E per questo mi si consenta di esporre i fatti salienti della eccezionale avventura di cui fui protagonista, attraverso alcune – non immaginate quanto sudate – pagine del diario che mi sono industriato di tenere.

Da "il mio diario":

9 febbraio.

Da questa mattina un dolore sempre più acuto mi sta lacerando il fianco destro. Sembra che "qualcosa" voglia venire fuori, e spinga con determinazione.

14 febbraio.

È incredibile, ma è la verità: mentre stavo per addormentarmi, questa notte, ho sentito la pelle del fianco gonfiare e farsi a pezzi, e dal ventre ho visto uscire quattro sottili tentacoli, ricoperti di peli ispidi e rossi. E non so spiegare il perché.

16 febbraio.

La mia convivenza con il nuovo organo sta migliorando. Riesco talvolta a controllarne i movimenti. Ora sento un dolore profondo anche dall’altra parte.

19 febbraio.

Il dolore è sempre più acuto. Ma riesco a gestire del tutto la funzionalità dei tentacoli. A volte sono davvero utili. Penso che tutti debbano possederne almeno un paio, almeno per sbrigare le faccende di casa più ingombranti.

24 febbraio.

Sono venuti alla luce anche sul fianco sinistro! Non che non abbia provato disgusto, perché questi sembrano essere di un pallido verde smunto, ma ne sono ugualmente orgoglioso. Cercherò di abituarmi al inopinato contrasto di colori.

6 marzo.

Oramai i miei tentacoli funzionano alla perfezione. Stamane sono riuscito a reggere l’intero peso del mio corpo su di essi. Ho fatto alcuni metri metri sul pavimento, e sono stato soddisfatto della straordinaria capacità di coordinazione che ho sviluppato.

17 marzo, venerdì.

Oggi non è stata una giornata fortunata, come del resto vuole la tradizione. Il mio sconcerto è dovuto al fatto che ho perso gli occhi. Sembrerà strano a dirsi, ma la mia mente, nonostante ciò, non è stata oscurata. Sembra infatti che riesca a vedere ancora meglio, in maniera assai più variopinta, grazie a quelle sottili bacchette che mi escono dalle orbite vuote. Paiono steli di piccoli fiori di campo, ma sono azzurre, almeno così le vedo io, nello specchio.

23 marzo.

Non posseggo più i miei piedi. Fra l’altro non mi sono mai piaciuti. Sono stati tuttavia rimpiazzati da molli ventose appiccicose. E non potete immaginare quanto più comodo sia così!

15 maggio.

Faccio troppa fatica a scrivere ancora, con i miei tentacoli. Nulla di tutto ciò che il mio corpo aveva fino a pochi mesi fa si è conservato. Ho un aspetto nuovo, e mi sento desiderabile; il mio corpo è ora leggiadro e resistente. L’unico inconveniente è che sono costretto (non è che non ne trovi giovamento) a nutrirmi esclusivamente di escrementi umani. Il mio metabolismo accetta solo questo tipo di alimento, di cui per buona sorte non vi sarà mai penuria. Per questa e altre varie abilità che mi ritrovo, sono ora felice come mai lo fui, e vivo tranquillo e indisturbato, spostandomi silenziosamente da un essere umano all’altro. Le mie dimensioni, naturalmente, si sono notevolmente ridotte, e sono ormai stabili, cosicché possa dimorare laddove il cibo mi giunge spontaneo, senza recar troppo fastidio all’ospite.

Finalmente son felice, sono proprio felice.


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