Nella Sala degli Argonauti, dove si trova affrescato
il mito degli Argonauti, è rappresentata la nave Argo. Fu
costruita da Argo con l'aiuto della dea Atena che ornò la prua con
una figura intagliata con la quercia Dodona che era una quercia parlante:
all'estremità della nave si osserva una testa di animale con la
bocca aperta a significare la sua capacità di parlare.
L'affresco espone in sintesi i momenti più significativi
del mito di Medea, la donna innamorata di Giasone, comandante degli Argonauti.
In alto Medea guida il carro tirato dai draghi volanti, alla ricerca di
erbe magiche. A sinistra Medea invoca la sua luna prima di compiere
il prodigio del ringiovanimento del padre di Giasone. A destra la
donna sta squarciando il corpo del vecchio per infondergli i filtri preparati
nel pentolone. Il mito di Medea è narrato da Ovidio nel VII°
libro delle Metamorfosi, dove si trova il testo della preghiera di Medea
alla Luna ed è inoltre descritto da Apollonio Rodio nelle Argonautiche.
Le prove di Giasone
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Da questo salone entriamo nella sala attraverso
la porta che sta a sinistra e che immette appunto nella sala detta degli
Argonauti. Era lo studio privato del marchese e il luogo degli incontri
riservati, dove il marchese riceveva ~i amici più intimi. Ha una
dimensione di metri 8,10 per 7,10. Qui si descrive il mito degli
Argonauti. Viveva in Orcomeno, città della Beozia, un figlio
di Eolo, Atamante, il quale aveva avuto dalla dea delle nubi, Nefele, due
figli: Frisso ed Elle. Ma Ino, moglie di Atamante, odiava i due bambini
a morte, la dea Nefele, allora, mandò dal cielo un ariete dalla
lana d’oro perchè li salvasse e li trasportasse a volo lontano.
Durante il viaggio, Elle fu colta dalle vertigini e precipitò in
quel mare che dal suo nome fu detto Ellesponto; Frisso invece arrivò
sano e salvo nella Colchide, tra le montagne del Caucaso. Qui egli
sacrificò l’ariete a Giove; gli tolse la preziosa pelliccia e la
donò al re Eeta, che dominava in quella regione: costui era un mago,
fratello della maga Circe che dimorava nella caverna del monte Circeo in
Italia. Accettò il dono, lo appese ai rami d’un albero in
un bosco sacro e vi mise a guardia un drago. Viveva in quello stesso
tempo, nella città di lolco in Tessaglia un altro re chiamato Pelia.
Era un perfido tiranno che aveva usurpato il trono al suo fratello Esone.
La moglie di Esone, temendo che il tiranno attentasse anche alla vita d’un
suo figlioletto, Giasone, gli aveva dato ad intendere che questi era morto;
l’aveva invece trafugato sul monte Pelio, affidandolo alle cure del famoso
centauro Chirone, pieno di sapienza e di saggezza. Giasone, all’età
di vent’anni, ritorna a Iolco e chiede conto allo zio del suo operato.
Lo zio, il re Pelia, gli risponde che il trono appartiene a chi lo sa conquistare:
chi vuole riprendere il trono deve compiere qualche impresa straordinaria.
Per esempio deve andare nella Colchide a prendere un vello d’oro che era
dell’ariete di Frisso severamente custodito da un drago nel bosco sacro.
A questo punto la narrazione è lasciata agli affreschi del castello.
Gli Argonauti si chiamarono così dalla nave Argo. Furono re e principi
che si unirono a Giasone per andare nella Colchide, sull’attuale Mar Nero
ai piedi del Caucaso, per la conquista del vello d’oro. A Giasone
si affiancarono altri famosi eroi, tra i quali Anceo, Anfiarao, Castore
e Polluce, Echione, Meleagro, Telamone, Zete, Calai, Ercole, Orfeo, Mopso.
Cronologicamente l’impresa avvenne circa una generazione prima della caduta
di Troia, se riteniamo la data tradizionale dell’anno 1184 a.C., oppure
nel 1270 a.C. secondo i più recenti studi. Comunque il mito
riecheggia la storia dell’avanzata, lenta e continua, dei Greci in età
più recente, lungo le coste del Mar Nero, nella prima fase della
loro colonizzazione economica, verso oriente e verso il nord. Gli
affreschi sono certamente dopo il 1565, anno in cui è stampato un
libro che riproduceva alcune scenette a xilografia che sono tali e quali
come i disegni dei nostri affreschi, e se gli affreschi sono da attribuirsi
a Bernardino Campi, si sa che questo pittore morì nel 1591.
Bernardino Campi, tra le altre città, lavorò anche a Milano
chiamato da Ferrante Gonzaga, generale dell’esercito spagnolo, governatore
di Milano e più tardi conte di Guastalla. Il suo figlio, Ottavio
Gonzaga, sposò Cecilia Medici di Melegnano, figlia del marchese
Agosto: per questi legami e per tali conoscenze fu probabile che il pittore
Bernardino Campi avesse anche il lavoro di affrescatura al castello di
Melegnano. Tanto più che proprio in questa sala degli Argonauti
si riscontrano medaglioni decorativi in rosso scuro con linee e con soggetti
propri rintracciabili nel Palazzo de Te a Mantova dove ha lavorato Giulio
Romano di cui il Campi era amico e di cui sentì l’influsso.
Entrati nella sala osserviamo il primo affresco, quello che sta a destra
della porta e che raffigura una grossa nave: è la nave Argo.
La nave ebbe il nome di “Argo” dallo stesso nome proprio di Argo, figlio
di Frisso re della città di Orcomeno in Beozia; e la nave che portava
il suo nome servì ai principi greci da mezzo di trasporto per raggiungere
la Colchide dove si trovava il vello d’oro. Secondo una leggenda
questa nave sarebbe stata la prima imbarcazione che violò il mare
aperto e, dopo il felice esito della spedizione, fu trasportata in cielo
dagli dei e mutata in una costellazione. Le vele della nave sono
gonfie di vento, soffiato dalle divinità marine mandate per una
veloce navigazione: nell’affresco si vedono due numi del mare preposti
ai venti e che stanno soffiando con le loro trombe l’aria per la navigazione.
Il poeta greco Apollonio Rodio, nella sua opera Le Argonautiche (III, 340-349,
traduzione di Guido Paduano), così descrive la nave, nelle parole
di Argo davanti al re della Colchide: “La nave l’ha fabbricata Pallade
Atena e non assomiglia alle navi dei Colchi, tra cui avemmo in sorte la
più sciagurata: la loro nave è ben inchiodata, se anche le
piombassero addosso tutte le bufere: e corre ugualmente nel vento, e quando
gli uomini, senza tregua, fanno forza sui remi. Su questa nave ha radunato
gli eroi più prodi di tutta la Grecia e viene alla tua città
dopo aver errato per tante città e mari terribili, a chiederti il
vello”. Nella parete del camino l’affresco di sinistra mostra l’incontro
degli Argonauti con il re Finéo. Finéo, nel mito, fu re di
Salmidesso nella Tracia. Ripudiò la prima moglie per sposare una
seconda donna, di nome Idea. Questa donna odiava i due figli della prima
moglie, fino a dire che essi avevano tentato di sedurla. Il marito Finéo
le credette e accecò i due figli per punizione. Ma gli dei,
non tollerando la malvagità di Finéo, condannarono anche
lui a diventare cieco, a soffrire un’eterna vecchiaia e inoltre, comandarono
alle Arpie, tre mostri alati, di insozzare coi loro escrementi i cibi che
gli venivano preparati. L’infelice trascorse in tal modo diversi
anni, fin quando gli Argonauti approdarono a Salmidesso, incerti sulla
rotta da tenere: Finéo approfittò dell’occasione e si offri
di indicare loro la via se l’avessero liberato dalle Arpie. Nell’affresco
è ben visibile l’eroe capo della spedizione Giasone con l’abito
color giallo, così come si ripeterà negli altri affreschi
della sala. Ecco il caminetto. E’ opera in marmo da Verona di buona
fattura composto da due piedritti a forma di zampa di leone di pronunciata
modanatura che sorreggono la trabeazione. Nella parte superiore alla
trabeazione due riquadri in stucco colorato con due scenette a fresco color
seppia. Il camino è completato da una modanatura in cotto e dalla
cappa in stucco con affresco simbolico un po’ deteriorato. Nell’affresco
di destra del camino vi è la sintesi del mito di Medea, che si innamorerà
di Giasone. Medea fu una donna strana, dal carattere duro e vendicativo,
terribile nelle sue passioni e nelle sue vendette, che non indietreggiava
di fronte a nessun ostacolo pur di raggiungere lo scopo prefisso; capace
di macchinare e perpetrare i delitti più orrendi, pur di vendicarsi
o di ottenere quanto desiderava; è una delle figure della mitologia
greca su cui più d’ogni altra si sbizzarrirono gli scrittori, alcuni
dei quali ne tentarono anche una riabilitazione. In questo affresco
vi sono dunque parecchi fatti della vita di Medea. In alto cammina
su un carro vicino alla Luna; Medea in ginocchio fa una preghiera, mentre
si prepara a ringiovanire il padre di Giasone che sta steso su un cavalletto
davanti a lei. Riesce a far atterrare il carro notturno e vi monta
su palpando le teste dei draghi e scuotendo le briglie leggere, levandosi
verso regioni dove vi sono erbe incantate contenenti succhi per filtri
magici. Poi ritorna e nel vaso di bronzo bollente caccia rami secchi
ed erbe. Quindi brandisce la spada, squarcia la gola del vecchio
e lascia uscire il sangue senile mentre riempie le vene con il liquido
della pentola che bolle: sparisce la macilenza del vecchio e lo squallore,
la pelle non è più avvizzita, le rughe si riempiono di carne
e tutte le membra lussureggiano. I due affreschi sulla parete sopra
le finestre rappresentano, a sinistra, l’arrivo di Giasone e compagni presso
il re della Colchide, Eéta, padre di Medea. Ad Eéta
venne dato in custodia il vello d’oro. L’oracolo aveva predetto a Eéta
che avrebbe regnato finchè avesse conservato il vello d’oro. Perciò
egli, quando Giasone si recò da lui a farne richiesta, temendo di
perdere il trono dichiarò al giovane di essere disposto a cedergli
quanto chiedeva a patto che, in un sol giorno, fosse riuscito a soggiogare
due tori dagli zoccoli di bronzo, spiranti fiamme dalle froge di ferro
e a dissodare con l’aiuto di essi quattro iugeri di terra, per seminare
poi nei solchi i denti di un drago da cui sarebbero subito nati dei guerrieri
che egli doveva, come ultimo compito, uccidere. L’affresco di destra
rappresenta Medea, figlia del re Eéta, che si reca al tempio di
Ecate, una dea notturna, madre di Medea. Al tempio ella chiede come deve
comportarsi con Giasone, di cui si era innamorata. Ecco ora i due
affreschi della parete di fronte al camino: a sinistra sono dipinte le
prove di Giasone. La scena è piena e complessa. A sinistra sta seduto
il re Eéta circondato dal suo seguito, tra cui Medea e le sue ancelle.
Giasone promise a Medea di sposarla e la donna, che era una maga, gli fornì
erbe magiche con le quali avrebbe potuto compiere felicemente il compito
imposto. Giasone affrontò i due terribili tori spiranti fuoco
- nell’affresco sono dipinti a destra sullo sfondo - riuscì ad aggiogarli
e a costringerli a tirare l’aratro. Poi, tracciati i solchi, prese
dall’elmo - che nell’affresco giace in mezzo in primo piano - i denti del
drago e li seminò. Quasi immediatamente da quella semente insolita
nacquero i guerrieri - nell’affresco sono tutti sulla parte destra - che,
armati balzarono fuori dalla terra con intenzioni bellicose, ma Medea,
con le sue formule magiche, provocò una lotta reciproca e terribile
dei guerrieri fino ad uccidersi l’un l’altro. Ormai la via per la conquista
del vello d’oro era aperta. Il poeta romano Ovidio (43 a.C. - 18
d.C.) descrive magistralmente la scena: “L’aurora dell’indomani aveva fugato
le lucenti stelle: il popolo si radunò nel sacro campo di Marte
e si dispose sulle alture: in mezzo alla folla si pose il re, vestito di
porpora e riconoscibile per lo scettro d’avorio. Ed ecco che i tori dagli
zoccoli di bronzo spirano fiamme di Vulcano delle ferree froge e raggiunte
dall’ardore si disseccano le erbe: il figlio di Esone tuttavia muove all’incontro.
Feroci rivolsero verso colui che si appressava gli occhi terribili e le
corna puntute di ferro; con le zampe bisulche batterono il suolo sollevando
polvere; di fumo e di muggiti insieme riempirono il luogo. I discendenti
di Minia gelarono di paura. Ma egli si avvicina, non avverte quel respirare
infuocato - tale è il potere delle erbe - audacemente con la destra
accarezza le pendenti giogaie; e dopo aver imposto il giogo, li costringe
a trainare il peso greve dell’aratro e a fendere il terreno che non aveva
conosciuto il vomere; stupirono quelli della Colchide; con le loro grida
i discendenti di Minia accrescono e raddoppiano l’ardire. Allora egli toglie
da un bronzeo elmo denti di drago e li sparge sul terreno arato. Le glebe
intridono i semi già spalmati di efficace veleno; i denti seminati
germinano e divengono corpi novelli ... figure di uomini nascono dal campo
e già squassano le armi nate insieme a loro. Quando Giasone,
solo, si vide assalito da tanti nemici, impallidì e all’improvviso
Medea esangue e fredda si accasciò; e paventando che poco valessero
le erbe, prese a cantare un magico canto di soccorso e ricorse alle sue
arti segrete. Nel folto dei nemici Giasone scagliò una massiccia
pietra, allontanò da sé il furore di Marte e lo rivolse contro
di loro stessi: per ferite reciproche perirono i guerrieri nati dalla terra
e per fraterna contesa caddero sul campo. Esultarono gli Achei e,
raggiunto il vincitore, lo strinsero a sè con intensi abbracci “.
Siamo all’affresco di destra della stessa parete. La scena è dominata
da Giasone che compie l’ultimo suo atto. La maga Medea con i suoi incantesimi
era riuscita ad addormentare il drago che custodiva il vello d’oro collocato
su un ramo di un albero della foresta sacra ad Ares. Nella mitologia
greco-romana l’ariete che portava il vello d’oro fu tramutato in costellazione
detta appunto anche oggi “costellazione dell’ariete” - e a proposito il
poeta romano Ovidio scrisse: “Divenne astro il montone, toccando la spiaggia;
il vello d’oro si trasportò nella reggia dei Colchi”. Ricordiamo
ancora che Gian Giacomo, negli ultimi suoi momenti di vita, ricevette al
suo letto la visita del duca d’Alba, governatore di Milano e generale di
Carlo V°, che annunciava al morente l’onore di essere insignito del
Toson d’oro. Il vocabolo “tosone” è come dire la pelle, il
vello di montone odi capra. L’ultimo affresco, quello di sinistra
sopra la porta, rappresenta il re Eéta circondato dai suoi guerrieri
mentre sta inseguendo la figlia Medea scappata con Giasone: il re della
Colchide, Eéta, qui rappresentato al centro dell’affresco sul suo
cavallo, con la corona in testa, aveva compreso che tutto si era compiuto
perchè Medea aveva aiutato Giasone. Di qui l’odio contro la figlia.
Intanto gli Argonauti, quasi nascostamente - come sono dipinti nell’affresco
- si affrettano a raggiungere la nave Argo per ripartire con il viaggio
di ritorno: essi, con passo veloce, così come si vedono sullo sfondo
del dipinto, sono vogliosi di mettersi bene in salvo camminando a piedi.
Medea inseguita dal padre che voleva punirla per la sua azione fuggì
trascinandosi dietro il fratellino Assirto, e quando si accorse che stava
per essere raggiunta, uccise l’innocente fanciullo e lo tagliò a
pezzi, seminando le membra straziate dietro di sè: e così
il padre, per raccogliere i miseri resti del figlioletto, era costretto
a ritardare l’inseguimento, permettendo a Medea di mettersi in salvo sulla
nave di Giasone. Nell’ affresco il re Eéta, padre di Medea,
sta al centro: tiene nella mano destra un pezzo di mano del figlio ucciso
mentre un servo gli mostra anche il capo mozzo. Questo mito tragico
e sanguinario sulla morte di Assirto è raccontato da sommi scrittori
antichi: Ovidio, Apollonio, Rodio e Igino, con alcune varianti che però
non cambiano la sostanza del racconto. |