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La battaglia dei Giganti
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  La politica italiana ed europea
Verso la fine del 1400 erano ormai sul tramonto le due grandi istituzioni medioevali: l'Impero e il Papato. Si facevano sempre più forti le forze particolaristiche: signorie, case regnanti, borghesia mercantile.  Culturalmente si sviluppava una nuova sensibilità che ricuperava i valori umani e terreni già analizzati dalla civiltà greca e romana: esse si ponevano come modelli imperiosi per la ricerca di una svolta radicale nel modo di vivere la vita ed i propri interessi sulla terra senza eccessive preoccupazioni per il cielo e per le istanze religiose tipiche del Medioevo. I nuovi problemi umani erano quelli della politica, del commercio, della famiglia, dell'amicizia, della bellezza, dell'amore, della donna, dell'avventura, del guadagno, dei soldi, della proprietà, della conquista, del bel vivere, della cultura laica e della morale naturale. A tale nuova sensibilità si diede il nome di Umanesimo e più tardi di Rinascimento.  Mentre all'estero si creavano le grandi monarchie come nuovi soggetti di storia, in Italia le forze particolaristiche si arrestarono alla fase di Stati regionali, con la preminenza di cinque grandi Stati: Milano, Venezia, Firenze, Roma, Napoli. I feudi maggiori e minori non scomparvero del tutto, ma erano stati privati dai poteri politici e giurisdizionali perchè furono sottomessi alla sorveglianza degli organismi politici superiori.   In Occidente le grandi monarchie costituite e potenti erano l'Inghilterra, l'Austria, la Francia e la Spagna. L'Inghilterra era assorbita nel faticoso lavoro di risanamento dalle rovine di una lunghissima guerra detta dei Cento Anni e di una guerra civile, e per parecchio tempo non avrebbe potuto avere una parte importante nelle vicende europee. L'Austria doveva difendere la propria indipendenza e forse la sua stessa esistenza dall'attacco dei Turchi che minacciavano seriamente gli Stati cristiani e la loro civiltà. La Francia e la Spagna, invece, mirarono agli ingrandimenti della loro potenza volgendosi al di fuori dei loro confini.  La Spagna e la Francia, alla fine del 1400, erano i due massimi paesi latini di Occidente, affini di razza, di religione e di lingua madre, la latina. Ma l'affinità non servi ad unire le due nazioni. E neppure il pericolo dei Turchi potè creare una lega difensiva cristiana tra loro. Esse rivolsero gli sguardi cd i desideri ambiziosi verso e contro l'Italia: la nostra nazione divento' per molti anni il campo aperto di battaglia nello scontro tra eserciti francesi e spagnoli con i loro rispettivi alleati.  I primi e più vivaci a muoversi furono i Francesi. Essi, con il pretesto politico o dinastico, o perchè chiamati da principi italiani, scesero in Italia: Carlo VIII nel 1494, Luigi XII nel 1500, Francesco I nel 1515. La spedizione più lunga e più sanguinosa fu quella di Francesco I, il quale apertamente sosteneva che alcune parti d'Italia appartenevano alla corona francese. Inoltre Francesco I era nipote di Valentina Visconti milanese che sposò nel 1389 un principe francese della Casa di Orleans: come tale egli credeva suo pieno diritto riavere Milano come sua eredità famigliare.
Verso la Battaglia dei Giganti
A Milano regnava sul ducato Massimiliano Sforza che preparava la difesa con i soldati mercenari svizzeri, in una lega con la Spagna, l'imperatore ed il papa. Un esercito occupò i passi delle Alpi piemontesi, ma Francesco I riuscì a scendere per il colle dell'Argentera ritenuto impraticabile, e aggirando gli Svizzeri penetrò nel Milanese.  Sul fronte degli Svizzeri vi erano contestazioni, malcontenti e ammutinamenti perchè non avevano potuto difendere il Piemonte e perchè da tempo non arrivavano i soldi promessi e dovuti dai tesorieri della Lega.  Il re francese, quando venne a sapere di questa situazione, ne approfittò e prese l'iniziativa di un convegno con i capi svizzeri, fino a stendere il Trattato di Gallarate dell'8 e 9 settembre 1515.  Gli Svizzeri avrebbero dovuto rinunciare a difendere Milano ricevendo una forte somma di denari. I soldati del cantone di Berna furono contenti e ritornarono in patria; gli altri, specialmente quelli del Gottardo e di Zurigo al comando del coraggioso ed indomito capitano Marco Roist, si accesero di risentimento e di indignazione sia per il comportamento dei Bernesi sia per l'astuta abilità diplomatica di Francesco I: tradizionalmente la Lombardia era stata difesa con orgoglio dagli Elvetici delle generazioni precedenti, e la vergogna politica non doveva essere animata dai soldi di un re nemico!  In questo stato d'animo entrarono in Milano il 10 novembre 1515.  Intanto nuove bande di Svizzeri che scendevano dalle loro Alpi riportarono l'entusiasmo per la lotta, per la gloria, per l'orgoglio nazionale e per il bottino: tutte queste cose sarebbero state perdute se fosse stata conclusa una pace universale con i Francesi. Il comandante supremo, cardinale Matteo Schiner, potè convincere i confederati svizzeri che la presenza dei Francesi in Lombardia, col tempo, avrebbe rappresentato un grave pericolo per gli stessi Svizzeri, e ricordava che egli aveva stabilito un'alleanza con il papa Giulio II con la formale promessa che gli Svizzeri avrebbero fornito seimila uomini al papa e non avrebbero permesso arruolamenti in Svizzera per nessuna potenza straniera, specialmente se fosse la Francia. Naturalmente Schiner si faceva sentire sia perchè aveva autorità sulle truppe sia perchè dal 1512 era stato creato Legato papale in Lombardia.  Il cardinale Schiner teneva lunghi discorsi ai soldati che lo avevano abbandonato e che si erano accampati ad Arona. Non sappiamo di quanti soldati il cardinale disponesse; quello su cui non vi è dubbio è che, approfittando delle incertezze, della lentezza e delle contese degli Svizzeri, i Francesi riuscirono ad impadronirsi di molte piazzeforti importanti del Milanese, a mettersi in contatto dei Veneziani, a togliere la comunicazione tra gli Svizzeri ed i loro alleati.  Per gli Svizzeri si era perduto tempo, si era in posizione svantaggiosa.
Alla vigilia della battaglia
Francesco I non perdeva tempo. Il 10 settembre era a Landriano; attraversò Melegnano; non si fermò all'albergo del Cappello Rosso posto dirimpetto alla chiesa di San Rocco sulla attuale Via Predabissi, come invece pensavano i suoi ufficiali; passò il Lambro e fece accampare l'esercito tra Mulazzano, Casalmaiocco dove si fermò personalmente, a Sordio.  Il suo esercito era formato da famosi e valenti capitani: Carlo, duca di Borbone, noto con il nome di Conestabile, abile diplomatico ed ottimo generale; Gian Giacomo Trivulzio, gran maresciallo di Francia; Odet di Foix, visconte di Lautrec, maresciallo di Francia, che sarà governatore del Milanese dopo la battaglia; Giacomo II de Chabanne de la Palisse, generale brillante, comandante di uno squadrone di cavalieri; Pierre de Terrail, signore di Bayard, detto il cavaliere senza macchia e senza paura; Pietro Navarro, abile condottiero; Artus Gouffier, gran maestro della cavalleria; e altri famosi signori di Francia: La Clajecte, Ymbercourt, Pont de Remy, Talligny, Andrè, Talamont, Durazzo, Florangè, Bauel, Armagnac, Alençon, cognato del re, detto la seconda persona di Francia.  Tra le truppe francesi si trovavano piccardi, guasconi, normanni, lanzichenecchi, valenti artiglieri, abili cavalieri: la più poderosa e spettacolare armata mai prima vista. Spettacolare oltre che poderosa: i tempi della battaglia di Melegnano furono quelli della riforma capitale delle armate, se proprio si possono chiamare armate queste accozzaglie di bande marcianti sotto bandiere differenti. Una banda era una piccola armata: da qui l'origine della prima uniforme che fu indossata come segno di riconoscimento per tutti gli uomini della stessa banda. La guardia del re portava i suoi colori e le sue armi; le bande mercenarie si raccoglievano attorno ad una bandiera del loro capo, come, per esempio le Bande nere a Melegnano attorno alla bandiera nera di Fleurange.  Il re di Francia disponeva di circa quarantamila uomini, più altri ventimila che tenevano i territori occupati, di una cavalleria mobilissima e di una potente artiglieria; attendeva, inoltre, di giorno in giorno l'arrivo degli alleati veneziani.  Gli Svizzeri, invece, erano ventimila, e non potevano contare n‚ sugli alleati spagnoli n‚ sulle truppe di Firenze e del pontefice.  Era chiaro che gli Svizzeri, anche dal punto di vista militare numerico, erano in netto svantaggio. Oltre a ciò i Francesi erano muniti, come abbiamo detto, di una forte artiglieria, mai prima così prepotentemente usata. Per tutto ciò, la battaglia che stava per scatenarsi sarebbe stata una battaglia, la prima battaglia, in senso moderno.  Il mercoledì 12 settembre l'esercito francese si mise in moto. Il gruppo dei guasconi passò Melegnano, si diresse alla Rocca Brivio e a Santa Brera. Costeggiando la roggia Nuova arrivarono nei pressi di Zivido, dove incontrarono l'avanguardia del Conestabile di Borbone, del Trivulzio e del Navarro: questi, uscendo da Melegnano, avevano imboccato la strada romana (oggi la Via Emilia). Il re Francesco I pose il quartier generale a Santa Brera. La retroguardia, comandata dall'Alençon, stava indietro verso Melegnano.  A Milano gli Svizzeri, esaltati dalle parole del comandante supremo Schiner, ruppero ogni indecisione. Partirono verso Porta Romana, uscirono sulla Via che conduce a San Donato; erano più che convinti che le glorie passate, la loro fama di invincibilità, il loro tipo di combattimento, la loro esperienza, la capacità provata dei loro capi potessero, ancora una volta, battere i Francesi. La massa degli Svizzeri era ormai surriscaldata: sarebbe stata non più una scaramuccia tra compagnie di ventura, ma una guerra nazionale.  Marciarono in disordine fino a contatto con il nemico. Poi si riordinarono e ripiegarono verso la campagna oltre San Donato. Si schierarono in tre corpi. Al centro era il borgomastro di Zurigo, Marco Roist, con il grosso delle truppe. La battaglia era dunque imminente, ma la sera si avvicinava. Si inginocchiarono a pregare: “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, questo sarà il nostro cimitero": era la formula tradizionale tipica degli Svizzeri prima di ogni battaglia.  Risuonò il grido di guerra feroce, suonarono i corni delle Alpi, partirono le prime cannonate francesi. La battaglia era iniziata.
La battaglia dei Giganti
L'artiglieria apriva vuoti paurosi tra gli Svizzeri: la nuova arma dava i suoi primi tragici trionfali frutti. Ma gli Svizzeri passarono all'attacco contro i pezzi di artiglieria come avevano fatto alcuni anni prima a Novara, impegnando una terribile zuffa corpo a corpo.  Ma il Trivulzio ed il Conestabile di Borbone contrattaccano con la cavalleria pesante. Ed anche contro la cavalleria pesante gli Svizzeri hanno la vittoria. Tra gli Svizzeri vi era un gruppo di arditi dal titolo la Gente perduta, violenti ed indisciplinati, ma risolutivi sul campo di battaglia.  Nella mischia, in questa prima fase della battaglia, cadde senza cavallo lo stesso Trivulzio, caddero parecchi capitani da ambo le parti, mentre gli Svizzeri riuscivano a catturare alcuni pezzi di artiglieria e a sconfiggere l'avanguardia francese e ad inseguirla. Si giunse allora allo scontro tra le due masse centrali, tra gli Svizzeri e i Lanzichenecchi tedeschi delle Bande Nere. Lo stesso re Francesco I entrò nella mischia trascinando i suoi più valorosi, perch‚ la battaglia stava prendendo una piega sfavorevole.  Al primo assalto mosse lo svizzero Arnoldo di Winkelried, degno del suo coraggio, seguito da una parte dei piccoli cantoni, di San Gallo, dei Grigioni. Gli Zurighesi, invece, si ritirarono, e ci volle il cardinale Schiner con i motivi di onore e di patria, con il loro concittadino Rodolfo Rhan che informò che era ormai attaccata la battaglia: tutti tornarono al campo. Si combattè fino alla mezzanotte, al chiaro di luna.  La notte, Francesco I non rimase inerte. Interpellò i capitani, dispose il centro dell'esercito accanto alle ali, piazzò in luoghi più convenienti le artiglierie, percorse le file dei combattenti animandoli, si ritirò presso un cannone, bevve un bicchiere di vino e si addormentò, forse.
Intanto il Trivulzio che stava all'avanguardia presso Zivido nel più assoluto silenzio diresse alcune squadre di guastatori nei campi per rompere gli argini dei fossi e delle rogge piene d'acqua, e convogliò gran quantità d'acqua nei campi, allagandoli.  Il cardinale Schiner ritrovò i capitani elvetici in un casolare e prese la decisione di suonare il corno per chiamare a raccolta i soldati sbandati. Nel consiglio di guerra si fronteggiarono due posizioni: la prima era quella per la continuazione della lotta fino al clamoroso trionfo su Francesco I; la seconda era quella di ritirarsi perchè giudicava sufficiente, per l'onore delle armi, quanto avevano fatto durante la giornata: l'avanguardia francese disfatta, il grosso dell'esercito nemico era stato costretto ad indietreggiare, dodici pezzi di artiglieria erano stati catturati, molte bandiere di gruppi francesi erano cadute nelle mani degli Elvetici. Ma talvolta avviene paradossalmente e con una logica ferrea che gli stessi motivi siano, per una parte e per l'altra in contrasto, argomenti validi per liquidare la volontà l'uno dell'altro.  Il campo di battaglia era seminato di morti e di feriti. I feriti francesi furono avviati a Melegnano trasportati dai saccomanni che erano gli addetti alle salmerie ed ai servizi. I feriti svizzeri, assai più numerosi, si erano portati nella distesa oltre San Giuliano per avere le prime cure, ma i più gravi morirono.  Già erano partite le notizie della vittoria svizzera e intanto sorgeva l'alba del 14 settembre. La battaglia si riaccese subito.  Gli Svizzeri si lanciarono all'assalto, ma vennero respinti. Gli aiuti invocati a Milano e quelli che si trovavano a Piacenza non si mossero, e quindi il peso della lotta contro i Francesi era unicamente sugli Svizzeri anche per la seconda giornata di battaglia.  Gli Svizzeri tentarono una manovra di aggiramento. Intanto l'artiglieria francese faceva paurosi vuoti nelle file nemiche.  Tuttavia massicci gruppi elvetici riattaccarono e riuscirono ancora una volta a sfondare le linee francesi: già parecchi scappavano verso Melegnano per salvarsi, compresa la cavalleria. Ancora il Trivulzio ed il Borbone riorganizzarono le linee francesi, ripresero il lato destro ed impegnarono il lato sinistro degli Svizzeri, che erano così stretti da due lati.  A questo punto iniziò la terza fase della battaglia. Il generale veneziano Bartolomeo d'Alviano, alleato dei Francesi, arrivò da Lodi in aiuto con la sua cavalleria e subito si gettò nella mischia.  Uscendo da Melegnano trovò sulla strada della Rampina una moltitudine di francesi che si ritiravano, li rimproverò e li ricacciò nella mischia.  Poi urlando “Francia! Francia! San Marco!” entrò con la sua cavalleria nel vivo del combattimento.  Dopo attimi di smarrimento gli Svizzeri rinnovarono la ferocia uccidendo parecchi cavalieri tra cui diversi ufficiali veneziani. Anche la cavalleria veneziana stava per essere messa in difficoltà dagli indomiti e terribili montanari elvetici. Ma gli Svizzeri vedevano sopraggiungere una schiera sempre più numerosa di soldati nemici che li attaccavano da ogni parte: essi erano stanchi, feriti, affamati, stravolti, inferociti, ma non decisamente vincitori.  Anzi molti di loro erano impantanati nelle acque dei prati, colpiti senza pietà dagli archibugieri e dai saettatori; molti si portavano verso i prati di Mezzano; altri si smarrivano ed erano circondati ed uccisi.  Si asserragliarono a Zivido, occuparono le case, i granai, gli orti, le cantine e continuavano a combattere. Ma il loro combattimento, ora, era una disperata difesa. Assediati da tre lati, avevano libera solo la via per ritornare a Milano: difatti, il grosso dell'esercito si raccolse attorno alle sue bandiere e marciò verso Milano. La battaglia era perduta.  Quelli di Zivido furono stanati col fuoco e col ferro; alcuni gruppuscoli si persero verso Santa Brera passando vicino agli equipaggi del re francese, e di là passarono il Lambro dove poterono salvarsi. Altri invece, gettatisi nei campi opposti e bersagliati dalle frecce dei guasconi, cercarono le boscaglie e riuscirono a fuggire verso Carpianello. I più lenti, che erano feriti e malconci, furono raggiunti ai Mulini e trucidati.  Gli Svizzeri superstiti, avendo saputo che molti dei loro si erano già incamminati verso Milano, giudicarono conveniente ritirarsi dal campo. I supremi generali Roist, Rohan e Anglard, chiamarono a raccolta tutti i soldati sulla stradale romana come in un luogo più sicuro e comodo. Con le armi in pugno, fieri nell'aspetto, serrate le file, portarono i loro feriti, bagagli e dodici bandiere del nemico, abbandonarono il campo di battaglia, lasciando sul terreno alcune migliaia di morti; erano caduti nel sangue gli alfieri di Svitto, di Uri e i valorosi Grigionesi.  I Francesi videro gli Svizzeri ritirarsi asserragliati in quadrato difensivo, tenendo al centro i cannoni che si trascinavano a forza di braccia, composti e dignitosi.  Non è vero ciò che tramanda la leggenda su Francesco I il quale avrebbe dato ordine di non molestare gli Svizzeri che si ritiravano: in realtà tutti i dispersi furono cercati barbaramente, trovati, bruciati o uccisi. Trecento di Zurigo che si erano rifugiati in un convento a San Giuliano vennero cannoneggiati, e poichè resistevano alle artiglierie furono bruciati insieme con il convento.  Il maresciallo Trivulzio, nella considerazione di uno scontro terribile, aspro, sanguinoso e incerto fino all'ultimo momento dopo molte ore di attacchi e contrattacchi disse che le diciotto battaglie alle quali aveva prima partecipato gli sembravano giochi di fanciulli in paragone a questa che gli era davanti non come battaglia di uomini ma di giganti. L'espressione del Trivulzio servì a qualificare, in estrema sintesi, il fatto d'arme di Melegnano: battaglia dei giganti.  Francesco I poteva essere soddisfatto di aver raggiunto i suoi
scopi: riconquistare Milano; continuare l'azione del suo predecessore Luigi XII; convinzione di essere il legittimo erede di Milano; bramosia di riscattare l'onore delle armi francesi; la febbre di abbassare l'orgoglio degli Svizzeri; l'ambizione di segnare il suo arrivo alla corona di Francia col restaurare la sua autorità sul Milanese: il tutto sostenuto dai suoi vent'anni ardenti e focosi, brillanti e rinascimentali.  Da parte svizzera si commisero gravi errori: la divisione interna tra le truppe davanti all'invasione francese e l'irrazionale attacco disordinato improvviso contro gli ordini supremi di un gruppo di combattenti di Uri, Zug, San Gallo e dei Grigioni, al comando del focoso Arnoldo di Winkelried, appena in vista dei Francesi.  Inoltre gravò sul destino della battaglia l'inerzia, la fiacchezza e la viltà degli alleati spagnoli, papalini, fiorentini ed imperiali: fu questa una grossa, se non la prima causa, della grave disfatta.  C'è da dire che non era più a guidare la politica italiana il battagliero papa Giulio II, ma il dotto Leone X, il quale era atterrito dalla piega che stavano prendendo gli eventi, ed aveva già aperto le trattative in segreto con Francesco I, sebbene esortasse ancora e di continuo gli Svizzeri a combattere contro i Francesi ed a prepararsi ad uno scontro decisivo.  Sul numero dei morti svizzeri vi è assoluta incertezza: le fonti svizzere dicono che ve ne furono cinque o seimila; la storiografia italiana sta su Otto o nove mila; gli storici francesi ne dicono attorno ai dodici o tredici mila.
Dopo la battaglia
Che cosa significò Marignano per gli Svizzeri? Segnò la fine della politica espansionistica della Lega elvetica e fu l'ultima grande battaglia di un popolo guerresco, mentre si andava delineando il nuovo periodo della storia nazionale svizzera come periodo di assestamento e di neutralità. Più tardi gli Svizzeri riconobbero che Marignano fu in certo qual modo provvidenziale e coniarono la frase:  “ Ex clade salus “ cioè: dalla sconfitta venne la salvezza. 
 Negli anni seguenti incominciò a diminuire la fama degli Svizzeri come abili militari, mentre si elevò al di sopra delle stelle la figura di Francesco I che divenne un second Hannibal, un second Cesar; per la sua madre, Luisa di Savoia fu il “fils glorieux et triumphant, Cesar subjugateur des Helveticiens”. La battaglia di Marignano portò decisive conseguenze e radicali cambiamenti, ebbe cioè un esito fortemente risolutivo nelle questioni internazionali, nazionali e locali: Massimiliano Sforza cedette il ducato di Milano a Francesco I e dovette ritirarsi con una pensione di 30.000 scudi in Francia dove morì. Il Milanese quindi tornava ai Francesi.  I Tredici Cantoni svizzeri conclusero con la Francia la Pace Perpetua e si impegnarono a non arruolarsi contro i nemici di Francia. Da allora gli Svizzeri si rifiutarono di legarsi con chiunque, al di sopra di tutti i trattati esistenti, ed instaurarono una politica di perseverante neutralità.  Il papa Leone X restituì Parma e Piacenza ai Francesi e dovette concludere un concordato sulle questioni ecclesiastiche.  Con il nuovo re di Spagna, Carlo, venne firmato un trattato: i Francesi si tenevano il Milanese, gli Spagnoli si tenevano il Napoletano, e conclusero una pace difensiva perpetua.  E' risaputo, inoltre, che la battaglia di Marignano aprì la serie delle prime guerre moderne, sia per la molteplicità degli interessi, sia per la vastità dei campi di battaglia, sia per l'uso del denaro e delle alleanze. Rimase, tuttavia, una battaglia tradizionale, perchè l'uso delle armi da fuoco fu ancora limitato anche se pauroso.
Le decisioni degli Svizzeri
Rientrò l'esercito senza ostacoli in Milano e colà iniziarono le trattative e le liti tra il cardinale Schiner e gli altri capi; il cardinale tentò invano di persuaderli a rimanere finchè giungessero nuovi rinforzi. Ma i primi due magistrati di Zurigo, Roist e Hartensein, fecero vincere il partito di tornarsene in Svizzera e di lasciare solo presidi in Milano e in Cremona, finchè si sapessero le determinazioni del governo elvetico che allora era in assemblea a Lucerna.  Desolato, il cardinale di Sion si ritirò ad Innsbruck presso l'imperatore, e gli Svizzeri presero la strada di Como e di Bellinzona.  Dopo aver provveduto alla sicurezza di Lugano e di Locarno giunsero tra le Alpi sul finire di settembre.  Il duca di Milano si rinchiuse in castello e la città fu immediatamente occupata dai Francesi.  Al seguito delle truppe svizzere c'era anche Swingli, il parroco di Glarona. Egli venne a Melegnano come cappellano dei suoi parrocchiani. Dei suoi 1600 parrocchiani, circa 400 rimasero sul terreno. I superstiti ritornarono sfiniti nel fisico, ricchi economicamente ma pervertiti nello spirito. Tuttavia la lezione non servì a nulla perchè Glarona continuò a fornire soldati mercenari a chi ne chiedeva. Zwingli, come si sa, divenne poi un famoso capo della Riforma protestante. Nel tentativo di estendere il suo movimento si scontrò con i cantoni cattolici in guerra che si concluse con la sconfitta di Zwingli a Kappel dove morì nel 1531.
Il duca Massimiliano Sforza
Dopo la disfatta il duca si ritirò asserragliato nel castello di Milano, in attesa di eventi. Sebbene il governo svizzero facesse sperare ancora nuovi soccorsi e sebbene potesse per lungo tempo tenersi sicuro nella sua fortezza, pure egli preferì darsi spontaneamente nelle mani del vincitore.  Cedette il castello, Cremona, tutti i suoi territori e città, e si contentò di passare in Francia per finire i suoi giorni con un vitalizio assegnamento di trentamila scudi e con la speranza di un cappello cardinalizio.  Il re Francesco I si obbligava a corrispondere agli Svizzeri seimila scudi per ogni piazzaforte cedutagli, e tutte le somme di cui il duca fosse debitore.  Quando il duca Massimiliano venne ammesso ad adempiere gli atti della sottomissione, ringraziò il re di averlo sottratto all'arroganza degli Svizzeri, all'avidità dell'imperatore e agli inganni degli Spagnoli, affermando che stimava una vera fortuna perdere il trono di Milano, tenuto in quelle condizioni.  Intanto si seppe che i capitani di Basilea, scrivendo da Lugano il 17 settembre ai loro concittadini, riassumevano gli avvenimenti tra il giorno 8 ed il 14 settembre, i giorni appunto della marcia di avvicinamento, della sanguinosa battaglia e della successiva ritirata delle milizie elvetiche. Essi dicevano che l'incapacità di Massimiliano Sforza, i dissensi degli stessi Svizzeri, la lentezza dei collegati, avevano annullato l'audacia dello Schiner e dei suoi seguaci: sui campi di Marignano la fortuna aveva tolto loro la vittoria ma non l'onore.
La battaglia dei Giganti e Melegnano
La battaglia prese il nome di “battaglia dei Giganti” dalla frase del maresciallo Trivulzio. E tale continuò ad essere chiamata nei secoli.  La battaglia dei Giganti non coinvolse nessuno dei Melegnanesi.  Impegnò solo il paese nella prestazione dei servizi più urgenti, perchè la retroguardia francese aveva parte dei suoi contingenti in Melegnano.  Ma fu chiamata anche “battaglia di Marignano”. Le testimonianze storiche la chiamarono così. Una lettera di un certo Andrea Rosso, indirizzata a Paolo Capelo di Venezia, scritta sul campo di battaglia, si chiude così: “Data in campo appresso Marignan die 14 septembris, hore 19, 1515”.  La parola “Marignan” fu usata la sera stessa della vittoria da Francesco I scrivendo a sua madre in Francia.  Un'iscrizione mortuaria di Francesco di Borbone, duca di Castroeraldo, cugino dello stesso re Francesco I e fratello del conte Carlo di Borbone, gran conestabile di Francia, esiste nella chiesa di Santa Maria di Zivido. La lapide è stata posta dal fratello del morto Carlo di Borbone con queste parole: “Francisci de Borbonio / Castriheraldi ducis fortissimi / bello elvetico ad Marignanum / extincti... Carolus frater / hoc monumentum posuit”.  Un combattente francese che seguiva l'esercito in qualità di portaordini di Francesco I, di nome Pasquier le Moyne, nel 1520 scrisse un libro a cui diede il titolo: “Voyage et conquete du Duchè de Milan en 1515: bataille de Marignano”.  Le famiglie nobili che si presero cura delle salme dei loro cari, appena dopo la pace, misero sulle tombe sia in Italia sia in Francia la parola Marignano.
La vasta eco sulla battaglia dei Giganti
La battaglia di Marignano detta dei Giganti suscitò un vasto interesse: su tale avvenimento di grossa portata non solo militare, ma anche politico e diplomatico rimangono lettere (Francesco I, Goro Gheri, Bartolomeo Alviano, Gasparo Contarini), relazioni (a Enrico VIII di Galeazzo Visconti: a Venezia da parte degli ambasciatori veneti), cronache (del Bordigallo, Burinozzo, Maini, Grumello). diari (Jasques Siquot, Da Nova, P. Le Moyne, Marin Sanudo, Jean Barillon, Martin du Bellay, il Fleurange, il Journal d'un bourgeois de Paris), storiografia (Francesco Guicciardini, Mambrino Roseo di Fabriano).  Nel settore musicale ecco la canzone La bataille de Marignano di Clement Jannequin, composta nel 1515 in occasione della vittoria di Francesco I a Marignano pubblicata per la prima volta nel 1528.  Questa canzone, nella quale l'autore usò elementi onomatopeici e descrittivi, ebbe enorme diffusione, sia nella versione originaria sia nelle trascrizioni strumentali; ed era logico, perchè lo Jannequin partecipò alla battaglia.  Della battaglia di Marignano si impadronì anche la leggenda: Gian Alberto Bossi, poeta e grammatico di Busto Arsizio, in un suo poemetto del tempo dal titolo De signis et prodigiis, non trascurando anche gli avvenimenti del suo periodo, ricordava i pulcini che per cinque giorni cantarono come galli prima della battaglia di Marignano.  La battaglia di Marignano ispirò parecchi artisti, nella pittura e nella scultura. Nella Sala delle Armi del Museo nazionale di Zurigo vi è un meraviglioso affresco di Fernand Hodler (1835-1918) che riproduce La ritirata di Marignano.  Sulla tomba di Francesco I a Saint Denis, in Francia, è scolpita la battaglia di Marignano. Il re Francesco I, entrando in Milano dopo la vittoria, fece coniare una moneta con la scritta Primus domitor Helvetiorum, il primo vincitore degli Svizzeri.  Nel castello di Versailles vi è un quadro del pittore Jean Honorè Fragonard (+1806) rappresentante La battaglia di Marignano, di schietto sapore romantico.  La battaglia di Marignano ispirò anche l'arte letteraria. Dopo pochi anni del terribile scontro fu pubblicato a Milano, senza data, con caratteri del 1500, un poemetto in venti canti in ottava rima, che ha per argomento il periodo storico dalla calata di Carlo VIII al saccheggio di Roma, praticamente dal 1494 al 1527, e che ha come titolo "Guerre horrende d'Italia". Dopo il canto decimosecondo vi è il Canto decimoterzo, qual si narra de la venuta d'el Re di Franza in Italia, e come rompette li Sguizzeri con l'aiuto Venetiano.  Questo poemetto sostiene la tesi che i Veneziani furono determinanti per la vittoria: senza di essi i Francesi non avrebbero vinto.  Nella biblioteca nazionale di Parigi esiste un codice con le opere di Cicerone, scritto per Francesco I, con una miniatura rappresentante la battaglia di Marignano: al centro è Francesco I su un cavallo bianco che guida una furiosa carica verso gli Svizzeri che lo incalzano da vicino.  Alla periferia di San Giuliano Milanese, in provincia di Milano, esiste ancora, sebbene cadente e quasi del tutto invisibile, il monumento denominato La Vittoria, eretto da Francesco I dopo la battaglia. Era una semplice costruzione elevata in cotto, ora in pessime condizioni. E' al margine tra la Via Emilia e la distesa dei campi.  A Zivido di San Giuliano Milanese è venerato l'Ossario che raccoglie le ossa dei caduti della battaglia, costruito dalla pietà popolare e dalle autorità ecclesiastiche per riunire in luogo degno le ossa che riaffioravano alla superficie quando si eseguivano i lavori di aratura dei campi. Nel 1965 fu inaugurato anche un monumento in onore ai caduti. Nel cortiletto e in chiesa vi sono cippi ed iscrizioni che ricordano la battaglia. Sulle pareti della chiesetta sono murate le lapidi commemorative di alcuni dei caduti tra le famiglie più nobili di Francia.
Le tradizioni popolari
Intorno alla battaglia dei giganti si pongono anche alcune tradizioni non controllabili dalla documentazione storica. Una tradizione riguarda i Morti di Mezzano. La cappella che sta a ridosso della chiesetta di Mezzano, dedicata a Santa Maria della Neve, contiene una raccolta di ossa. La tradizione direbbe che sono ossa dei caduti della battaglia, ed il popolo attribuisce loro il potere di fare miracoli. Della cappella si ha notizia piuttosto tardi, e le ossa potrebbero essere quelle riesumate dai campi e dai prati circostanti. Seguendo questa ipotesi gli Svizzeri, nel 1965, hanno collocato una lapide a ricordo dei loro morti in battaglia. Ad avvalorare la tradizione sta ancora oggi un campo adiacente detto "campo dei morti".  La seconda tradizione riguarda il frate francescano beato Bernardino de Bustis, grande predicatore della nobile famiglia de' Bustis. Promosse associazioni di culto e di beneficenza, specialmente in favore dei poveri che non volevano dimostrarsi tali. L'opera più strettamente legata al suo nome è l'istituzione dei Monti di Pietà, fondati nel 1484. Fu a Melegnano, come commissario del suo Ordine francescano per la nomina dei sindaci apostolici del convento di Santa Maria della Misericordia in Melegnano. Il Bustis mori a Melegnano nel convento francescano, non si sa bene in quale anno; ed è qui dove si innesta la tradizione, in verità molto debole: il padre Bernardino de Bustis forse sarebbe morto in seguito agli avvenimenti del 1515. Però non sappiamo nulla di veramente circostanziato.
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