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Il Settecento
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Il governo austriaco
 
 
 
 
 
 
 

La situazione del bilancio melegnanese
 
 
 
 
 
 

Le spese della Comunità di Melegnano
 
 
 
 
 

I rimedi

Le vicende belliche
 
 
 
 
 
 
 

I tempi di Maria Teresa d’Austria
 
 
 
 
 
 
 

Giuseppe II e le soppressioni
 
 
 
 
 
 
 

Il nuovo cimitero fuori le mura
 
 
 
 
 
 

La sistemazione del corso del Lambro
 
 
 
 
 
 

La demografia melegnanese e le località

Melegnanesi illustri

Il governo austriaco
Nel 1713 la Lombardia accolse come una liberazione il passaggio all’Austria, in seguito alla guerra di successione spagnola (1702-1713), quando Carlo II, regnante in Spagna morì senza lasciare eredi diretti.  Durante questa guerra ed altre due (successione polacca, 1733-1738; e successione austriaca, 1740-1748) anche l’Italia fu campo di battaglia delle rivalità e delle ambizioni dei principi che si contendevano i troni alla morte di un regnante senza eredi.  Con la pace di Utrecht, una città dell’Olanda, si operò la spartizione dei possedimenti spagnoli: Milano e Napoli toccarono all’Austria. E per la Lombardia successivamente i sovrani furono quindi Carlo VI (1711-1740); la figlia Maria Teresa d’Austria che nel 1740 ereditò uno Stato disordinato e debole all’interno e senza considerazione all’estero; ed il figlio di lei Giuseppe II fino al 1790.  Alla fine del secolo ci imbatteremo con Napoleone Bonaparte e la sua Campagna d’Italia del 1796 e con la fondazione della Repubblica Cisalpina del 1797 con capitale Milano.  Ma restavano le conseguenze pesanti del governo spagnolo, soprattutto in fatto di finanze, anche locali. 
La situazione del bilancio melegnanese
All’inizio del secolo il bilancio comunale di Melegnano era in forte passivo: il fiscalismo opprimente della Spagna, le tasse ed i forti dazi, i numerosi monopoli statali, il passaggio delle truppe, aggravarono il bilancio comunale con effetti quasi fallimentari.  Melegnano contava circa 2500 abitanti (nel 1749 tutta la parrocchia, che comprendeva Melegnano, Vizzolo con le cascine, Pedriano con Mezzano, Santa Brera con la Rocca Brivio, Riozzo, Colturano, aveva 4372 anime); il reddito era basso, le famiglie ricche o benestanti erano poche, vi era un’alta percentuale di analfabeti, e l’86% del territorio melegnanese era adibito ad agricoltura ed orticoltura.  A possedere terreni ed una relativa ricchezza erano il marchese Medici e gli Istituti religiosi, cioè la parrocchia ed i conventi. Nel 1723 la condizione della chiesa di Melegnano relazionava questa cronaca: «chiesa collegiata, prepositurale, otto canonicati, molte cappellanie, preziose suppellettili e paramenti, quattro confraternite di laici e circa cinquemila abitanti ». Nella seconda metà del 1700 il patrimonio della chiesa prepositurale di S. Giovanni era robusto, e tanto per avere un punto di riferimento, ricavava lire 1714 dagli affitti di case e terreni; lire 2031 per i livelli, ossia dei contratti agrari di tipo medioevale con i quali era concesso un terreno per un certo tempo a determinate condizioni; aveva un capitale depositato a Milano al Banco di Sant’Ambrogio di lire 69.000. Il totale, quindi del valore dei beni ecclesiastici, in immobili e in denari depositati risultava di circa 73.000 lire; e parallelamente a ciò si aggiungevano i beni terrieri dei conventi melegnanesi: Serviti, Cappuccini, Francescani, Carmelitani, Suore Orsoline.  I beni immobili del marchese Medici risultavano circa un quarto della superficie melegnanese, più alcuni diritti sulla pesca del fiume Lambro, ed un’annua tassa che la comunità doveva versargli a titolo di antica consuetudine, per alcune facoltà di permessi e di autorizzazioni di azioni pubbliche.  Gli agricoltori ed i fittavoli in Melegnano non potevano essere nel numero dei grandi benestanti: era una delle categorie più colpite dalle tasse; dovevano sostenere il peso di un capitale precario perchè esposto a siccità, a grandine, ad alluvioni e a tutte le intemperie: tanto per ricordare qualche esempio, nei giorni 1 e 2 novembre 1713 fu concesso uno straordinario giubileo dal papa Clemente XI per una terribile mortalità del bestiame bovino delle nostre campagne e di quello proveniente a pascolare nelle nostre zone dalla montagna.  Per il problema del bilancio comunale in forte deficit e del reperimento dei fondi per le opere pubbliche ed i debiti, ed in genere per ottenere un miglioramento della situazione finanziaria, si costituì nel 1718 una commissione di melegnanesi per stendere un rapporto dettagliato alle autorità superiori. Il testo del rapporto rileva che l’estensione del Comune di Melegnano era di circa 7000 pertiche di vecchia misura, comprese 750 pertiche dei territori dei Lassi e 350 del Cabiano; comunque nel 1718 le spese del Comune di Melegnano ammontavano a lire milanesi 28.636,10 con un introito di lire milanesi 27.037,11 con un deficit di lire 1.578,99.  Inoltre il Comune doveva pagare a cittadini privati i danni per i passaggi e per gli alloggi delle truppe; per le prestazioni e per le somministrazioni ai militari; e nello stesso anno 1718 il Comune di Melegnano era gravato di un debito di lire 87.723, una grossa cifra che né le rendite né i diritti comunali riuscivano a pagare.  Il reale vantaggio era quello dei Comuni circonvicini che vendevano ai magazzinieri di Melegnano, a caro prezzo, fieno, paglia, avena, legna e altro materiale richiesto per le truppe.
Le spese della Comunità di Melegnano
Del resto, per avere un’idea più analitica dei carichi finanziari che gravavano sul Comune, basterebbe questo elenco di spese:
Debiti contratti per 91 mila lire avuti in prestito.
Contribuzioni militari.
Salari per amministratori.
Pagamento al marchese Medici di lire 900 per omaggio e di lire 620 come terratico (oggi plateatico).
Spese per la podesteria feudale (che rappresentava il funzionario regio austriaco) che a sua volta era sostituito da un luogotenente.
Offerta per messe solenni dello Spirito Santo celebrate per la buona elezione dei consiglieri ed assessori comunali.
Spese per la solenne processione del Corpus Domini.
Spese per la celebrazione della festa patronale di Melegnano in onore a San Giovanni Battista il 29 agosto di Ogni anno.
Spese per le predicazioni al popolo del periodo dell’Avvento e della Quaresima.
Salario al sagrestano della chiesa per suonare l’agonia.
Spese per lavori artistici della chiesa di San Giov~nni (cornici, quadri, rifacimenti interni).
Spese per feste straordinarie (corpi musicali, sparo di mortaretti, addobbi).
Il movimento di queste spese entrava nell’ambito degli organi di governo locale così costituito:
Assemblea dei capifamigha che eleggevano quattro assessori (chiamati deputati) e che erano assistiti da due delegat4 uno di nomina regia ed uno di nomina locale. Tutti e sei formavano il consiglio comunale.  Talvolta si radunava il consiglio straordinario formato da tutti i capi di casa che pagavano carichi personali o estimi reali o mercimoniali.  Attorno a questi organismi vi erano altre figure burocratiche: il cancelliere notaio (140 lire all’anno); il ragionato che doveva tenere registri, elenco delle tasse, stendere i bilanci, custodire l’archivio; a Milano era scelto un avvocato che era il procuratore del Couluile; un galoppino o sollecitatore delle pratiche; un vigile o guardia armata chiamato fante o bargello; il custode dell’orologio pubblico che era sulla fronte del palazzo del Comune; e naturalmente le sedute e le discussioni erano tenute fino a tarda notte al lume di candele.  A tutto questo si aggiungeva il console, eletto dal Comune, il quale prestava giuramento alla Banca Feudale ed annualmente alla Banca Criminale presso il Palazzo Pretorio di Milano. Il suo servizio era gratuito, non riceveva soldi né doni di alcun genere per essere imparziale per i giudizi civili e penali.  Naturalmente ogni funzionario era parte integrante della normale continua amministrazione di Melegnano, e direttamente o indirettamente era coinvolto nella floridezza o nella crisi della situazione finanziaria di Melegnano. E quando le condizioni del bilancio diventavano allarmanti occorreva cercare qualche rimedio.
I rimedi
Un formale ricorso fu dunque presentato a Carlo VI, re d’Austria e signore di Milano, in data 13 settembre 1724. Carlo VI rispose mediante i suoi ministri. E nella risposta è ricordato tutto il memoriale inviato dai Deputati della Comunità di Melegnano: le piene devastatrici del Lambro; le continue soste ed i passaggi delle truppe il cui mantenimento pesava in misura eccessiva sulle finanze locali, essendo già state spese lire 130.000 che non erano ancora state rimborsate dal ministero competente; parecchie famiglie che cercavano lavoro altrove, facendo diminuire il numero degli abitanti ridotti a 1700 residenti; infine si toccava un problema scottante ancora ai nostri giorni: la possibilità di aggregare a Melegnano le terre circonvicine, perchè godevano ed avevano goduto delle spese comunali melegnanesi e dei servizi senza alcun loro carico; la lettera di risposta terminava comandando al governatore di Milano di un « entero compimento de iusticia e la referenda Comunidad por la parte ad onde toca con la possible brevedad ». Ma il governatore intervenne solo in parte; ed il bilancio non fu risanato.  La questione dell’ampliamento dei confini, che era ricordata alla fine della relazione, era posta in modo generico. Però più tardi, nel 1751, si domandava che fossero aggregati i Comuni di Riozzo con la Cascina dei Lassi, Sarmazzano, Colturano e Caluzzano, Cabiano e Balbiano, Pedriano e Mezzano, Rocca Brivio e Santa Brera, Vizzolo e Calvenzano. Ma non se ne fece nulla perché nel 1924 ancora tornò alla ribalta, e nel 1927 il commissario prefettizio Lamberto Silvestri stese un progetto di ampliamento territoriale ed amministrativo del Comune di Melegnano che aveva ettari 438,80 con 8500 abitanti; e finalmente nel 1932, con il podestà Luigi Moro, si ritornò all’attacco con una più ampia relazione per l’unificazione dei Comuni del territorio di Melegnano.   La passività del bilancio non fu affrontata soltanto con le petizioni alle supreme autorità, ma anche con moduli di austerity locali e concreti. Il 14 febbraio 1756 si convoco un consiglio ad alto livello di alcuni tra i melegnanesi più direttamente interessati all’amministrazione publlica, con lo scopo di studiare l’eliminazione o il taglio di alcune spese definendole superflue: togliere le contribuzioni alla chiesa di S. Giovanni; abbassare il salario agli agenti di polizia togliendo alcuni incarichi e passandoli al console; rivedere il salario al podestà; ridurre le spese generali comunali.  Per aumentare le entrate si stabilì di aumentare il prezzo del pedaggio del ponte sul Lambro; mettere all’asta l’elezione del console; obbligare, con sentenza del tribunale, i debitori verso il Comune al pagamento entro breve tempo.  Fu questa una politica di contenimento delle spese e di risanamento del bilancio, ma soprattutto una revisione morale, perché da parecchi anni avvenivano abusi e interventi nei rapporti tra amministratori e cittadini, e tra amministratori ed il nostro marchese: a nome di omaggio al feudatario (come consuetudine medioevale) il comune di Melegnano pagava trecento lire annue a titolo di nullaosta per il mercato al giovedì, più una lira per ogni quintale di generi e di merci che si conducevano al mercato; più due soldi e tre denari per ogni brenta (o bigoncia, recipiente in legno di forma conica rovesciata, usata come unità di misura all’epoca) di vino che entrava in Melegnano; più lire 620 a titolo di favore.  Ma d’altra parte si mossero anche gli esercenti che nel 1757 fecero un ricorso per ottenere la riduzione delle tasse che i Deputati del Comune avevano aumentato.  Le relazioni tra amministratori comunali ed il marchese Medici si inasprirono, nel 1772, in occasione del matrimonio di uno della casa Medici: non fu approvata la spesa di lire 50 imperiali, che dovevano servire per un ricevimento decoroso in castello.
Questa ostilità, talvolta aperta, che nel Settecento melegnanese spinse gli amministratori a negare i contributi alla chiesa ed al marchese, prima versati da lungo tempo pacificamente, era suggerita da impellenti necessità amministrative locali di bilancio; ma trovava anche una giustificazione e una pressione ideologica innegabile: era la presa di posizione contro l’autoritarismo assoluto per la propaganda ormai generale delle nuove idee europee dei filosofi dell’illuminismo che reagiva alle differenze sociali di casta; che voleva annullare i privilegi delle classi aristocratiche; che riteneva giunto il momento di operare l’uguaglianza degli uomini; che criticava il principio della divinità del principe; che voleva la separazione dei poteri legislativo, esecutivo giudiziario; e soprattutto rivalutava la ragione umana come unico metro per soppesare i motivi di ogni azione anche tributaria, contro le consuetudini, le tradizioni e gli usi dei secoli passati.
Le vicende belliche
Il Settecento melegnanese è pure inserito nelle vicende belliche che si agitarono in Europa. Tra Francia e Austria, per ragioni lontane da noi, divampò una guerra dal 1733 al 1738 che fu detta la guerra di successione polacca, dopo la morte del re di Polonia, Augusto II: la Francia sosteneva un pretendente, l’Austria ne sosteneva un secondo; ed in tal modo la guerra, con il suo vasto sistema di alleanze, divampava anche presso di noi, appunto per la presenza degli Austriaci nella nostra zona. Anche il re della Savoia e del Piemonte, Carlo Emanuele III, e che da poco tempo aveva assunto il titolo di re di Sardegna, si accordò con i Francesi e desiderava strappare la Lombardia all’Austria, cedendo eventualmente la Savoia alla Francia: già si preannunciava la rivalità tra il Piemonte e l’Austria per il possesso della regione lombarda, e quindi un remoto preludio alle guerre del Risorgimento.  Carlo Emanuele III, alla testa di un esercito franco-piemontese, si avviò verso Milano, entrò in città il 3 novembre 1733, ed occupò la Lombardia, di cui si chiamò duca. In questi stessi tempi Melegnano vide il transito e l’alloggio di forti contingenti di truppe: il 6 novembre 1733 giunsero seimila soldati franco-piemontesi al comando del generale francese De Colignì; alla fine di novembre Carlo Emanuele III fece passare sulle nostre vie duecentoquaranta carri, carichi di artiglierie, proiettili, barili, zappe ed arnesi vari, verso Milano; per tutto il mese di dicembre si fermarono a Melegnano, per poco o per più giorni i più alti ufficiali dell’esercito franco-piemontese, con un intero corpo d’armata, con i tenenti colonnelli, luogotenenti, tesorieri, commissari e cappellani religiosi.  La truppa era sistemata negli stallazzi, nei cortili, nelle osterie, nelle chiese; gli ufficiali sceglievano le case private dove si portavano anche i loro servitori particolari, i cavalli ed i loro muli.  Il Comune, a spese pubbliche, forniva la paglia; ed in seguito gli amministratori comunali, dietro presentazione delle domande di risarcimento, pagavano una quota a quei melegnanesi che ebbero nelle loro case gli ufficiali; era anche fissato un contributo per l’uso delle lenzuola, delle coperte, e del tipo di letto usato.  Melegnano rappresentava una tappa preziosa e sicura perché in posizione relativamente calma, vicino a Milano che si poteva raggiungere in poche ore di marcia, adatta ad ogni tipo di ritirata verso Lodi o verso Piacenza o verso Pavia; in una zona ricca di fieno, paglia, viveri in ogni stagione, soprattutto in un terreno abbondante di acqua, necessaria ad un esercito trainato da cavalli; con la presenza di fabbri e di ferrai e di falegnami attrezzati nei lavori di riparazione dei carri e del materiale trainante del tipo di quello agricolo sul quale i nostri artigiani si erano specializzati.  Ma anche il conflitto terminò, e le operazioni belliche si conclusero con la Pace di Vienna del 18 novembre 1738. A Carlo Emanuele III però non fu assegnata la Lombardia, come era nei suoi voti, ma soltanto Tortona e Novara; mentre in Lombardia rientravano gli Austriaci. Quindi, nel giro di poco tempo, abbiamo visto in casa nostra, dopo la Spagna, l’Austria, i Piemontesi, e da ultimo nuovamente l’Austria; e tutta questa altalena avvenne tra il 1706 ed il 1738. Rimasero tuttavia i tristi segni: debiti e morte. I debiti aggravarono il bilancio comunale, come abbiamo già detto. E le truppe di passaggio lasciavano qui parecchi soldati per ricevere la sepoltura nei nostri cimiteri. Talvolta invece le truppe di passaggio imponevano la consegna immediata di pane, di vino e di soldi, che i melegnanesi erano costretti a consegnare.
I tempi di Maria Teresa d’Austria
Carlo VI di Asburgo, re d’Austria e imperatore, padrone del Milanese, moriva nel 1740, e lasciava come erede Maria Teresa, unica figlia. Ma una solita alleanza di Stati europei non voleva riconoscere la nuova regina e imperatrice: Francia, Spagna, Napoli, Prussia e Baviera. E fu ancora la guerra che ebbe ripercussioni anche in Lombardia, dove si fronteggiavano specialmente spagnoli e austriaci; e nell’ambito di questi fronti militari sempre mobili di evacuazioni e di rioccupazioni Melegnano conobbe ancora frequenti movimenti di truppe, talvolta di notte, subendo violenze e minacce, ed anche cedendo il letto agli invasori. Ed arrivarono non soldati austriaci, ma croati, boemi ed ungheresi. A Melegnano il conte di Brequevil era governatore e nello stesso tempo teneva il comando delle truppe franco-spagnole di tutta la Bassa Milanese, e praticamente era in prima linea, perché circondato da truppe austriache, tanto più che un comandante austriaco aveva osato una improvvisa apparizione a Melegnano il 29 luglio 1746, beffando la difesa.  Il giorno dopo si convocò d’urgenza un consiglio di guerra, dove intervennero il comandante generale della piazzaforte di Lodi, il commissario di guerra spagnolo Francesco Gonzales, il comandante di Melegnano, conte di Brequevil: si richiesero nuovi contributi alla popolazione; Melegnano fu preparata a subire un assedio con lavori straordinari diretti di persona con tracotanza da Brequevil, non risparmiando minacce e schiaffi agli uomini reclutati per i lavori.  Ma tutto fu vano perché l’Austria entrò anche in Melegnano, prima che il Brequevil potesse rendere inespugnabile il nostro paese.  Con l’avvento di Maria Teresa d’Austria, ormai riconosciuta erede di Carlo IV, arrivò un nuovo tipo di amministrazione, e fu steso il Compartimento dello Stato territoriale di Milano, con Editto del 30 dicembre 1755. Il Compartimento del Ducato di Milano fu distinto in 57 pievi civili. Melegnano fu inclusa nella pieve di S. Giuliano che comprendeva queste comunità: Arconago con Gnignano, Bascapé con Casadeo e Beccalzù, Bustighera con Caluzzano e Borgo Novo, Carrobbio, Mombretto e Bettola, Carpiano con cascina Muraglia, Carpianello, Castel Lambro, Cerro e Gazzera, Civesio, Colturano con Cabiano e Balbiano, Gavazzo, Landriano, Mangialupo, Mediglia con Triginto e Melegnanello, Melegnano, Mercurago con Villa Zurli, Mezzano, Pairana, Pedriano, Roncate con Borghetto, Robbiano con Bruzzano e Sfregata, Riozzo con cascina dei Lassi, Santa Brera con Rocca Brivio, San Giuliano con Sesto Gallo e Bettolino, San Zenone e Foppa, Sesto Ulteriano con Cologno, Torre Vecchia, Trognano, Viboldone con Montone e Viglioè, Videserto con Guasoldo, Cantalupo, Cassinazza, Vigliano con Saresano, Vigonzone, Villarzino, Vizzolo con Calvenzano e Sarmazzano, Zunico con Faino, Ortigherio e la Matta, Zivido con cascina Rovida.  Ma perchè questa riforma territoriale? Per la stesura di una guida agli effetti fiscali; e Melegnano, calcolata con superficie di pertiche 6050, doveva consegnare al fisco reale scudi 82.075,1.  Difatti tra le prime preoccupazioni di Maria Teresa fu la compilazione del catasto delle proprietà fondiarie, cioè un preciso inventano dei beni (« catasto » significa «registro »), per poter stabilire più logicamente le tasse. La mappa catastale servì per l’imposta fondiaria: i fondi furono tassati in rapporto al loro reddito.  Questa riforma ebbe un vantaggio sociale, perché svelò chiaramente le ricchezze fondiarie, rendendo maggiormente perequate le imposte, dal momento che la tassa era imposta su qualche cosa di reale; e nel 1760 questo sistema divenne definitivo per tutto il milanese.
Giuseppe II e le soppressioni
Il 27 novembre 1780 moriva Maria Teresa d’Austria, e il figlio Giuseppe II prese il governo dello Stato. Era convinto della bontà e della necessità dell’assolutismo, e quindi si propose di intervenire in modo pesante anche negli affari ecclesiastici: era convinto che toccasse a lui personalmente, più che al papa ed ai vescovi, regolare la vita della Chiesa nei suoi confini territoriali.  Giuseppe II volse un particolare sguardo ai conventi ed alle congregazioni religiose: la confisca dei loro beni poteva rinsanguare le finanze imperiali. E l’impegno riformatore era inoltre stimolato dalla simpatia per i nuovi orientamenti di riformismo illuministico e delle correnti filosofiche nelle quali fu educato in gioventù dai suoi precettori. La direzione ed il controllo delle materie ecclesiastiche vennero dirette in Lombardia da un istituto appositamente creato, la Giunta Economale.  Un fatto di particolare importanza per Melegnano, al tempo della Giunta Economale, legata al più stretto assolutismo austriaco, fu la soppressione del convento dei Carmelitani e dell’ospedale e convento dei Disciplini a S. Pietro. Il prevosto Giovanni Candia, melegnanese, intervenne con intensi incontri ad alto livello ed ottenne che le proprietà e le rendite dei soppressi conventi formassero un fondo speciale per l’erezione del Luogo Pio di Carità, che doveva avere come scopo la sovvenzione di medicinali, visite mediche e cure ai poveri e bisognosi di Melegnano. L’azione del Candia fu efficace e positiva: il 29 maggio 1771 si procedette alla vendita dei beni immobili e dei beni mobili profani, e si ottenne anche che i vasi sacri ed i paramenti ed i mobili dei conventi fossero lasciati per il servizio delle singole chiese annesse. Attuata la sistemazione delle proprietà, venne celebrato il giorno di erezione del Luogo Pio di Carità, con rogito del 18 febbraio 1775, ed il Candia fu nominato, dal governo austriaco, amministratore del Luogo Pio, ricevendo in consegna tutto il patrimonio e la responsabilità di stabilire le cariche amministrative ed esecutive. La calma era tornata; i beni erano rimasti in paese e per uno scopo nobile; il Candia fu esaltato dai melegnanesi.
Il nuovo cimitero fuori le mura
Una singolare opera di questo secolo fu la costruzione del primo cimitero fuori le mura. L’autorità civile disponeva che i cimiteri non fossero più accanto alle chiese, e neppure che si seppellisse nei templi, come era avvenuto nei secoli passati. Ma si ordinava che i camposanti sorgessero fuori dall’abitato.  A Melegnano fu scelto un angolo fuori il ponte di Milano, sul terreno dove oggi sorge il monumento dell’Ossario. Con un rescritto del 6 settembre 1784 si dispose la solenne benedizione del recinto cimiteriale, e ne guadagnò il decoro per il ricordo dei morti.  Prima d’allora, infatti, i morti erano sepolti in diversi luoghi, secondo la giurisdizione ecclesiastica, o anche per comodità, o secondo il desiderio delle persone singole. Prima di allora noi leggiamo sui documenti testimonianze come queste: « ...sepolto nella chiesa dei padri Carmelitani del Carmine... »; oppure « ...sepolta il dì 5 gennaro 1708 nell’oratorio di S. Pietro...»; ed anche « ...sepolto nella nostra chiesa di S. Giovanni...»; talvolta vi era un trattamento diverso e specifico, come questo: « Giovanni Battista Donelli fu sepolto in questa chiesa prepositurale collegiata al piede della balaustra di marmo dell’altare dei morti il 19 marzo 1709...».  Comunque fu una legge opportuna perché vi erano numerose lamentele da ogni parte per la poca pulizia e cura alle sepolture comuni accanto alle chiese periferiche, tanto più che il paese era in aumento ed i cimiteri interni non potevano più accogliere un numero maggiore di cadaveri, per cui la costruzione del nuovo cimitero fuori le mura risolse anche un problema di igiene e di rispetto.
La sistemazione del corso del Lambro
Un ulteriore grosso problema di questi tempi era l’urgenza di risolvere un fatto tecnico ed economico: il corso alto del Lambro, la parte alta del Lambro, cioè quelle acque che scorrono nella zona della Cerca e prima della Crocetta. Si formavano permanenti allagamenti e piccole paludi stagnanti, con pericolo di proliferazione di insetti nocivi, e parzialmente anche con pericolo della malaria. Era anche stato discusso un progetto di unire Milano a Pavia con un naviglio, accanto all’idea di costruire un canale navigabile tra Milano e Melegnano, perché il Lambro potrebbe essere navigabile da Milano fino al Po. Forse, però, il progetto dei canali navigabili, oltre al timore di fortissime spese o di decisioni troppo ardite, incontrava anche la difficoltà della quantità discontinua della massa d’acqua; basti pensare che negli anni 1775 e 1780, nella Bassa Milanese, vi fu un periodo lungo di siccità, durante il quale i pozzi melegnanesi stavano asciugandosi, mentre i fossi erano completamente essiccati ed i melegnanesi dovevano compiere alcuni chilometri nelle cascine di campagna per rifornirsi di acqua. Lo stesso prevosto Candia promosse solenni processioni di penitenza, in tali anni, perché la siccità fu ritenuta una pubblica disgrazia.  Naturalmente le piene del Lambro erano causate anche dalle piene dei suoi affluenti più immediati; ed uno dei suoi affluenti più immediati è il Redefossi, il grande canale che attraversa la campagna milanese fino a Melegnano e che deriva le sue acque ed il suo nome dal redefossi che cingeva le mura viscontee e che si scaricava nel primo tratto della Vettabia.  E’ da ricordare che questo canale ha il suo principio dalla cascata a quattro porte con lo scaricatore superiore a fior d’acqua che si trova poco al di sopra del Tombone di San Marco fuori la Porta Nuova, lungo la sponda sinistra del Naviglio, al quale serve per ricevere le piene; da Porta Romana si volge a sud verso Melegnano, in parallelo con la Via Emilia; in vicinanza della Rampina si getta nella Vettabia. Questo tratto, da Milano a Melegnano, fu costruito nel 1783 per togliere gli inconvenienti che prima arrecava nei dintorni di Milano e per migliorare la zona di Porta Vittoria e di Porta Romana che spesso erano colpite dalle piene.  Potevano, dunque, essere acque preziose per l’irrigazione dei nostri campi, quando la stagione era normale e le acque scorrevano tranquille. Preziose soprattutto erano le acque nei momenti di bisogno. Infatti nel luglio-agosto 1774 una terribile prolungata siccità gravò sui nostri campi della Bassa. Si fecero diverse processioni penitenziali ed invocative da parte del prevosto Candia, di tutti i frati melegnanesi, di tutte le confraternite religiose e di una larga partecipazione di popolo: il momento era stato dichiarato di calamità pubblica. E questo lo si capisce dal fatto che quasi tutta l’economia melegnanese era fondata sull’agricoltura che dava il primo necessario sostentamento personale e familiare.  Ma altre volte il Lambro era stato causa di disastrose inondazioni: il fondo rustico di S. Materno vicino al convento dei Cappuccini, al di là della Crocetta, era continuamente invaso e rovinato dalle violente corrosioni del fiume; questo fondo aveva una rendita annuale di 40 ducatoni d’argento, pari a circa 350 lire di allora, ed il fondo era lavorato dalla famiglia del fittabile Mazzola.  Il problema delle inondazioni era sentito da tutti. Già nel 1704, in occasione della visita pastorale del cardinale Archinti di Milano si scriveva sugli Atti che l’impeto delle acque del Lambro aveva travolto le case che stavano a ridosso della chiesa di S. Giovanni e mettevano in pericolo le fondamenta stesse del campanile e della chiesa; e pertanto si esortavano tutti i melegnanesi ad impegnarsi con tutte le forze in questa opera urgente, con denari, legna, ferro e cemento.  I lavori per il restauro del corso del Lambro furono eseguiti verso la metà del secolo, e nel 1745 le riparazioni erano avviate per il tracciato di un nuovo alveo; gli assistenti ai lavori erano due melegnanesi, Francesco Barchetta e Carlo Casanova.  Mentre i lavori procedevano nella zona dell’attuale Casa di Riposo (o Ricovero dei vecchi e che allora si chiamava Castellazzo), sul fondo del fiume furono scoperte colonne di legno e pali e parecchi tronchi come antica opera di difesa delle sponde di altri secoli; furono rinvenute anche palizzate su un percorso a destra e a sinistra per una lunghezza di metri 85.  La scoperta parve importante, perché fu steso un atto notarile da un membro del collegio milanese dei notai, Giovanni Battista Bertuzzi, arrivato a Melegnano per autorità imperiale.
La demografia melegnanese e le località
Demograficamente Melegnano nel 1779 aveva 561 famiglie con 2672 abitanti, a cui si devono aggiungere Vizzolo con abitanti 612; Colturano 428; Riozzo 520; Rocca e Santa Brera 205; Mezzano 187; Pedriano 282.  La fine del Settecento segna anche l’ultima resistenza dei vecchi nomi di località melegnanesi, perché nel secolo successivo vi saranno parecchi cambiamenti. Eccone un saggio: nel Borgo S.  Rocco, al di là del quale o nei suoi dintorni, vi era la cascina del Gamborello, la cascina Fornaci, il mulino di Riozzo, il palazzo Litta, la cascina Giardino, la Camatta, la Croce Bianca, la Corte nuova, la cascina Medica, Silva, Martina, Bertarella, Cattanea, il Molino rotto.  In centro, attorno alla piazza di S. Giovanni vi era la Contrada del Basso che è l’attuale via Frisi, la stretta del campanile, la strada postale detta talvolta anche romana o mantovana, la piazza Castello, la Contrada lunga, il Palazzo Visconti che è l’attuale Caffé Centrale, l’osteria delle Due Spade; verso il Ponte di Milano era nominata l’osteria dei Tre Re, la Contrada del Carmine, la casa del magazzino, la contrada del quartiere, la corte del Falcone, l’osteria delle monache, la Contrada delle monache; al di là del ponte del Lambro si trovava il borgo Lambro, la Crocetta, la via dei Servi, il Casarino, il borgo ratti.  Fu in questo periodo che incominciarono gli smantellamenti più decisivi dei resti delle tre porte che davano l’accesso a Melegnano: il Ponte di S. Angelo o Portone, più volte rifatto con successivi lavori di restauro e di riadattamento; il ponte di Milano, che chiudeva il paese separando il Carmine e tutta l’attuale via Vittoria fuori Melegnano, e che anticamente era la zona chiamata contrada Carmine; la porta del Lambro che era un complesso fortificato comprendente un bastione al limite del ponte del Lambro al di qua del fiume con un ampio arco demolito nei primi decenni del 1800.
Melegnanesi illustri
Nel 1728 nasceva a Melegnano Giuseppe Maria Frisi il giorno 13 di aprile, figlio di Giovanni e di Francesca Magnetti. La famiglia Frisi era di Melegnano, ed il padre si trovava arruolato nell’esercito; ma in seguito ottenne di essere interessato in vari appalti dai quali trasse una considerevole fortuna, ma per cattiva amministrazione perdette i beni che possedeva. Il fratello, Antonio Francesco, nacque pure a Melegnano diventando poi canonico di Monza ed autore di monografie storiche.  Giuseppe Maria Frisi a sedici anni fece la professione religiosa nella chiesa del Carrobiolo di Monza e si chiamò Paolo nell’Ordine dei Barnabiti. Il melegnanese Paolo Frisi lasciava a Melegnano una famiglia numerosa: oltre il padre e la madre vi erano Antonio Francesco che già abbiamo nominato come canonico e storico; Luigi, canonico di S. Ambrogio; Filippo, podestà di Ravenna e morto in giovane età; Antonio, medico, botanico e chimico.  Paolo Frisi fu professore universitario di scienze filosofiche e matematiche a Pisa e a Milano. Compì molti viaggi all’estero dove conobbe e ammirò grandi personalità. Si approfondì nella matematica, nell’ottica e nell’idraulica, e introdusse in Italia l’uso dei parafulmini. Scrisse molte opere scientifiche, e morì nel 1784.  L’ultimo periodo del Settecento si chiudeva con un avvenimento di portata universale: la Rivoluzione Francese. Di fronte al dilagare delle idee rivoluzionarie i sovrani e le superstiti repubbliche aristocratiche assunsero un atteggiamento nettamente ostile e neutrale. Le potenze europee si collegarono per assalire la Francia che diffondeva il nuovo verbo della libertà, fraternità ed eguaglianza.  Nel settore ecclesiastico si snoda tutta una fiorente schiera già dalla fine del 1600. Carlo Caraccioli, priore generale dell’Ordine carmelitano; Giuseppe Antonio di Benedetto, priore generale dei Fatebenefratelli; Giovanni Antonio Spernazzati, procuratore dell’Ordine carmelitano; Basilio Ricardi, priore della Certosa di Pavia e visitatore generale; Alfonso Maria Restelli, preposto provinciale dei Chierici Regolari Barnabiti; due fratelli Negri, uno provinciale dei Barnabiti a Milano, l’altro segretario del priore generale in Roma; Giovanni Antonio, omonimo del primo, priore generale dei Carmelitani; Carlo Cornegliano, priore provinciale dei Carmelitani; Carlo Donelli, ministro provinciale dei Minori francescani; Ambrogio Mangiarotti, ministro provinciale dei Minori francescani; Isaia Menagliotti, provinciale dei Frati Minori cappuccini; Paola Costanza Merini, badessa del monastero di Meda. Giovanni Battista Volpi, oblato missionario nel collegio di Rho, direttore degli esercizi spirituali, di larga fama.  Figura a sé stante è Rosa Gramatica, forse di Pedriano, sposatasi con Giovanni Battista Sardi con il quale visse nella allora Via Lunga (oggi Clateo Castellini). La convivenza con il Sardi, un facchino sulla piazza del mercato, fu difficile e talvolta eroica. E quando il marito si ammalò gravemente, Rosa Gramatica lo circondò di cure più affettuose tanto da prepararlo alla morte come un santo. Il resto della sua vita, come vedova, fu occupato in opere di carità e soprattutto come catechista vice priora della Scuola della dottrina cristiana. Morì il 13 aprile 1739 in fama di santità. Fu sepolta dapprima nel convento di Santa Maria delle Grazie, poi nella cappella del Rosario in San Giovanni dove è tuttora.  La leggenda si impadronì di lei: nelle sue sofferenze morali e coniugali era confortata dalla visione degli angeli. E questa leggenda è arrivata fino a noi dal nome del cortile dove ella abitò il quale si chiama ancora curt di àngiul, cortile degli angeli.  Anche nel settore militare si presentano Giuseppe Pandino, capitano del reggimento della marina al servizio di Carlo Emanuele di Savoia; ed ecco con il grado di tenente dell’esercito nei vari reggimenti: Bernardo Beccaria, Francesco Castelfranchi, Giovanni Battista Moroni, Giuseppe Ferrario, Carlo Gerolamo Rossi, il nobile Filippo Montorfano, Giuseppe Campi e Giovanni Battista Beccaria furono alfieri.  Nel settore della beneficenza fiorirono Alessandro Visconti il quale, con testamento del 9 aprile 1706, legò la rendita dei suoi beni immobili, di Via Cavour attuale, per il funzionamento di una scuola a dodici fanciulli; Giovanni Battista Securi, morto il 19 marzo 1742, e che coi frutti della propria sostanza patrimoniale provvide che si distribuisse ogni anno ai poveri di Melegnano una buona quantità di riso.  Ugualmente fece Baldassarre Cremonesi il quale lasciò per testamento dell’anno 1744 lire duemila con l’interesse dei quali si distribuiva il riso ai poveri della parrocchia, la vigilia di Natale.  Un altro Alessandro Visconti depositò una somma al Banco di Sant’Ambrogio di lire 5275 perché con gli interessi venisse procurata una dote matrimoniale alla fanciulla più povera di Melegnano ogni anno.  Nel 1764 fu fondata la Causa Pia Ciceri, dal nome del fondatore, prevosto Francesco Ciceri. Dispose una somma base di lire 14.144 da amministrarsi da parte di alcuni melegnanesi per assicurare ai poveri di Melegnano i generi di prima necessità.
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