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Un figlio del Manzoni a Melegnano
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  GLI OSTAGGI
Poco oltre la mezzanotte, un gruppo di uomini disfatti dall’angoscia e dagli oltraggi veniva fatto uscire dal castello di Milano, sotto scorta di un battaglione di fanti, ed avviato per i viali di circonvallazione verso Porta Romana. Erano gli ostaggi che l’esercito austriaco si trascinava con sé nella sua ritirata.  All’interno dei bastioni la città sembrava sparita nella nebbia, se tutta quella oscurità non fosse stata solcata dal chiarore degli incendi e del loro fumo rossastro che si alzava nel cielo; il silenzio assoluto con cui si muoveva quella lunga colonna di uomini era turbata solo dal rumore dei carriaggi, dal sibilo di qualche fucilata e dal rintocco delle campane che ancora si levavano a suonare a stormo sulla conclusione dell’ultima delle Cinque Giornate.  All’imbocco dello stradale, fuori dalla porta, il pensiero di quegli sventurati che iniziavano la loro lunga marcia verso l’esilio e la deportazione, non poteva che essere rivolto alle loro famiglie, ed alla loro città, di cui si intravedevano le mura avvolte dall’oscurità; si racconta nelle memorie degli ostaggi raccolte da Carlo Mascheroni che ad un tratto si udì un singulto: era Filippo Manzoni, figlio del Grande, « che, saldo fino allora e dopo allora, pigliando anzi, come proprio dell’indole milanese, gli avvenimenti più seri dal loro lato comico, non sapeva però padroneggiare lo schianto dell’animo suo all’idea di abbandonare il luogo natio»  «Che cosa fai, Filippo? Animo! Su! Coraggio! » gli disse, toccandolo nel gomito, Guglielmo Fortis, che gli camminava al lato. Bastò per richiamarlo in sé. La dignità del prigioniero la vinse sulla tenerezza del cittadino. Si fregò gli occhi, scosse il capo e l’abituale sorriso riapparve sul labbro.  Il nobile Filippo Manzoni aveva allora ventidue anni ed era stato arrestato, insieme ad altri due compagni di sventura nel palazzo del Broletto; allorché il commissario di polizia fece l’appello, rimase un po’ sorpreso: « Manzoni? » « Sì, figlio di Alessandro».  Ma quella sorpresa si tramutò subito nello sgherro in una compiacente ironia, quasi volesse dire: « Chissà come ne sarà accorato il genitore! », che valeva per lui « due angoscie da assaporare per una sola vittima».  Durante l’interrogatorio Filippo si qualificò come giureconsulto, ma le cose non stavano propriamente così; datosi infatti agli studi di legge, mai arrivò ad una conclusione. Era il minore dei figlioli di Enrichetta che morì quando egli aveva sette anni; quindi cresciuto un poco viziato poiché alle poche carezze della puerizia, era succeduta una adolescenza priva di affetto materno e di quella intimità familiare che certo non poteva dargli il collegio.  Nelle corrispondenze era descritto come un giovane buono ma di scarso impegno e carattere; riusciva anche simpatico come ce ne fa fede il Giusti allorchè nel ‘45 lo ebbe compagno durante una sua visita a Milano: («M’era compagno il figlio giovanetto - d’un di quei capi un po’ pericolosi... »); ma già sui vent‘anni doveva aver dato, per la sua condotta, delle serie preoccupazioni al vecchio genitore; la sua vita tutta sbagliata fu in seguito cagione di infiniti dolori e tristezze per il Manzoni fino a quando gli premorì poco più che quarantenne nel 1868.  Era comunque molto animoso. Nelle prime ore della rivolta corse a combattere sui tetti di vicolo San Dalmazio a fianco di Luciano Manara; rientrato in casa a prendere un po’ di cibo ed a salutare i familiari, il padre lo abbracciò con intensa commozione e con toccanti parole che lo stesso riferì all’autore delle nostre memorie: «E’ un grande bivio questo per un padre; ma sia fatta la volontà di Dio! Va, figliolo mio, sta sempre al posto ove ti mettono, cerca d’essere sempre dei primi, e se avrò la disgrazia di perderti, mi sarà pur di conforto il pensiero che uno dei miei figli è morto facendo il suo dovere per la patria. Iddio ti benedica! ».
ORRENDE PRIGIONI
Andato con altri al Municipio per iscriversi alla Guardia Civica, il palazzo si trovò inopinatamente circondato da uno squadrone di Ussari e tutti, dopo di aver consegnate le armi, furono fatti prigionieri e tradotti in castello; non senza oltraggi durante il tragitto, e minacce e percosse, chè il maggior conforto che veniva loro dalla soldataglia era che presto sarebbero stati fucilati. A Manzoni poco mancò che un ufficialetto mingherlino, carico di bile e di livore, non gli passasse la sua spada attraverso il ventre.  La detenzione nelle sordide segrete della fortezza durò per tutte le rimanenti giornate dell’insurrezione, senza cibo, senza coperte od indumenti più atti a ripararsi dal freddo, addossati alle pareti o rannicchiati sulla crosta del viscido pavimento; il figlio dello scrittore aveva comperato da pochi giorni un magnifico cilindro inglese e se lo mise sotto il capo come origliere. Attraverso le basse inferriate della prigione vedevano nel cortile reparti disordinati di truppa, feriti che giungevano dal di fuori e fra di essi anche qualche cadavere; la confusione insomma che preludeva la resa della città agli insorti, mentre il cannone tuonava sempre ed al crepitare della fucileria si associava lo scampanio da tutta Milano, tanto insistente, giorno e notte, tanto minaccioso e terribile, è scritto nella memoria che abbiamo sottomano, « da suonare alle orecchie degli Austriaci come le trombe del giudizio finale ».  Da Porta Romana a Melegnano la colonna vi impiegò oltre dieci ore, chè gli ostacoli alla ritirata sorgevano ovunque e difficili e la massa disordinata dei fuggiaschi faceva inciampo e sé stessi; il Redefossi e la roggia Spazzòla, ai due lati dello stradale, erano ingombri di ogni sorta di roba e di arnesi ivi gettati o caduti. Le truppe erano demoralizzate e sconvolte, ma non mancavano di perlustrare ogni casa, ogni cascinale che rasentava o si intravedeva dal loro cammino per compiervi le depredazioni e gli eccessi più tristi.  Alla Rampina c’era una bottega piena d’ogni ben di Dio, poiché il buon uomo che la conduceva non aveva previsto il passaggio dei Croati; in un batter d’occhio caci e salsicce andarono come volatilizzate; un ufficiale ne fece distribuire, insieme con un po’ di pane ed un po’ di vino anche al gruppo degli ostaggi, stanchi e distrutti dalla fame e dall’angoscia.  Alle porte del borgo si intimò l’alt: qui ha inizio il famoso episodio, tanto sconsiderato quanto tragico della resistenza dei Melegnanesi al passaggio della ritirata austriaca; l’arresto dei due parlamentari, l’intimazione a deporre le armi, la dura reazione austriaca; Radetzky, che era alla cascina Rampina, mandò da un capitano il seguente ordine: « che si lasciassero liberi immantinente i due prigionieri e si aprisse il passo, diversamente Melegnano avrebbe cessato di esistere. Prima ancora che l’ultimatum del maresciallo venisse comunicato agli insorti i colpi delle palle e delle granate incominciavano a sfondare i tetti e le porte delle case, ed i cacciatori, avidi di rapina e di vendetta si avventavano sul borgo, ammazzando, distruggendo ed incendiando.
LA TRAGICA GIORNATA
Il gruppo degli ostaggi rimase fermo là sulla strada in riva al fiume; erano stanchi ed estenuati; venne un capitano dei cacciatori a cavallo, seguito da un soldato che portava un grosso cacio lodigiano infilzato su di una baionetta e ne fece distribuire a tutti, che ne mangiarono con voracità, meno Filippo Manzoni, il quale aveva una ripugnanza naturale ai latticini; un poliziotto gli offerse allora una galetta, traendola da un lurido fazzoletto da naso. Il figlio del poeta « la mangiò di buon stomaco, come l’avesse presa dalla pala del forno».  Ad onta del cannoneggiamento la stanchezza vinse tutti e si addormentarono col capo appoggiato alle cavallette di ghiaia che erano ai bordi della strada; il risveglio fu brusco: calcio di fucile nelle costole, tra gli altri a don Filippo, il quale si mise a gridare in buon meneghino: « Maledetto antecrist! te ghe minga on’altra manera de dessedà la gent?».  « Melegnano si è arreso! >; questa era la notizia che circolava tra le guardie con aria trionfante; gli ostaggi vennero fatti entrare nel borgo, attraverso delle tavole posticce sopra a fosso che minacciavano di farli tutti precipitare nell’acqua; ai loro occhi si presentò lo spettacolo tragico delle case sventrate, le porte e le finestre divelte, cadaveri sparsi qua e là, sangue dappertutto.  <Dopo alcune svolte nel borgo, fummo introdotti in una casa, che serviva da corpo di guardia alla gendarmeria del presidio, ma che in quel momento era sfornita di gendarmi o di un presidio qualsiasi, e ci alloggiarono in una camera al piano superiore che guardava sui campi>. Così prosegue il nostro memoriale; quindi furono legati con manette a due a due, cosa che riusciva di grande pena perché impediva il benché minimo riposo. il timore che qualcuno di quegli ostaggi avesse a fuggire si accrebbe allorché si udì nella strada un grande tumulto, un falso allarme fra i soldati in ritirata che temevano l’inseguimento da parte dei milanesi insorti: si dice che alcuni ufficiali pagatori che si erano messi nell’osteria di San Giorgio, « fuggirono a rompicollo lasciando aperto sulla tavola un sacco di napoleoni d’oro ».  Quel corpo di guardia non venne più, dai carcerieri, considerato un posto sicuro, anche perché minacciava di essere attaccato dagli incendi non ancora spenti delle case vicine, epperciò gli ostaggi vennero strasferiti nella casa del mastro di posta, il signor Tensali, situata all’altra estremità del borgo; fu là che durante la notte venne ferito a morte l’infelice Carlo Porro, uno dei diciannove, per una circostanza oscura, forse un tragico errore. Resta legata alla storia di questa triste giornata di Melegnano la memoria del generoso patriota, dell’insigne studioso, lustro di quella aristocrazia milanese che nei più memorabili eventi cittadini e nazionali pose le proprie prerogative ed i propri privilegi al servizio della causa comune. Frattanto Radetzky era andato ad alloggiare nella casa Galli che è detto fosse la più agiata; il padrone non c’era ed il feld maresciallo si impuntò di vederlo, sicché andarono a scovarlo a Dresano dove si era rintanato con la moglie. Poi si addormentò su di una poltrona e nemmeno lo svegliarono allorché uno stuolo di giovani insorti, risalendo dal basso Lambro lungo la riva destra, assalì con fuoco di fucileria un battaglione di Tirolesi accampati alla Legorina, che si ritirarono a precipizio sulla strada postale nei pressi dell’osteria della Bernarda.
VERSO L’ESILIO
Secondo i cronisti dell’epoca, dopo la confusione iniziale della raccolta delle forze e l’uscita dalla città, l’esercito in ritirata si era ricomposto ed accampato con molta cura. Oltre Melegnano la colonna aveva la destra appoggiata al Lambro; la fronte andava dal ponte-canale dell’acquedotto Marocco, a Sordio e, per Casalmaiocco e Cologno, si collegava con la colonna di Paullo.  La mattina del 24 l’armata si rimise in movimento verso Lodi; per gli ostaggi furono messe a disposizione due vetture, che naturalmente non bastavano per tutti e convennero di alternarsi a vicenda su di esse, ma gli scossoni e la impossibilità di prendere una posizione comoda, perché ammanettati a due a due, erano tali che preferivano proseguire a piedi. Fra questi ed altri disagi e dolori proseguì il loro calvario a tappe verso l’Austria; a Rovereto Filippo Manzoni ebbe la gioia di ricevere una lettera del Padre, le cui effusioni di tenerezza ben si possono immaginare, e nella quale gli accennava fra l’altro che « si è parlato e si parla di un cambio. Dio voglia che possa essere».  La cosa difatti ebbe un seguito; in data 15 aprile il Governo Provvisorio della Repubblica Veneta, per mano di Niccolò Tommaseo così scriveva al Manzoni: « Caro Don Alessandro. Abbiamo proposto di cambiare un Vice Ammiraglio ed altri prigionieri coi presi dal Radetzky e bramiamo che il cambio sia accetto. Questo a consolazione di Lei, e in pegno della nostra affettuosa venerazione ».  La méta ultima dei deportati era stata la fortezza di Kufstein nel Tirolo, da cui per l’effetto del cambio di cui abbiamo detto, vennero liberati a condizione di risiedere stabilmente in Vienna, Linz, Salisburgo a disposizione dell’autorità; nel mese di giugno vennero restituiti alla loro città ed alle loro famiglie. Purtroppo il soggiorno di Vienna fu fatale al povero Filippo Manzoni; una serie di leggerezze e di sbandamenti colà ebbero principio e seguitarono in patria con una vita la quale, dopo gli inutili tentativi che fece il Padre per redimerlo, lo ridusse quasi al bando dalla famiglia. Fu veramente Filippo uno dei più grandi dolori che travagliarono ed amareggiarono la vita del Manzoni, ma la sua odissea fra gli ostaggi del 1848 costituisce una bella pagina di ardente patriottismo.
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