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I Rioni storici
per la versione melegnanese
visti dallo storico e poeta dialettale Don Cesare Amelli
Il Carmine
I furbi spazza pollai
Tante volte,
fin da ragazzo,
quando gironzolavo
a piedi nudi
come uno zingarello,
sentivo dire
che c'erano i balòssi.
Ed ho saputo che là,
verso il Ponte di Milano,
i balossi
avevano il loro rione:
i balòssi del Carmine,
o anche i balòssi della cava.
E con poco garbo
hanno loro dato la nomea
di spazzapollai.
A voler essere un pignolo,
un filologo che va a cercare
il perchè e il percome
sul significato delle parole,
si dovrebbe scrivere che balòsso
vuol dire press'a poco
un furfante, un animale,
un imbroglione, una canaglia.
Ma i balossi di Melegnano
non sono proprio così:
c’è un qualcosa
che li fa diventare simpatici,
quasi da voler loro bene
per la furbizia
senza cattiveria;
per la maniera
di imbrogliare la gente
senza far loro del male.
Se tu li vedessi
i balossi
ti fanno una bella impressione,
e magari ti viene la voglia
di andare a guardare il taccuino
per vedere se c'è
San Balosso
come c'è San Giovanni
e sant'Ambrogio,
talmente questi balossi
sono garbati.
Sì, sì, va bene...
prendono l'ubbriachezza
ogni otto giorni;
picchiano la moglie
quando sono arrabbiati;
rubano la legna
ai fittavoli;
spazzano i pollai
di tanto in tanto.
Ma che cosa volete?
l'oste è contento
di vendere il vino;
la moglie impara a tacere
ed a starsene a casa sua;
il fittabile non va in malora
per qualche pianta in meno;
e per riempire i pollai
ci sono tanti pollivendoli,
ed anche loro
hanno diritto di vivere.
Saranno quelli che saranno,
ma i balossi ci vogliono
anche loro:
bisogna portare
in processione?
arrivano a sette a sette!
C'è da fare una colletta
per qualcuno
la Madonna
che sta male?
I balossi sono i primi!
Muore un uomo o una donna
al Ponte di Milano?
Dietro ai funerali
i balossi vanno tutti.
Pensa:
quando uno è un po' sveglio,
o è capace di stare al mondo,
lo chiamano balossetto.
E quando sono insieme
tre o quattro
per combinarne una grossa,
li chiamano i balossoni.
Ma è una verità
assai lampante:
Melegnano senza balossi
non sarebbe più
Melegnano!
Melegnano quello bello,
quello delle teste dure,
che ha i suoi fiori
a tutte le stagioni
presenta
come campioni
tra i generi sorprendenti
più bravi
dal Ponte di Milano
alla Maiocca,
dal Carmine
a Basso le Monache,
gli Spazzapollai
balogi del cavo.

Sgusciavano quatti quatti
di notte
a rubare le galline,
belle pollastre tenere
allevate con il pastone
pieno di sostanza
fin dalla primavera,
in un angolo del giardino
o nel ripostiglio
o nella stia.

Ma balzavano snelli
tutte le mattine
del santo anno,
a spazzare i fossi
per guadagnarsi
pane e stracchino
nel giorno del lavoro.
Per il vino
nessun pensiero:
un gocciolino leggero
nell'Orlando,
un calice
dal Luigino,
un bicchierone
dalla Cecchina,
tracannavano da Tonèia,
si spingevano dentro
al Sacchetti,
sbevazzavano al Genio,
inciampavano all'Isola,
all'Osteria del Tram
ripetevano la bevuta;
al Boneschi, alla Fiocca,
al Belvedere
svuotavano le bottigliette;
e quatti quatti,
chieti chieti
sedevano
al Giardinetto,
tra una carezza al gatto
e un'occhiata all'ostina,
gustavano il bel chiaretto
in santa pace con gli amici,

Oh gente melegnanese
genuina!
Oh balogi, oh balogi!
spazzapollai senza paura!
poveri come cani,
sinceri come il sole,
il cuore in mano,
campioni di umanità!
Io cerco ancora
i segni antichi
nel Cortile del Falcone
vecchio come Noè,
pieno di secchi da bucato
e di forcelle;
i sassi del cortile
del Piciài;
il rubinettone,
l'ombra amica
nel Vanetti;
l'acqua fresca
in quella del Mascheroni;
la seggiola della nonna
nel Magnano,
nel Cicini,
in quella del Grappaio.

Spalancavo gli occhi
da bambino
alla quarta domenica
di luglio,
quando il sudore
si impiastrava
anche sulla schiena
più ruvida:
c'era la festa
patronale;
c'era la Madonna,
c'era il pagliaccio
c'era l'anatroccolo,
c'era la processione.

E' arrivata la selva
dei palazzi:
gli spazzapollai
balogi del cavo
cafoni e generosi
hanno perso la vocazione:
non fanno più il ladro,
non rubano più nei pollai.
Il bel quadro
delle virtù,
delle inventive ridicole,
delle trovate popolari,
è là,
mezzo rotto,
attaccato
tra la polvere
in un angolo del solaio.

San Pietro
I rosica bucce 
Non facciamo tante storie!
Anche il mese di agosto
quando la sera
arriva presto
grigia e umida,
e le zanzare
morsicano come le vespe rabbiose,
San Rocco,
con la sua gamba storpiata
puntiglioso come un lacchè,
viene a rallegrare
Melegnano
dal Portone alla Stazione,
dal Molino Rotto
al Giardino.

Agosto,
il mese delle angurie!
Ti giuro
che ho sempre visto
carrettate piene:
tanti palloni pelati
come la testa rapata dei soldati.
Intere.
Tagliate in due.
Sane, rosse, gustose,
insieme con le marce...

La processione,
assai raccolta,
girava in mezzo ai fiori
attaccati sugli usci,
alle lenzuola stese
lungo i muri,
ai lumini sulla porta:
una pietà da santoni,
una devozione
di suore e di frati.
Ma in casa, vecchi e giovani,
per tutto il mese
mangiavano le angurie,
rosicchiavano le bucce.

Per di più
ambulanti e fruttivendoli,
come benefattori
dell'umanità,
ti mettevano il banco di vendita
sotto il naso
in tutti gli angoli
di Melegnano.
Perfino dal tram,
questi bei rotondoni trionfali
te li gettavano sulle piazze:
e per tutto il mese
mangiavano come furie
rosicchiavano a tutt'andare;
ne restava poco
da piluccare,
sufficienti da dare alle oche
del vicino di casa.

I Rosicabucce!
un rione melegnanese
in santa pace,
sensa insulsa sicumera,
vecchio di tanti secoli,
giallo di terra argilla;
un borgo di fornaci.
Dal Portone alla Stazione
alle Case Nuove,
una strada antiquata
arrostita dal sole.
La malaria al Guazzetto.
Il terreno agrario
alla Meraviglia.
E un fiorire
di orti e di giardinetti:
la siepe verde
strapazzata di sambuchi
e piena di libellule,
ed il cancelletto marcio.
Un rettangolino di fatica
per tutti i giorni.
Ma quasi in riga
le festosità del vino:
I Tre Martiri,
con la botte piena
senza donna di casa;
il Telegrafo,
giubileo
di romantici e di golosi;
la Colombina
per i bevitori di quartini;
il Geloso,
per gli stomachi secchi
morti di sete;
il Vapore,
un paradiso dei salamellai;
il Bigiò, la Croce Bianca,
la Primavera,
l'oasi dei barberai.

Sembravo uno
che andava in America
quando passavo il ponte,
traversavo le piazze
di San Giovanni e dei Maiali
e arrivavo fino ai Cancelli.
Melegnano
mi pareva largo,
Melegnano
mi pareva lungo:
la via Zuavi
piena di botteghette,
di cortiletti
intanate di mistero,
dentro e fuori
tra il sole e l'ombra,
un planisfero di casa,
di vita di tutti i colori,
non finiva mai
di incantare.
E guardavo. E guardavo
oltre la ferrovia
lontano, lontano,
le piante, il sentiero,
i fossi per Carpiano;
ma ritornavo indietro
di corsa
in mezzo ai Rosicabucce,
più sicuro
sotto il cielo di Melegnano.
 

Il Borgo
I gozzi
Quattro case di due piani
dopo il Ponte sul Lambro
raggrumate di umidità,
qualche portichetto
pieno di carabottole,
negozietti ben puliti
di artigiani,
cortili e cortilini
quadrati, rotondi,
bislunghi, sagomati
madonnine
infiorate sul muro,
il campanile
che suonava sovente:
siamo arrivati
ai rione dei Gozzi
di cento anni fa.
Borgo dei Topi,
Dietro ai Servi,
Casarino,
Stradella,
erano una discreta coda
alla via principale.

Però abbiamo lasciato indietro
il di più,
la vera bellezza rara,
la filigrana genuina,
la corona preziosa
che hanno messo addosso:
li hanno chiamati i Gozzi!
Buonagente.
Lavoratori come i tangheri.
Quieti come agnelli,
tra la trippa e la pipa:
ma il merito
più grosso
era quello di essere
i Gozzi.
Sarà stata l'acqua dei pozzi,
sarà stata l'aria di Lodi,
fatto sta
che avevano il collo
rustico
e ben grosso.

Ma prima di partire
e di andare a casa,
vi dico io
la verità
chiara chiarissima.

Vicino ed intorno
alla chiesa dei Servi
sono sempre venuti
i fittabili
sui birocci imbellettati,
sui landò lucidi,
sui calessi imperiali,
sui carretti
di tutti i tipi,
per il mercato.
Lasciavano i cavalli
e le loro cose
nelle osterie,
negli alberghi,
negli stallazzi,
nelle trattorie:
l'albergo della Corona
con otto stanze
e l'acqua calda
e un po' di cimici;
l'albergo del Gallo
dove il cameriere
parlava il francese;
l'albergo di San Giorgio,
profumato di salame,
nei tempi passati pieno
di generali piemontesi
sciocchi
e di caporali italiani;
la trattoria della Speranza
con un bicchiere di vino
nostrano;
la buona tavola del Milani
(e da lì
non venivi fuori più);
l'osteria dei Servi
una volta nascosta
là in fondo
quasi sul Lambro;
la Crocetta
per sedersi
quando le gambe
erano quelle del gambero;
la Rosa,
in mezzo ad una massa
di gente
di ogni categoria sociale;
il Pozzo,
con quei bicchieroni
da far diventare rosso
il nasone
in mezzo alla faccia di scimmia;
il Cantinone,
per andare a caccia
di un piattino furbo;
il Demetrio
su quattro metri quadrati
di vera amicizia.
Oh rione dei Gozzi!
bèi tempi passati
dalla Pallavicina
dal Borgo Ratti
al Sangregorio:
la parola era vangelo
aperto sull'altare!
Un mare di lavoro
senza troppi disturbatori!
Oh benedetta regola
della società melegnanese:
con i soldi si comandava,
con la povertà
si stava ammansiti!
E tutto arrivava
sul mercato di Melegnano
commosso per le storie
dei fittavoli e dei contadini.
al Casarino,
Dopo la chiacchierata
della piazza
e gli affari
del fieno, dell'erba,
dei cavalli e dei buoi,
i ricchi della campagna,
secchi secchi,
divoravano la risottata
e un intingolone
nella mucchiata
di carne e di patate
cosparsa di barbera.
Per tutto lo Stato lombardo
c’era
un profumo di lesso,
un odorino di arrosto.
Siamo a posto!
La trappola e' scattata;
tutti quelli del borgo
hanno fatto la stessa cosa:
sono diventati gozzi
anche quelli
che prima
rosicchiavano le ossa!

 

La Piazza
I lecca piatti
La piazza centrale
- quella del Comune,
quella della chiesa
di San Giovanni -
con i suoi muri
robusti come una rovere,
i suoi palazzi
impastati
di secoli e di denari,
stretta
ma larga assai per tutti,
era il rione dei ricchi:
i Leccapiatti.

Diversi dagli insignificanti
del borgo;
attaccati tra loro
più dei Balogioni;
lontani dalla minutaglia
dei Rosicabucce.
Famiglie con la borsa
piena o quasi.
Qualcuno: un superbietto
senza troppi scrupoli,
la faccia da paggetto
ma forse, sotto sotto,
la coscienza da barabba.
I Leccapiatti:
la baroneria
di Melegnano.
Botteghe, impegni,
uffici, affari:
il segno d'una Melegnano
borghese.
Arrivava in chiesa
la festa del Rosario.
L'ultima festa rionale,
come una porta
che ti chiude
in casa.
Le tre feste
di luglio, agosto e settembre
hanno fatto fuori
tutta la cucina,
hanno svuotato la cantina:
mangio io
che mangi tu
non c era più nulla
da mettere sotto i denti
I ricchi della piazza,
questi poveri cristi,
erano lì, poveri tapini,
avviliti avviliti,
con i piatti vuoti:
quelli del Carmine, del Borgo,
di San Rocco,
avevano divorato
come cavallette
padelle e fiaschetti.
Roba da matti! Per ultimi
c'era da fare
il leccapiatti!
quattro briciole di pane,
tre ossicini in croce,
mezza noce,
l'ultimo goccio di vino.

Un brutto destino
quello del leccapiatti.
Senza antipasto
di salame casalingo,
senza ravioli fatti in casa,
senza manzo a lesso
e gallina arrosto,
senza contorno
di mostarda
e di buona insalata,
senza formaggio del casaro,
senza frutta del Malvano,
senza torta del Cambieri,
senza caffè
e grappa con la ruta,
senza tre o quattro
qualità di vino
schiacciato con i piedi,
era proprio un castigo,
una cosa disonesta
e antipatica
per la festa della piazza,
per una razza melegnanese
così aristocratica.
 

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