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Il Comune
Dall'interno del mondo feudale sorse una diversa realtà sociale, economica e politica: il Comune, da commune = la comunità e il patrimonio comune. Fu un nuovo movimento di vita; un centro più dinamico e maggiormente attivo, anche se ancora il popolo povero ed analfabeta ne era praticamente escluso. Lo stesso vocabolo comune, usato storicamente, indicava un patto comune accettato e condiviso da tutti per salvare i beni; per l'utilità; per la sicurezza; per gli interessi. Fu una necessità, un unico sentimento, uno stato d'animo che legava le persone più potenti, talvolta attorno al vescovo, con la partecipazione dei mercanti più forti, dei giudici e dei professionisti più quotati. Si venne formando una comunità politica, prima nelle città, poi in campagna, come associazione corporativa di determinati ceti sociali (professionisti, mercanti, artigiani) con proprie leggi, regole e costituzioni. Poi, gradualmente, furono inclusi nella organizzazione altri ceti che formavano il popolo minuto che esercitava un lavoro. E tutto questo movimento sociale avvenne entro il territorio dove quotidianamente si viveva, si nasceva e si moriva; e si agì con una certa autonomia, cioè con una indipendenza dal re, dai principi, dai grandi funzionari o feudatari e addirittura dall'imperatore, il quale riteneva indiscussa la sua autorità ed il suo potere, derivati da diritti secolari sulla Germania e sull'Italia settentrionale. Il regno d'Italia faceva capo all'imperatore, a lui si dovevano dare le regalie o diritti del re: riconoscere la sua autorità; riconoscere o accettare le sue leggi; versare soldi per gabelle, tasse, tributi; accettare i suoi rappresentanti, considerandoli come l'imperatore stesso. Il Comune sorse come un fatto privato, per interessi privati, ma in breve tempo divenne l'autorità suprema, e si presentò come vero interprete dei voleri di tutto il popolo. I Comuni presero a usurpare le regalie, espandere la loro autorità nel contado, tenersi gli introiti delle gabelle, delle tasse e dei tributi. I Comuni presero ad esercitare ogni tipo di autorità e si ritennero i veri rappresentanti di tutta la cittadinanza di fronte all'imperatore ed ai grandi feudatari. Ma già le grandi famiglie e le potenti casate feudali da tempo avevano praticamente rinunciato al controllo dei centri urbani, delle città e dei più importanti dintorni, perchè erano stati travolti nella lotta aspra per le investiture, scoppiata tra il potere papale ed il potere politico laico dell'impero; una questione che poneva al centro l'elezione dei vescovi come feudatari dell'impero, conseguentemente creava conflitti tra il papato, da cui dipendevano i vescovi come gerarchia ecclesiastica, e l'impero che invece pretendeva di tenere sotto il suo stretto controllo i vescovi. I Comuni, intanto, avevano rafforzato i loro poteri, sganciandosi progressivamente da ogni legame centrale e governandosi in modo del tutto autonomo. Essi non intendevano umiliare o misconoscere il potere e l'istituzione imperiale, ma neppure volevano sottomettersi per ogni caso ai messi imperiali. Il tentativo urgente ed inderogabile di farsi restituire le regalie con la diplomazia o con le armi era nell'intenzione degli imperatori che avevano la sede in Germania, ma si ritenevano padroni anche dell'Italia settentrionale, in modo particolare della Lombardia e del Veneto. A questo si aggiunge la rivalità che esisteva tra Comune e Comune, in Italia la rivalità tra i Campanili era piuttosto diffusa, ma era in Lombardia che raggiungeva la massima espressione, fino a veri e propri odii. Per quello che ci riguarda, cioè per Melegnano, rimangono famose le continue lotte tra Milano e Lodi: Melegnano era al centro delle guerre fratricide, essendo a metà strada tra le due città ed essendo l'ultima terra di confine dello Stato milanese. Al di là del Lambro già Calvenzano e Fizzolo erano sotto la giurisdizione politica e religiosa di Lodi. Quindi il ponte del Lambro era l'ultimo confine milanese. Negli anni più esagitati della lotta tra Milano e Lodi (la Lodivecchio di oggi e poi la Lodi nuova fondata da Barbarossa nel 1158) vi era un continuo passaggio attraverso Melegnano di armati che andavano per scontrarsi, per attaccare, per vendicarsi: diverse volte i Milanesi arrivarono sotto le mura di Lodi (l'attuale Lodivecchio) e parecchie volte i Lodigiani saccheggiavano per rappresaglia le terre dei Milanesi nella nostra zona. Il contrasto tra Milano e Pavia Sedi di tradizioni politiche non solo diverse, ma addirittura contrastanti, Milano centro della potenza vescovile e Pavia del potere Reale e della feudalità rappresentano l'eterna contrapposizione fra il gau e la civitas, che possono intendersi come lo straniero contro l'italico, il barbaro contro il romano, chi detiene il potere contro chi lo subisce. Già dall'epoca di Arduino, quando questi aveva cercato di sottrarre il regno dei Longobardi alla sudditanza alla corona germanica. Quando Corrado II° volle sottomettere Pavia, trovò come naturale alleato l'arcivescovo di Milano Ariberto, che gli mise a disposizione le proprie milizie. Quando a Milano ferveva la lotta per ripulire la chiesa dai preti simoniaci e concubinarii, Pavia ne approfittò per entrare in guerra contro Milano, guerra che si concluse nel 1061 con la sanguinosissima battaglia di "Campo morto", dove i milanesi debellarono i pavesi, ma l'odio tra le due città rimase tanto che nei successivi cinquant'anni sfociò in altre tre guerre. Non bastando i motivi di contrapposizione tra le due ci si misero anche piccoli comuni che, sfruttando la rivalità tra Pavia e Milano, diedero loro altri motivi o pretesti per scaramucce e guerre. Nel 1107, ad esempio, Tortona, assalita dai Pavesi, si rivolge a Milano chiedendone la protezione, mentre Pavia si allea con Lodi e Cremona, Lodi viene messa a ferro e fuoco nel 1111, tanto da far dire ai superstiti, discendenti dei legionari di Pompeo, che i Milanesi si erano comportati con loro come gli Unni di Attila.. Nel 1110 Brescia, in lotta contro Cremona che si era alleata ai Pavesi, chiede e ottiene l'intervento di Milano. Nel 1129 Crema, per sfuggire al controllo di Cremona, cui era stata ceduta dalla contessa Matilde, si dichiarò vassalla di Milano, con la conseguente entrata in campo di Pavia e Novara a fianco dei Cremonesi. Nel 1130 con la battaglia di Macognago i Pavesi ed i loro alleati vengono sconfitti e tutto ciò che restava del loro esercito venne condotto prigioniero a Milano. La città ambrosiana poteva disporre di una posizione geografica unica, di una popolazione attiva e determinata in battaglia come nel lavoro. Milano era già ricca allora di floride industrie e, sede dell'arcivescovado più importante dell'Italia settentrionale, coagulava attorno a sè una rete di comuni minori e di vassalli che ne aumentavano la capacità sia offensiva che difensiva. La contrapposizione tra Pavia e Milano portò quest'ultima ad una posizione di netto predominio in Lombardia, mentre Pavia rimase sempre ostile. I motivi della rivalità tra Milano e Lodi I motivi della rivalità erano alquanto complessi; ma due soprattutto sembrano emergenti. Il primo motivo era la pretesa dell'arcivescovo di Milano di controllare il vescovato di Lodi, con l'imposizione dell'investitura milanese su quella lodigiana anche per i beni temporali, specialmente ai tempi di Ariberto d'Intimiano, arcivescovo milanese dal 1018 al 1045. Il rifiuto di Lodi di accettare il vescovo impostole da Milano sembra una motivazione più cercata che reale, appare molto più probabile che Ariberto volesse punire i Lodigiani per la loro alleanza con Pavia in occasione della guerra del 1107 contro Tortona, alleata dei milanesi. Dicono i cronisti dell'epoca che questi, insuperbitosi, incominciasse a tiranneggiare i suoi vassalli, a vantaggio del popolo, schierandosi così per la civitas contro il gau. Ne nacquero malcontenti che nel 1035 sfociarono in una vera e propria rivolta durante la quale, inzialmente, i valvassori milanesi subiscono una sconfitta nell'area cittadiina, poi uscitine si uniscono ai cavalieri della Martesana, del Seprio ed ai Lodigiani e a molti militi di altre terre, formano una Lega o Motta (accozzaglia, contro la quale l'arcivescovo, ricorrendo alla coscrizione obbligatoria undecumque potuit, muove con un poderoso esercito carico di entusiasmo, ma povero di esperienza. Una sconfitta per entrambe le parti fu la battaglia di Campomalo, dove rimase ucciso il vescovo di Asti Olderico, alleato di Ariberto. Venuto a conoscenza di questa contesa, discende in Italia l'imperatore Corrado II°, che a Pavia, raccogliendo le istanze di valvassori e vassalli sostenendo per sua natura il gau, arresta Ariberto e con lui i vescovi di Vercelli, Cremona e Piacenza. Tradotto a Piacenza Ariberto riesce a fuggire e a tornare a Milano dove resterà, protetto dal popolo, fino al 1041, quando, insorto nuovamente il popolo contro la prepotenza dei nobili, si arrivò a combattere nelle vie, nei tuguri e nei palazzi, mentre l'arcivescovo restava indifferente a guardare. Il popolo stava per essere sopraffatto dalla vendetta patrizia, in quacumque urbis regione, capitanei et valvassores populum superabant, inhumaniter ipsum trucidabant, quando Lanzone, capitano di antica nobiltà si schiera con la plebe con quasi tutti i suoi valvassori e porta la rivolta alla vittoria i valvassori sconfitti e scacciati dalla città, seguiti di lì a poco da Ariberto che sconta così la sua indifferenza alle sofferenze della plebe. Nasce così la prima organizzazione popolare che definisce una costituzione municipale, consistente in un'assemblea popolare, in un consiglio minore e in un'autorità esecutiva rappresentata all'inizio da un dictator lo stesso Lanzone e poi dai consoli, quindi dal podestà (dal latino potestas = potere, perchè rappresentava il potere dell'imperatore) e infine dal capitano del popolo. Altro motivo della rivalità tra Milano e Lodi era costituito dalla lotta per il possesso delle vie d'acqua, per la necessità di usarle come vie di comunicazione, perchè i corsi navigabili erano essenziali alla vita economica comunale, e la via d'acqua naturale che collegava Milano con paesi lontani era il fiume Lambro che, per lungo tratto, prima del Po, era controllato dai Lodigiani. Inoltre fin dal secolo X i vescovi di Lodi avevano diritti di pesca nelle acque del Lambro, ed il Comune di Lodi vi esercitava il diritto di pedaggio per le barche che ne risalivano la corrente. Le terre conquistate dall'arcivescovo Ariberto sui Lodigiani furono date in feudo ai valvassori milanesi, i quali da quel tempo incominciarono a dominare nel Basso Lodigiano, sulle sponde del Lambro, del Po e dell'Adda, in modo che i Milanesi, dai colli di San Colombano e dalle torri dei castelli di Valera, Cogozzo, San Colombano, Miradolo, Graffignana, Possadolto, Panizzago, Montemalo, Monte Ilderado, Maleo, Cavacurta, Vittadone e Bertonico dominavano le vicine città ed i loro territori, controllando ed osservando non solo Lodi, Pavia e Piacenza, ma anche la non lontana Cremona con le loro flottiglie commerciali; le flottiglie rimontavano il Po ed assicuravano un vasto scambio ed un vivace commercio. In questo contesto storico si inserisce la lotta tra l'imperatore ed i Comuni, ormai diventata inevitabile. Il primo che prese l'iniziativa programmata contro i Comuni fu Federico I Hohenstaufen detto Barbarossa. Federico I° Hohenstaufen detto il Barbarossa a Melegnano Barbarossa venne in Italia, la prima volta, nell'autunno dell'anno 1154 per la via del Brennero, con 1500 cavalieri, ma egli sapeva di poter contare sugli amici della pianura padana, come Lodivecchio, Pavia e Cremona. Queste città avevano invocato la giustizia imperiale contro l'espansione di Milano che era presentata come la disturbatrice della giustizia e delle leggi di pace, poste dall'imperatore a fondamento della sua attività di governo. Nel 1155 presso Verona l'imperatore impose ai Mantovani, ai Bresciani ed ai Bergamaschi di non accettare più nessuna moneta milanese. Con un' editto il Rè aveva posto i Milanesi al bando dell'impero, dichiarando decaduto ogni loro diritto: " Judicatum est igitur a Principibus nostris, et tota Curia, Mediolanensis moneta, theloneo et omni districto, at potestate seculari, et omnibus regalibus nostra autoritate esse privandos; ita ut moneta, theloneum et omnia praedicta ad nostram potestatem redeant, et nostro statuantur arbitrio.", che tradotto recita:"Le Nostre Maestà con tutta la Corte hanno giudicato che venga (Milano) privata del diritto di battere moneta, di mantenere gabelle, che venga tolto ad ogni suo distretto ogni potere esecutivo ed ogni privilegio concessole; si stabilisce per nostro volere che la possibilità di battere moneta, di istiture gabelle e tutto quanto sopra esposto siano avocate a Noi e al nostro giudizio". Con lo stesso atto assegnava a Cremona, in quanto la più fedele delle città italiane, i poteri tolti a Milano Il 3 marzo 1156 a Lodivecchio, presso la basilica di San Bassiano, dovette decidere di una grossa questione: si trattava di una contesa fra il vescovo di Cremona, Oberto, ed alcuni chiamati signori di Melegnano, i quali non volevano rendere al vescovo di Cremona i servizi e gli omaggi feudali per il castello di Maleo, cioè si rifiutavano di riconoscere l'autorità del vescovo cremonese in Maleo, tenuto dai Milanesi. Oddone di Melegnano era alla testa della controversia e del rifiuto, spalleggiato dal padre Airaldo, da Guido ed Alberto suoi figli e Lanfranco suo fratello. Airaldo, il padre, aveva osato dire perfino che egli, se fosse stato aiutato, avrebbe potuto tenere con la forza tutto il territorio da Milano a Cremona. Alberto, invece, si era compromesso con le sue chiacchiere fatte in privato, perchè pare che avesse detto che Maleo era del vescovo di Cremona quando castrum salvaterre murabatur, cioè quando si costruiva la rocca di Maleo; mentre, in pubblico, rifiutava ogni forma di riconoscimento e di ubbidienza, ma essi sostenevano una tesi sbagliata: infatti avevano torto, perchè Maleo era passata ai vescovi di Cremona per concessione dei signori di Banano. Comunque questo rifiuto dei signori milanesi di riconoscere l'autorità del vescovo cremonese in Maleo ha relazione con la lotta impegnata fra Milano ed il Barbarossa, spalleggiato dai Cremonesi. Dopo aver ordinato le cose imperiali un pò a modo suo, Federico Barbarossa, avendo ricevuto atti di omaggio e di fedeltà da molti Comuni lombardi, se ne ritornò in Germania. La seconda discesa di Barbarossa Intanto la scena internazionale si arricchiva e si complicava di nuovi fatti economici, religiosi, politici e militari che mettevano in allarme Federico Barbarossa: dalla Germania egli teneva sempre gli occhi aperti sull'Italia. Venezia e Genova, città prevalentemente marinare avevano, in maniera autonoma, rinnovato e intensificato i loro rapporti con l'Oriente bizantino. Guglielmo I, re di Sicilia, passò nel continente per conquistare parte del Sud: soffocò una congiura dei baroni e divenne sovrano del ducato di Puglia e del principato di Capua, di Napoli, di Salerno, di Amalfi e di altri territori circostanti, incontrandosi con gli interessi ecclesiastici e religiosi sollevati dal papa e dai vescovi. Guglielmo costrinse il papa Adriano IV a sottoscrivere un concordato nella città di Benevento; questo concordato non lasciò indifferente Federico Barbarossa, perchè tutta la sua politica ecclesiastica, tutti i suoi orientamenti per la restaurazione dei diritti dell'amministrazione imperiale, non solo in Germania, ma anche in Italia, erano offesi da questo accordo: Guglielmo avrebbe dovuto ricevere il benestare di Barbarossa, mentre agì senza chiedere nulla a nessuno. Federico Barbarossa riteneva che dovesse esistere un'unità ed una collaborazione tra l'Impero e la Chiesa, tra regno e sacerdozio: questo rapporto era il pilastro portante di tutta la concezione ancora medioevale di Barbarossa. In Italia, intanto, Milano, malgrado gli ammonimenti imperiali, aveva continuato la guerra con Pavia, aveva combattuto Vigevano, aveva riportato la minaccia contro Lodi ed aveva favorito la ricostruzione di Tortona, la cui distruzione era stata proclamata dal Barbarossa perchè essa era stata fedele a Milano e si amministrava in maniera autonoma e libera e contro i decreti imperiali. Si venne creando una psicosi antimilanese in tutta la Germania, perfino nei canti dei contadini della Boemia. E vennero allestiti gli eserciti per la discesa in Lombardia, divisi in vari corpi di spedizione guidati dai Duchi d'Austria, di Carinzia, di Baviera, di Zaringa, dal Conte Palatino, dal Rè di Boemia, dagli arcivescovi di Magonza, Treviri, Colonia, dai vescovi di Costanza, Spira, Wormazia, Eichstadt, Praga, Verdun, Würsburg, tutta la Germania, unita, era al fianco dell'imperatore. Le truppe imperiali attaccarono Brescia ai primi di luglio del 1158 perchè la città era alleata di Milano e si rifiutava di aprire le porte al Rè, dopo aver assalito un reparto di Boemi. I Bresciani dovettero duramente sottomettersi, consegnare 60 ostaggi e pagare una grossa somma di denaro. In Brescia Federico convocò una Dieta per mettere di nuovo Milano al bando dell'impero. Fu intimato a Milano di presentarsi in giudizio per rendere ragione della continua lotta intercomunale; ma i Milanesi, rendendosi conto che Barbarossa aveva bisogno di soldi, offersero una somma di denari per evitare il processo. Barbarossa non voleva un contributo finanziario, ma restaurare la sua indiscutibile autorità. Milano fu messa al bando dell'impero; e Lodi, invece, fu favorita con ampi privilegi imperiali, le vennero assegnate delle terre lungo il corso dell'Adda affinchè potessero costruire una nuova città, Laus Nova che sarebbe diventata l'attuale Lodi. Al fianco di Federico Barbarossa erano subito accorsi gli antichi nemici di Milano: Pavia, Cremona, Como, Lodi, Bergamo, Mantova, Verona, Padova, Treviso, Aquileia, Parma, Piacenza, Modena, Reggio, Novara, Asti, Vercelli, Ivrea, Alba, Genova, Ferrara, Bologna, Cesena, Imola, Forlì, Rimini, Ancona, Fano e molte città toscane tutti in campo con le loro milizie contro Milano che poteva contare solo su Crema e Tortona. L'imperatore pose il suo accampamento a Melegnano presso la confluenza tra il Lambro e la Vettabia. Qui egli preparava l'attacco definitivo contro Milano per distruggerla. Ma qui egli compiva anche atti amministrativi e politici in favore delle città amiche e di cittadini da beneficare: il 17 maggio, per esempio, Federico concede a Tinto Musa da Gatta di Cremona la nomina di conte e di rappresentante imperiale, per la sua fedeltà e devozione, e il documento riporta queste parole iuxta Melegnanum super Vitablam territorii Mediolani , cioè: presso Melegnano, sulla Vettabia, nel territorio di Milano. Barbarossa predilesse il Sud Milano. E fu un avvenimento, questo, che dovette restare impresso in molti funzionari imperiali, perchè non solo le Cronache italiane, ma anche quelle tedesche riportano con ampiezza di particolari la permanenza di Barbarossa qui a Melegnano. Un suo cronista, infatti, scrive espressamente: Nell'anno 1158 Federico, lasciando Trezzo d'Adda, volle scegliere un luogo per costruire una nuova città per i cittadini di Lodivecchio, sul fiume Adda, in un colle, in zona elevata perchè vi erano alcune paludi. Questo colle, per un'antica consuetudine dei Longobardi, era chiamato Monte Guezione. Proprio su questo colle Federico piantò il vessillo regio per designare il luogo della futura città. Dopo questo, si portò con l'esercito a Melegnano dove aspettò un gesto di soddisfazione da parte dei Milanesi. Ma i Milanesi non vollero dare nessun gesto di soddisfazione per quello che avevano fatto . Le operazioni militari attorno a Milano durarono, con varia fortuna, per tutto il mese di agosto del 1158. Nel frattempo riarsero vecchie rivalità tra paesi e paesi, cittadine e cittadine, tra chiese e chiese, comunità e comunità. Le novità si scontravano con le antiche istituzioni e tradizioni dei padri. Il disorientamento era generale in Lombardia: nessuno non comprendeva più dove stava il torto e dove stava la ragione, dove erano i valori fondamentali e dove invece rigurgitavano i pretesti ed i motivi personali e privati. Ma si arrivò ad una mediazione per mezzo del conte di Biandrate, amico del Barbarossa e nello stesso tempo dei Milanesi, con l'appoggio di alcuni principi tedeschi: i Milanesi dovevano lasciare in pace Lodi e Como, finire le guerre di confine, restituire i diritti finanziari che esercitavano e che erano dell'imperatore, richiedere il consenso per l'elezione dei consoli, cioè degli amministratori del Comune. Fu accettato, ed i Milanesi ottennero la pace: i prigionieri furono liberati, mentre Milano dovette consegnare trecento ostaggi, pagare 9.000 marchi d'argento e fabbricare a proprie spese un palazzo per il Rè. L'imperatore ritenne necessario regolare con un documento ufficiale e solenne i rapporti tra l'impero e le città italiane: per questo venne da lui convocata un'assemblea a Roncaglia per l'11 novembre 1158. Erano presenti decine e decine di signori delle città italiane, i professori in legge di Bologna, feudatari e magistrati cittadini. Si stabilirono i diritti spettanti unicamente all'imperatore: elezione dei conti, duchi, marchesi; nomina dei consoli delle città; amministrazione della giustizia; coniazione della moneta; riscossioni delle tasse portuali, pedaggi, dogane; diritto di prelevare beni in natura per l'esercito imperiale di passaggio e di sosta; licenza di fabbricazione dei palazzi dei governatori. L'arcivescovo di Milano Oberto, in tale occasione, disse:"Tua voluntas Jus est", cioè la tua volontà è legge. Racconta il Morena questo aneddoto: Un giorno l'imperatore era uscito a cavallo in compagnia di due messeri, Bulgaro e Martino. L'Imperatore chiese loro se ritenevano che fosse padrone del mondo, Bulgaro rispose di no, Martino sostenne che Lui era padrone di tutto. Federico lo premiò allora facendogli dono del proprio cavallo, Bulgaro risentito disse: "Amisi equum, quod dixi aequum, quod aequum non erat"; giocando sulle parole aequum = giusto e equum = cavallo, con pronuncia uguale. Cremona, Pavia, Como e la nuova Lodi furono entusiaste dell'editto, mentre Milano, già umiliata, respinse nel gennaio 1159 i messi imperiali che si erano presentati per insediare il podestà imperiale al posto dei consoli, così dissero:"Juravimus quidem, sed non juramentumattendere promisimus", cioè "abbiamo giurato, ma non abbiamo promesso di tener fede al giuramento.", che, da un punto di vista etico non è il massimo. Milano fu messa nuovamente al bando e fu dichiarata guerra aperta tra l'imperatore e la metropoli milanese. In questo contesto è da inserirsi la concessione al vescovo di Cremona, Oberto, amico di Barbarossa, della facoltà di occupare le case e le terre di alcuni possidenti feudatari milanesi che erano gli eredi di Guido e di Alberto di Melegnano. Nel documento, in data 26 novembre 1159, scritto a Melegnano, si dice: ...Inoltre i Milanesi sono stati giudicati da noi nemici del nostro impero, li abbiamo messi al bando ed abbiamo confiscato i loro beni. Ma in particolare vogliamo confiscare i beni degli eredi di Guido e di Alberto di Melegnano: il loro feudo, da essi tenuto e dai loro antenati che erano nel paese e nel castello di Maleo, tutto ritorni in proprietà alla tua chiesa, in forza del nostro diritto e senza alcuna eccezione. Per nostra autorità imperiale vogliamo proibire ai predetti eredi il diritto di successione nel feudo predetto, feudo che noi togliamo loro, ossia i terreni che furono di Oddone di Melegnano e tutti quelli che potranno essere dei loro parenti. Essi, inoltre, sono da noi esclusi dal diritto di ogni ricorso legale. La distruzione di Milano Ancora nell'agosto del 1161 l'esercito imperiale era nella Bassa Milanese, tra Cerro e Melegnano. I consoli milanesi, presi da grave preoccupazione ed oscuri presentimenti, decisero di abboccarsi con Barbarossa, per sondare fino a che punto si poteva evitare uno scontro diretto e certamente sanguinoso e distruttivo per Milano. Partirono da Milano e giunsero alla Rampina, ma furono intercettati da una pattuglia di imperiali. Quindi fuggirono, ritornando verso Milano, dopo essere stati malmenati e liberati dalle truppe milanesi uscite incontro nella previsione di una loro possibile cattura. Intanto Federico stimolato da un regalo di 11.000 marchi d'argento, fattogli dai Cremonesi, perchè li aiutasse ad impadronirsi di Crema, assediò la città per sette mesi, durante i quali i Cremonesi tagliarono la testa ai prigionieri e la buttavano al di là delle mura, mentre i Cremaschi facevano a pezzi, sulle stesse mura gli imperiali caduti nelle loro mani. Arresasi Crema, 20.000 cittadini furono costretti a lasciare la città che fu abbandonata al saccheggio, le mura e le torri furono abbattute, i Cremonesi diedero fuoco alle case e distrussero quel poco che era rimasto. Per le sue atrocità, Federico, che era considerato anche in Germania un eretico, fu scomunicato da papa Alessandro III che, benedicendo la Lega Lombarda che si era formata e che poi verrà solennemente giurata nel 1167 a Pontida, sciolse tutti i sudditi dal vincolo di fedeltà all'imperatore. Nell'assedio il Rè aveva dovuto consumare tutto il periodo di ferma delle milizie feudali, che erano così ritornate in Germania, gli erano rimaste le truppe dei vassalli, dei Conti Palatini Corrado e Ottone e di tutte le città italiane che si erano schierate con lui. Si diresse su Milano e già le genti di Porta Romana e di Porta Orientale avevano ceduto all'urto della cavalleria imperiale e il Barbarossa, rovesciato il Carroccio ammazzandone i buoi, si era impadronito dello stendardo del Comune, quando le milizie delle altre porte, dopo aver sconfitto Comaschi, Novaresi e Vercellesi si lanciarono con tale impeto contro le forze imperiali da costringerle alla ritirata su Como. Il Rè si rinchiuse nel castello di Baradello, lasciando ai Milanesi i prigionieri, gli ostaggi e un grande bottino. Federico si trasferì poi nella fedelissima Pavia e vi attese la primavera, quando le truppe tedesche sarebbero tornate per un nuovo periodo di ferma. Con la primavera si riformò un esercito formidabile, il Rè mosse contro Milano e la strinse d'assedio. Ormai l'assedio intorno a Milano, già piagata da un gravissimo incendio che ne aveva distrutto quasi un terzo, era diventato stretto e feroce: durante l'assedio Federico scelse sei prigionieri milanesi e ordinò che cinque venissero accecati, mentre al sesto fece troncare il naso e togliere un occhio, perchè facesse da guida, verso Milano, agli altri disgraziati. La resistenza milanese si protrasse fino alla fine del febbraio del 1162; ma, di fronte alla fame ed alla impossibilità di ricevere soccorsi dall'esterno, tra gli assediati milanesi si formò un partito favorevole alla resa. Le proposte di Barbarossa erano quelle di arrendersi in massa, di abbattere le mura e di rendere piena soddisfazione con una solenne scenografia feudale del rito dell'umiliazione. E Milano si arrese. Il 1° marzo 1162 i consoli milanesi, passando da Melegnano, arrivarono a Lodi per giurare la resa. Poi, dopo tre giorni, passarono ancora da Melegnano trecento cavalieri per consegnare le chiavi della città ed per deporre ai piedi dell'imperatore le 36 bandiere dei rioni milanesi. Il 7 marzo passarono da Melegnano per Lodi i consoli milanesi degli ultimi tre anni in carica, con mille fanti, per consegnare le bandiere e il Carroccio che era il simbolo della libertà, della fierezza e dell'autonomia cittadina. Tutti in ginocchio supplicarono la pietà del Barbarossa che rimase di ghiaccio, fermo, impassibile. Tenne presso di sé 4000 persone come ostaggio; accolse il giuramento di fedeltà dei Milanesi; comandò di smantellare le mura e di riempire i fossati di difesa. Mandò i suoi ambasciatori a Milano per ricevere il giuramento di tutti i cittadini. Ma venne l'ordine più severo e più drammatico. Barbarossa, da Pavia dove si trovava il 19 marzo, ordinò alla popolazione di Milano di lasciare le abitazioni entro otto giorni. Le città italiane nemiche di Milano avevano comprato con ingenti somme la decisione imperiale di distruggere l'odiata Milano. Ed il 26 marzo fu emanato l'editto definitivo di una completa distruzione. L'esecuzione della distruzione fu affidata ai nemici tradizionali di Milano: Pavia, Lodi, Como, Cremona. Queste città assalirono Milano, quasi casa per casa, trasformando un atto di cosiddetta giustizia imperiale in un'aberrante vendetta tra stessi Italiani, solo un cinquantesimo della città rimase in piedi. La leggenda popolare tramandò ai posteri che il Barbarossa, distrutta Milano, sulle terre che erano state città, facesse correre l'aratro, spargendo sale per rendere persino la terra sterile. E l'imperatore Federico Barbarossa incominciò a datare i suoi documenti, non dall'anno dell'era cristiana, come aveva sempre fatto, ma dalla distruzione di Milano , cioè il l° marzo 1162. Ma tutti, però, capirono che ciò era stata una follia. Frattanto la ribellione contro Barbarossa aumentava. Un cronista dell'epoca così scrisse:"Sicque factum est quod Lombardi, qui inter alias nationes libertatis singularitate gaudebant, pro Mediolani invidia cum Mediolano pariter corruerunt, et se Theutonicorum servitute misere subdiderunt", cioè :"E' un fatto che i Lombardi, che godevano tra le altre nazioni di un singolare grado di libertà, per invidia nei confronti di Milano, rovinarono se stessi come avevano contribuito a rovinare Milano e si assogettarono miseramente alla servitù nei confronti dei Tedeschi.", La Lega di resistenza fu giurata a Pontida solennemente: Milano, Bergamo, Brescia, Mantova, Cremona, cui si aggiunse anche Lodi, e più tardi anche Venezia, Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Ferrara, e da ultimo anche Pavia. Nel 1173, mentre Federico era in Germania, le città della Lega rinnovarono i patti di alleanza e costruirono una città che, in onore del pontefice, chiamarono Alessandria. |
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