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Il tempo degli Sforza
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  La famiglia sforzesca
Per una migliore comprensione del periodo che stiamo affrontando è necessario avere dinnanzi il quadro genealogico degli Sforza:


Stemma degli Sforza
Francesco Sforza, il capostipite
Alla morte di Filippo Maria Visconti alcuni intellettuali milanesi, ricchi e circondati da larga considerazione - i Bossi, i Cotta, i Lampugnani, i Moroni, i Trivulzio crearono una nuova forma di governo per Milano: l’Aurea Repubblica Ambrosiana.  Ma, nonostante i tentativi per condurre una politica sicura, presto affiorarono grosse difficoltà: le discordie gravi all’interno, la minaccia dei Veneziani che si spingevano fin sotto le mura di Milano venendo dalla Brianza. In tali circostanze i reggenti non trovarono un altro modo se non quello di affidare il comando supremo militare a Francesco Sforza. Costui aveva sposato la figlia del Visconti, Bianca Maria, ed aveva ricevuto in eredità la città di Cremona ed una forte somma di denari.  Nell’armata milanese, al comando dello Sforza, entrò anche per alcun tempo il capitano Francesco Piccinino, figlio del più famoso Jacopo. Ma nel suo intimo Piccinino odiava il comandante supremo, per gelosia di mestiere e per aspirazione alla suprema carica.  E  proprio in questo periodo il capitano Piccinino aveva la sede delle sue truppe in Melegnano. Ma in breve tempo il distacco tra i comandanti divenne più accentuato: nel segreto dei cuori tutti aspiravano alla signoria di Milano. Il bene della Repubblica, proclamato in teoria, fu un grosso pretesto per gli scopi individuali da raggiungersi fino all’ultimo sangue.
L’assedio sforzesco ed i contrabbandieri
I rapporti tra i politici della Aurea Repubblica Milanese e Francesco Sforza andarono sensibilmente deteriorandosi. Uomini politici ed il capitano militare Carlo Gonzaga avevano segreti contatti con i nemici Veneziani. Quando Francesco Sforza seppe di questi contatti, voltò faccia: anticipò i politici milanesi e lo stesso Gonzaga e chiese apertamente ai Veneziani di trattare una tregua o addirittura un armistizio.  Si gridò al tradimento: Francesco Sforza ormai non era più il supremo difensore della città di Milano, ma un dichiarato nemico pericoloso. Gli si tolse il comando, ed al suo posto fu elevato Carlo Gonzaga.  Francesco Sforza reagì passando all’attacco di Milano aggirando la città con un vasto assedio territoriale per impedire i rifornimenti effettivi: la linea dell’assedio andava da Pavia a Melzo e si stringeva sempre più. Era, comunque, la guerra aperta, anche perchè Francesco Sforza era ricercato dal governo milanese e su di lui pendeva una grossa taglia.  L’assedio alla città di Milano, dalla parte del sud, fomentò il fenomeno del contrabbando, cioè la circolazione clandestina delle merci in violazione delle leggi imposte da Francesco Sforza.  Così il condottiero ribelle si trovò a dover combattere anche un’altra strana guerra, quella dlele azioni, quasi tutte notturne, contro i suoi bandi militari.  A spalla, con carri e carretti, lunghe file silenziose passavano sul senterium mediolanense, il sentiero milanese, portando dai nostri paesi del sud est le merci di prima necessità a Milano: maiali, sale, carne, olio, formaggi, strutto e perfino il pane. Evidentemente le provviste che Milano faceva dal nord, cioè dalla zona di Monza e di Lecco, non erano sufficienti. I nostri contrabbandieri percorrevano la strada da Sant’Angelo per Melegnano. Giunti a Melegnano seguivano le strade di campagna costeggiando la Vettabia o passando attraverso piccoli sentieri. Francesco Sforza dovette istituire un tribunale contro i contrabbandieri i quali formavano colonne fino a duecento uomini, guidati da Giovanni Moco, un cittadino di Sant’Angelo Lodigiano.
La sorte del castello di Melegnano
Francesco Sforza aveva affidato il castello ed il paese alle truppe guidate dal Piccinino, ma queste scapparono, ed in tal modo i Milanesi della Repubblica poterono occupare un paese omni militum praesidio destitutum, arcemque paucis defensoribus munitam (privato da ogni guarnigione militare e un castello fortificato da pochi soldati).  Lo Sforza non potè arrivare prima perchè‚ le strade erano infangate ed allagate da una pioggia che si rovesciava sulla zona per lunghi giorni.  Ma appena le piogge furono cessate, il primo marzo 1449 Francesco Sforza ordinò l’assalto. Sentiamo la narrazione - in lingua italiana tradotta dal latino - di un cronista del tempo: “ Francesco, avvertendo che i tempi della lotta stringevano, deliberò di non prolungare oltre l’occupazione del paese di Melegnano. Radunò tutto il suo esercito e si accinse all’opera. Il castello di Melegnano, infatti, è assai adatto e sommamente opportuno per fare una guerra o per nuocere ai Milanesi, se fosse necessario. Appena giunto in Melegnano conquistò il paese con il primo assalto; tuttavia si astenne da ogni azione di rappresaglia e trattenne i suoi soldati che volevano punire o rendere prigionieri tutti gli uomini “. Le donne con i loro figli si erano rinchiuse in castello. Il castello era difeso da un grosso numero di soldati che opponevano una salda resistenza. Allora Francesco ordinò l’assalto, servendosi delle macchine da guerra fatte venire appositamente da Pavia, e continuò a battere finchè due torri furono devastate e screpolate con fitta e continua serie di colpi. I muri che stavano tra le due torri furono rovinati ed abbattuti. Ma un valido aiuto agli assediati era dato dalla fossa piena d’acqua del Lambro. Il diroccamento e l’assalto durò per sei giorni, fino a che si addivenne ai patti, che erano questi: i soldati del presidio melegnanese non dovevano essere catturati come prigionieri; tutta l’artiglieria doveva essere libera di rientrare in Milano con gli attrezzi militari e con la scorta dei viveri. Le trattative durarono tre giorni, perchè‚ quelli del castello speravano in aiuti da Milano. Ma gli aiuti non arrivarono e così il castello fu consegnato nelle mani dello Sforza.  L’anno dopo, il 25 marzo 1450, lo Sforza fece il suo ingresso trionfale in Milano, prendendo il nome e l’autorità del duca, senza attendere la conferma e l’investitura dell’imperatore. Una grande assemblea di popolo radunata al Broletto dichiarava a Francesco la signoria con le parole potestatem, dominium et ducatum annexum, mentre l’amico ducale, il letterato filo sforzesco umanista Francesco Filelfo, seppelliva nella sua lode orchestrale le ceneri della Repubblica definendola politicamente e socialmente con un’espressione quasi tacitiana: factus plebis ignavae, un baccanale della vil plebe!
Importanza del castello di Melegnano
Ogni pretendente al dominio di Milano doveva fare i conti anche con il castello di Melegnano, come si è visto nel caso di Francesco Sforza, perchè‚ rappresentava una solida fortezza ed un passaggio obbligato verso Milano. Come ogni altro castello, anche quello di Melegnano aveva una sua organizzazione.  Alla custodia di ogni castello del vasto dominio visconteo e sforzesco era preposto un castellano che era scelto sempre fra gli ex militari di speciale competenza che avevano reso segnalati servizi al ducato e che godevano della massima fiducia; la nomina era sempre ad beneplacitum, cioè di assoluta volontà del duca per il tempo da lui stabilito: per pochi anni, per molti anni, talvolta a vita.  Quando moriva un duca era necessaria la conferma del nuovo signore.  Il castellano aveva con se in castello alcuni familiari piu intimi che lo aiutavano, oppure aveva anche alcuni dipendenti stipendiati.  La sua nomina era accompagnata da uno speciale contrassegno, cioè il castellano riceveva un segno caratteristico distintivo come il disegno di un timbro o di un sigillo, che era conosciuto a lui e al duca.  Il castellano doveva con sincera fedeltà e continua vigilanza tenere, custodire e governare il castello in nome del duca. Non doveva mai consegnare il castello ad alcuna persona, tranne a chi aveva documenti sicuri o fosse in possesso della copia del contrassegno originale del castellano.  Non poteva mai uscire dalla fortezza nè‚ di giorno nè‚ di notte, e non poteva introdurre mai più di due persone per volta.  Il suo compito principale era la guardia delle munizioni e badare che nei magazzini del castello vi fossero provviste bastanti per un anno per più persone in previsione di un assedio; le provviste più usuali consistevano in alimenti come farina, vino, aceto, legumi, olio, formaggio, carne salata; inoltre candele, calze, scarpe.  Il castellano riceveva una paga mensile, perchè, oltre all’ufficio della custodia del castello, a Melegnano era anche capitano, con funzione giudiziaria. Tuttavia dal 1455 il duca Francesco Sforza eliminò lo stipendio delle paghe dovute al castellano per restringere soltanto lo stipendio alla funzione di capitano.  Comunque noi possiamo tracciare un elenco dei castellani per il periodo che va dal 1450 al 1500, che forse non è completo ma che serve a far conoscere da quali famose famiglie fossero scelti, trascrivendoli così come sono segnalati: 
Iohannes de Christianis, dal 24 gennaio 1450, 
Io. Iacobus Christianus, dall’8 novembre 1463, 
Nob. vir Segnorinus de Garbagnate, dal 20 febbraio 1464, 
Nob. vir Galeaz de Becharia, dal 20 maggio 1470, 
Nob. vir Gabriel de Terzago, dall’1 agosto 1481, 
Io. Petrus Cribellus, dal 26 settembre 1489, 
Strenuus vir Leo de Castroleone, dal 9 gennaio 1495, 
Antonius Landrianus, camerarius ducalis, dal 19 gennaio 1495, 
Bernabos Crivellus, civis Mediolani, dal 28 febbraio 1496, 
Ambrosius et Hector Vicecomes, dall’l1 marzo 1500.
Nei documenti del tempo la posizione giuridica di Melegnano, rispetto al contesto politico, è espressa in questi termini: capitaneatus et castellania Melegnani. Da ciò si ricava la duplice funzione del vicario del duca in Melegnano, quella di capitano che ordina e giudica, e quella di castellano, fedele custode della fortezza come un baluardo militare.  In qualche caso straordinario era nominato un sovrintendente per l’indagine conoscitiva dello stato patrimoniale e della situazione strutturale del castello, anche in vista di periodiche riparazioni necessarie per affrontare un pericolo sempre in agguato, come il 16 marzo 1452: “ Ti mandiamo 50 ducati d’oro per i lavori della rocca; non perdere tempo “, così il duca scriveva al castellano Giovanni de Cristiani. Ed ancora dopo, l’l1 febbraio 1500, la tesoreria ducale nominò il marchese Francesco Avogadro ispettore per i lavori e le riparazioni al castello. 
La reazione veneziana
Mentre il duca rafforzava il suo potere, Venezia si accordò con i pretendenti al ducato e formo una Lega antisforzesca, per punire Francesco Sforza e la sua temerarietà. Tutta l’Italia si mise in moto nelle alleanze; ma tutti erano stanchi di guerreggiare. Mentre accettavano in cuor loro il fatto avvenuto, non volevano essere scartati o tagliati fuori bruscamente dalle vicende politiche. Anche lo Sforza cercò alleanze che trovò nei Fiorentini, nei Genovesi, nel marchese di Mantova, nella Savoia, negli Svizzeri e in Renato d’Angiò fratello della regina di Francia e che si riteneva re di Napoli, una città che non aveva mai potuto occupare.  I Veneziani erano nel Lodigiano e puntavano su Melegnano, ma il duca si preparava da mesi ad attenderli: Melegnano era una roccaforte di primaria importanza, come cintura di difesa capitale per Milano. Lo Sforza, come dicemmo, aveva mandato il 16 marzo 1452 a Giovanni Cristiani, capitano e castellano della fortezza melegnanese, la somma di 50 ducati d’oro per i lavori di difesa al castello; inoltre ordinava una riscossione anticipata e forzosa della tassa sul sale, ed anche una ordinanza di reclutamento per avere i bifolchi che dovevano condurre i carri dei buoi, non ai campi, ma col materiale da costruzione in castello; a questi si dovevano aggiungere gruppi di manovali e carpentieri. Re Renato, uno degli alleati, giunse in Melegnano, ed il castellano ne dava l’annuncio al duca. Egli conduceva un esercito di novecento uomini.  La sua azione fu più dimostrativa che efficace, perchè‚ le cose si calmarono, ed il ducato di Milano ringraziò re Renato; ma, alla resa dei conti, non ebbe bisogno del suo intervento.
Il dramma di Drusiana tra gli intrighi della politica
Francesco Sforza ebbe undici figli legittimi e ventiquattro figli naturali: tra questi vi era una certa Drusiana, avuta dall’amica Giovanna di Acquapendente detta “la Colombina”.  Frattanto, nel vasto movimento militare italiano, lacopo Piccinino, capitano di ventura, già nemico di Francesco Sforza fino alla pace di Lodi del 1454, era passato al servizio del re di Napoli, Alfonso che però diffidava di lui, perchè‚ non era stabile alle alleanze ed ai patti, quando scoppiò il conflitto per la successione al regno di Napoli parteggiò per gli Angioini, pretendenti al trono contro il re aragonese.  Nel 1463 il Piccinino tornò a servire gli Aragonesi di Napoli nella persona di Ferdinando I°: anche costui non nutriva eccessiva fiducia nella fedeltà del condottiero. Difatti il Piccinino si appoggiò al duca di Milano Francesco Sforza, il quale gli diede in sposa la sua figlia Drusiana; le nozze si celebrarono nell’agosto 1464: lei era bella, dolce, elegante nell’effervescenza femminile dei suoi ventisette anni. Ma venne il dramma e la tragica conclusione. Francesco Sforza sentiva come molesto, militarmente e forse anche famigliarmente, la presenza nel ducato di Jacopo Piccinino: lo consigliò, quindi, a ritornare al soldo del re di Napoli che lo aveva richiamato al suo servizio.  Il viaggio verso Napoli fu un triste calvario: uscì da Milano il 27 aprile 1465, poco convinto di questa manovra tra due potenti; arrivò taciturno e pensoso fino a Melegnano, sua prima tappa.  Poi continuò l’itinerario fino a Napoli, dove, stranamente, vide entusiastiche accoglienze. Poco tempo dopo, forse con la complicità dello Sforza, il Piccinino fu imprigionato e strozzato.  Drusiana, che era in stato interessante, si era messa in viaggio per raggiungere il marito, ed a Pesaro fu convinta dal cancelliere del duca di Milano, Andrea da Foligno, a rientrare in Milano. Lo stesso Sforza, duca e padre, scrisse una lettera ad Andrea da Foligno, per manifestargli i suoi sentimenti:  “Respondendo at quanto ne scrivete del venire de Drusiana con la compagnia merchore proximo da sira ad Marignano et così poy el dì seguente poso el desinare qua da nuy per li respecti allegati in le vostre littere dicemo che siamo contenti che essa vegna con la compagnia al dicto dì ad Melignano ad suo piacere et così scrivemo per la alligata al nostro castellano lì chel debij fare apparichiare ai meglio che se potrà quello nostro castello per lo dormre pur perchè per la venuta di nostri incliti figlioli da Napoli ne è stato necessario mandare aparichiare ad Pavia et anche come tu Ser Andrea sey informato ne è bisognato provedere qua per lo alloggiare de Drusiana donde ne trovamo sforniti de licti et forsi che ad Melignano non potria alloggiare tutta la compagnia ne parreria ch’el fosse bene che una parte de la compagnia restasse a Lode per lo dormire, et poy zobia matina venasse ad Melignano da dicta Drusiana et farli compagnia al intrare in questa nostra inclita cità...”.  Il duca, inoltre, aggiunse istruzioni al suo cancelliere per le spese necessarie, ed al castellano del nostro castello per i passaporti e per spedire come staffetta “un cavallaro battando, quando dicta Drusiana con la compagnia serà montata a cavallo a Melignano per venire qua accò possiamo mandarli incontra quelli ne parirà per honorarla “. La lettera fu data in Milano il 4 novembre 1465.  Drusiana, entrando in Milano, conobbe la triste fine del suo marito. Visse in Milano alla morte del duca suo padre; poi scomparve nell’ombra, entrando in un convento. Ma anche qui non trovò la pace: il nuovo duca Galeazzo Maria, per interessi politici la costrinse a passare a nuove nozze. Ma Drusiana fuggì avventurosamente a Trezzo, poi a Bergamo, quindi a Padova dove morì improvvisamente il 29 giugno 1474.
Melegnanesi al tempo degli Sforza
Anche l’amministrazione sforzesca incrociò le sue pratiche economiche, politiche e militari con il contesto di Melegnano mediante l’opera e le prestazioni di alcuni melegnanesi direttamente interessati: Bonino, uno dei comandanti dell’esercito ducale ricostruito; Scaramuccia, venne selezionato come milite scelto per essere inviato presso la duchessa di Savoia; Gotardo, entrò nelle file dei balestrieri ducali; Matteo, liberato dal carcere di Guastalla per una concessione straordinaria di amnistia in occasione delle feste pasquali del 1478; Pietro Cassini, ottenne il permesso di recarsi negli accampamenti pontifici e quelli di Ferdinando di Napoli per chiarire una questione familiare ed anche con l’incarico di osservare bene il tipo di organizzazione e la particolare struttura delle caserme e delle truppe, con l’obbligo di riferire minutamente agli intendenti ducali milanesi nel più breve tempo possibile; Pier Maria de’ Rossi, richiese al capitano di giustizia di Milano di procedere penalmente contro alcuni coltivatori di Melegnano perchè‚ si rifiutavano di pagare grossi debiti per una lite giudiziaria sui contratti dei fondi rustici.
La questione dei beni
Una clamorosa contesa riguardò i beni terrieri situati nella Savoia e che erano proprietà prima dei Visconti e poi passati agli Sforza.  Tali beni furono richiesti dagli antichi proprietari della Savoia, prima con azioni giudiziarie, poi con minaccia di mettere un’ipoteca su tutti i beni che la corte ducale aveva in Melegnano.  La lite si trascinò per diversi anni sui banchi giuridici e nelle sedi politiche. Ma le amicizie, le raccomandazioni, e soprattutto il passaggio e l’offerta di sontuoso soggiorno ai pezzi grossi della diplomazia italiana misero la corte ducale al sicuro. Nel diario di Cicco Simonetta, segretario sforzesco, si trova scritto: “EI reverendissimo cardinale de sancto Sixto, legatus a latere in Italia, hogi s’è partito et venuto a desinare ad Melegnano, secondo l’ordine dato”, era il 12 settembre 1473. Il cardinale si chiamava Oliviero Caraffa, abile diplomatico e politico intrigante, ma potente e temuto.
Le successioni
Sembrava che il dominio sforzesco fosse ormai del tutto saldo, quando il duca Francesco Sforza improvvisamente morì l’8 marzo 1466. La moglie Bianca Maria resse il ducato fino a consegnarlo al figlio ventenne, Galeazzo Maria.  Quando il nuovo duca ebbe il comando, la madre si ritiro in silenzio. Partì da Milano per Cremona. Si fermò a Melegnano perchè‚ si sentiva ammalata. E qui, nel nostro castello, morì all’età di 42 anni il 23 ottobre 1468. Qualcuno insinuò che la duchessa fosse stata avvelenata e che il figlio ne sapesse qualcosa.  Il nuovo duca ventenne, Galeazzo Maria, sposò la sorella di Amedeo di Savoia, Bona, una fanciulla meravigliosa che eccitò perfino il genio di Shakespeare immaginandola fidanzata per breve tempo con il re Edoardo d’Inghilterra. Inoltre Bona di Savoia era sorella del re di Francia. Con tale matrimonio erano corretti i disegni del ducato: la Savoia, prima nemica, ora era amica. Rimaneva sempre l’accanita ostilità dei Veneziani al punto tale che Galeazzo Maria dichiarò guerra con tanta fretta che dovette quasi subito smettere e ritirarsi nei suoi confini ducali: gli altri principi italiani gli erano contro.
Le nuove realtà ducali tra congiure ed intrighi
Galeazzo Maria Sforza tentò di continuare la politica paterna e mantenne anche buone relazioni con gli alleati, privilegiando la Francia; e non mancava di buone qualità. Ma, oltre il confronto con l’alta figura del padre, gli nuocevano i modi superbi e la dissolutezza della vita. Pesò sul fisco inasprendo le tasse, sbagliò grossolanamente politica estera con Venezia e con i Fiorentini - era il tempo del famoso Lorenzo il Magnifico -, non ascoltava la voce dei consiglieri più quotati: il tutto sfociò in una congiura di nobili milanesi già suoi amici, ai quali si aggiunsero gli avversari anche per risentimenti personali. Il duca Galeazzo Maria cadde pugnalato nella chiesa di Santo Stefano il 26 dicembre 1476. Si riapriva la crisi del ducato. Il suo figlio, Gian Galeazzo II° aveva sette anni.  Rimanevano in vita come pretendenti i cognati di Bona: Sforza Maria, Lodovico il Moro, Ottaviano, Ascanio. Lodovico il Moro era il più intemperante, aveva 26 anni, brillante, furbo, tenace, machiavellico: tutti lo davano come l’aspirante focoso al ducato, a tal punto che chiese alla vedova, Bona di Savoia, sua cognata, di aiutarla nel comando e nell’amministrazione: ella acconsentì; in tal modo i destini si maturavano tragicamente: il segretario Cicco Simonetta fu decapitato; Bona di Savoia dovette ritirarsi nel castello di Abbiategrasso; il figlio Gian Galeazzo che era il legittimo duca fu relegato a vivere la giovinezza nel castello di Pavia, sotto la buona cospirazione tutelativa dello zio Lodovico il Moro, colui che seppe aspettare e riemergere dalla frana del ducato. Nel 1480 era l’incontrastato dominatore, dopo due anni di reggenza collettiva.  Lodovico il Moro celebrò le nozze con Beatrice d’Este, figlia del duca di Ferrara; ottenne il riconoscimento del titolo di duca dall’imperatore Massimiliano d’Asburgo, ad onore del quale chiamò con lo stesso nome di Massimiliano il suo figlio primogenito; mentre procurò al giovane nipote Gian Galeazzo, relegato in Pavia, un clamoroso matrimonio con Isabella d’Aragona, coltissima ed affascin ante: i due sposi dovettero, però, starsene in un dorato e neutrale esilio in Pavia - invece lo zio, il re Ferdinando, forte del suo regno di Napoli, pretendeva che la sua nipote avesse una sorte migliore ai vertici del ducato -.
Le invasioni straniere contro il ducato
Già dal secolo XIII la politica francese si era volta verso l’Italia: ai sovrani francesi si era appoggiato il papato quando la Germania non gli aveva più offerto sostegno sicuro; poi l’Italia meridionale era caduta sotto la dominazione di una famiglia francese; alla Francia si appoggiava Firenze per le esigenze dei suoi commerci; altrettanto faceva il ducato di Savoia che, d’altra parte, era di origine francese; la repubblica di Genova aveva più volte cercato un suo dominio francese; infine il matrimonio di Valentina Visconti con un principe della Casa di Orleans, avvenuto nel 1389, aveva permesso ai re francesi, dopo la morte di Filippo Maria, di vantare diritti sul ducato milanese.  A questo si aggiungeva che la Francia, nel suo organizzarsi e consolidarsi in forma di monarchia assoluta sotto re di notevole personalità, rimaneva debole dal punto di vista industriale e commerciale: i suoi commerci dipendevano infatti in gran parte dalle repubbliche marinare italiane, e dagli operosi Comuni essa importava gran quantità di manufatti. La conquista sicura e incontrastata dell’Italia meridionale ed il dominio della Lombardia avrebbero dunque dato, a quanto sembrava, un grande incremento economico alla Francia. 
Le decisioni di Lodo vico il Moro
La politica estera di Lodovico il Moro portò alla rovina dell’Italia. Egli si sentiva attaccato dal re di Napoli, mentre Venezia era sempre in agguato e contro ogni novità milanese. La psicosi di dover difendersi a tutti i costi spinse Lodovico il Moro a chiamare in Italia il potente re francese, Carlo VIII°, il quale venne, fu rice-vuto fastosamente da Lodovico il Moro e giunse in pochi mesi alla conquista di Napoli, il febbraio 1495.  Un mese dopo circa dall’ingresso di Carlo VIII° in Napoli gli Stati italiani capirono il grave sbaglio di aver lasciato libero il passaggio ad uno straniero. Ancora sotto l’impressione delle facili conquiste francesi stipularono una Lega il 31 marzo 1495. Già Venezia si era avvicinata agli altri Stati italiani ed aveva mandato ambasciatori in tutte le parti, compreso il ducato di Milano. Sul ponte del Lambro in Melegnano avvenne la solenne accoglienza degli inviati del duca all’ambasciata veneta capeggiata da Sebastiano Badoer e Benedetto Trevisan, avvocati della Repubblica veneta, il 30 novembre 1494.  Carlo VIII° potè ritornare precipitosamente in Francia, con tutte le sue truppe, dopo essersi riconciliato con il Moro ed aver ottenuto assicurazioni per una futura probabile riconquista di Napoli.  Evidentemente il Moro aveva fatto una pace separata con i Francesi, tradendo gli alleati della Lega. In tal modo stava sempre più complicando la sua posizione politica che presto lo porterà alla rovina.  Carlo VIII° moriva, senza figli, nell’aprile 1498 con i suoi sogni di gloria. Ma a lui succedeva il duca d’Orleans, quel famoso nipote di Valentina Visconti, il quale considerava senza mezzi termini come sua legittima eredità il ducato di Milano e intendeva riaverlo a tutti i costi. Il duca si chiamava, per la storia, Luigi XII°.  Questa volta furono i Veneziani a chiamare in Italia i Francesi, i quali non si fecero aspettare. Luigi XII°, che appena assunto al trono francese si era fatto chiamare anche con i titoli di re di Napoli e di duca di Milano, scendeva in Italia nel 1499 invadendo subito la parte occidentale del ducato milanese, mentre le truppe veneziane penetravano da oriente e si spingevano fino nel Lodigiano.  In questa guerra Melegnano fu colpita nel cuore. Un cronista del 1500, Ambrogio da Paullo, lascia questa descrizione: “L’anno 1500 sul finire di marzo si aveva una grande paura a causa delle truppe francesi che avevano occupato Lodi e saccheggiato Riozzo...  il 27 maggio 1502 l’esercito francese di Luigi XII° è in marcia da Milano a Lodi si ferma nei villaggi ruba ogni bene degli abitanti...”.  Tutti i nostri paesi e paesini davano l’allarme tra di loro trasmettendo il pericolo con il suono delle campane a martello.  Lodovico il Moro fuggiva in Germania, abbandonato da tutti, dopo la catastrofe di Novara del 10 aprile 1500, travestito da svizzero.  Fu però riconosciuto e preso e trasportato in Francia dove morì il 27 maggio 1508 anch’egli sognando impossibili riconquiste e nuovi fasti gloriosi politici e diplomatici. Il re francese Luigi XII° rimase il vero padrone del Milanese.
La fine di una trionfale età
Nel periodo sforzesco l’economia fu aiutata, le scienze si avviarono ad un buon sviluppo, grandi personalità in ogni settore furono membri di una corte principesca tra le prime d’Europa.   Bernardino Corio, storico di Milano del periodo di Lodovico il Moro ci lascia scritto: “qui vi sono storici, umanisti e poeti, architetti e pittori fisici ed astronomi o molte di queste cose insieme... eccellentissimi in tutte le arti e scienze”.  Basterebbero i nomi di Leonardo da Vinci e di Bramante da Urbino, di Francesco Filelfo e di Giorgio Merula, di Ermolao Barbaro e di Demetrio Calcondila, di Gaspare Visconti e di Pier Candido Decembrio per rappresentare una civiltà milanese nel ruolo di primo piano in campo letterario ed artistico, sulla scia luminosa del Rinascimento italiano.
L’ultima fiammata sforzesca
Luigi XII°, padrone del Milanese, passava di vittoria in vittoria.  Perfino contro l’eterna nemica dei Milanesi, Venezia, riportò una clamorosa vittoria ad Agnadello nel maggio del 1509.  Ma al soglio pontificio sali un uomo energico ed antifrancese: Giulio II°, il quale fece del suo programma politico una missione contro la Francia, al grido di fuori i barbari! La lega che egli potè stringere con gli Svizzeri, la Spagna, l’Inghilterra e perfino con i Veneziani fu detta Lega Santa: e fu inevitabilmente la guerra, nella quale gli Svizzeri poterono invadere tutto il Milanese fino alla conquista di Milano che fu occupata nel giugno del 1512, avendo alla testa il vescovo Matteo Schiner, detto il cardinale di Sion, dal nome di una cittadina svizzera.  La città di Milano fu consegnata ad Ottaviano Sforza, figlio di Galeazzo Maria. Ottaviano era vescovo di Lodi ed entrò in Milano come inviato speciale della Lega Santa insieme con gli Svizzeri.
Francesco Brivio capitano e vicario in Melegnano
Subito iniziarono le fasi per la restaurazione materiale e politica del ducato. Francesco Brivio, membro di una nobile famiglia milanese, offrì ad Ottaviano Sforza, il 19 luglio 1512, la somma di mille ducati, cinquecento subito e cinquecento quando potesse avere come ipoteca il castello di Melegnano con la carica di capitano e di vicario ducale, unitamente allo stipendio e a tutte le prerogative che tale carica comportava e fruttificava. La tesoreria ducale avrebbe sempre avuto la possibilità di riscattare il castello quando avesse avuto la somma da restituire. Il 22 luglio fu spedito l’atto notarile steso dal notaio imperiale Giulio Cattaneo ed il castello fu consegnato al Brivio.
Francesco Brivio feudatario di Mele gnano
Questa concessione finanziaria del Brivio ebbe una importante conseguenza per Melegnano. Difatti, essendo diventato duca Massimiliano Sforza, figlio di Lodovico il Moro, il Brivio ebbe per sè‚ e per i suoi discendenti maschi legittimi, per sempre, il territorio melegnanese con il castello, come un feudo, in data 15 dicembre 1513.  Il nuovo assetto di Melegnano fu una grossa novità politica, economica e sociale. Francesco Brivio ebbe tutti i legittimi poteri, le spettanze e le competenze sui luoghi che prima erano della Camera ducale. A lui fu concessa la facoltà di giudicare le cause civili e penali, di riscuotere le tasse sul sale e sugli attrezzi di ferramenta.  Rimanevano esclusi gli edifici stabiliti per gli alloggiamenti dei cavalli. Ed il tutto era regolato da precise clausole stese da diretto pugno del duca.  Il duca inviò pure un decreto agli abitanti di Melegnano ed in modo particolare ai responsabili dell’amministrazione perchè‚ accettassero e riconoscessero come loro feudatario Francesco Brivio, conte e tesoriere del duca, e prestassero il giuramento di fedeltà. Difatti l’8 settembre 1514, due giorni dopo del decreto del duca, gli abitanti di Melegnano prestarono il loro giuramento.  A sua volta Francesco Brivio prestò solenne giuramento al duca Massimiliano Sforza l’8 gennaio 1515. Pare che gli anni della gestione del Brivio in Melegnano fossero sereni e nella normalità. Quando morì ebbe la successione il figlio Dionigi. Egli dovette subire la terribile situazione della seconda calata dei Francesi in Italia e fu testimone della terribile battaglia dei Giganti del settembre 1515. La Lombardia subì la dominazione straniera fino al 1521, quando Gerolamo Morone, con l’aiuto degli Spagnoli, governò Milano, in qualità di vicario del duca Francesco II°, che potè‚ riavere il ducato dei suoi avi. Egli morì il 1° novembre 1535, all’età di quarant’anni senza lasciare eredi.  Il governo del ducato, ormai nella sfera degli Spagnoli, fu affidato al governatore Antonio de Leyva.
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