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Economia Visconteo Sforzesca
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  La terra
Già molti secoli erano passati dalle forme dell’economia dell’Alto Medioevo, e da parecchi secoli si erano rese stabili le conquiste tecniche applicate all’agricoltura, ormai diventate tradizionali, diffusissime ed insostituibili per una buona conduzione rurale.  Ricordiamo le principali, con il secolo della loro invenzione o diffusione: diffusione del mulino ad acqua (sec. VI°); diffusione della rotazione triennale sui prati (sec. VIII°); diffusione dell’aratro pesante (sec. VIII°); maggior uso del ferro ai cavalli (sec. IX°); maggior uso del basto (sec. IX°); attacco a due per animali da traino (sec. IX°).  La terra, ovviamente in una zona come la nostra, era la forma fondamentale della ricchezza, ed i buoi erano lo strumento naturale per ogni tipo di energia necessaria coadiuvati anche dai cavalli ai quali si dava in modo particolare la biada.  Nel periodo visconteosforzesco si aprirono nuove strade nella nostra zona: basti pensare alla Strada Pandina, lunga dodici chilometri da Melegnano a Villa Pompeiana, fiancheggiata da vivaci rogge di acqua perenne; ed i decreti ducali sono espliciti nell’imporre la continua manutenzione. Proprio per questo motivo la vita rurale si fa più diffusa e più ardita, a differenza del Medioevo longobardo e carolingio, quando le strade e le comunicazioni erano rese difficili e malsicure e quando si tendeva a tenere un’economia chiusa.  Un secondo elemento era la presenza fitta e continua di monasteri maschili disseminati nella nostra zona: Calvenzano, Viboldone, Chiaravalle; e forse, ma non ne siamo certi, anche alla Legorina e a Sarmazzano. Anche le chiese parrocchiali o di una certa importanza possedevano fondi rustici come buon patrimonio. La chiesa locale di San Giovanni, anche prima della sua erezione a prepositura nel 1442, possedeva beni immobili che concedeva in affitto da coltivare. Il monastero dei Carmelitani al Carmine, fondato verso la fine del 1300, ebbe in dotazione molte pertiche di terra. I documenti che parlano della Rocca Brivio, di Colturano, della località del Faino, di Vizzolo, sono chiari nel riferire una vita agricola come uno dei beni fondamentali cui parecchi aspiravano: si parla di raccolti, di diversi prodotti, di decime, di vendite, di trapassi di proprietà, di contratti su terreni.  Sono frequenti nelle pergamene degli archivi i ricordi dei beni terrieri che proprietari laici o monasteri o ecclesiastici affidavano, con dovuto contratto, ad ardimentosi fittavoli con l’obbligo di migliorare le colture ed il necessario patrimonio zootecnico: era un provvido fenomeno che contribuì alle fortune dell’agricoltura lombarda.  I campi erano coltivati. Ne è prova diretta anche il fatto che ogni appezzamento di terreno aveva un suo nome, quindi una sua cura ed una sua considerazione da parte dei fittavoli e dei contadini.  I terreni che stanno sulla sinistra per andare da Melegnano a Milano, cioè i terreni di Mezzano e di Montone, alla metà del 1400 avevano un loro nome proprio: che noi trascriviamo qui come li abbiamo letti sul vivo documento: ad paganam, ad campus de supra, ad campaneam de domo, ad crucem, ad campus ulonam, ad dossum, al castello, il roncho, ad sambuchetum, ad gambarinum, ad campum fontane, ad botram, ad pratum novum, ad insulam, ad gamboloita, campo del scariono, il fornasino, il vignolo, la vigna del archero, el campono, la zorla, la funtanella dela muralia, el campo del bosco, i1 beghina, ad pradella. Notiamo che alcuni di questi nomi sono ancora ricordati.  All’inizio del 1500 la nostra terra melegnanese fu ammirata dal cronista francese Pasquier le Moyne che seguiva l’esercito francese di Francesco I nel 1515. Egli qualifica i nostri prati come “la belle et bonne terre”, la bella e la buona terra, scrivendo chiaramente che “le pays denviron bon et fertiles vignes bons vins blancz et clairetz, bonnes terres a froment, fruicyz, pomes, poirez, noix, figues”, cioè egli osserva il territorio circostante che ha vigne fertili che danno vini bianchi e chiaretti, campagne coltivate a frumento, ricche di frutta, mele, pere, noci, fichi.  Inoltre egli specifica che vi sono “deux belles grosses et bonnes cassines nomèes Saincte Brigide et Gevilli”, due grosse e buone cascine chiamate Santa Brera e Zivido.  Del resto la fertilità della terra melegnanese e circondariale era assicurata, oltre che dal continuo lavoro intelligente dei fittavoli, anche e soprattutto dalla quantità d’acqua che vi scorre attraverso il Lambro, la Muzza, l’Addetta, le rogge. L’acqua era sana, limpida, gagliarda come la natura l’aveva creata. L’umanista e storico Giorgio Merula, morto a Milano nel 1494, ospite alla corte di Lodovico il Moro, scrive del nostro Lambro: “acquarum perpetua claritate nitens, copiaque piscium optimorum abundans”, il Lambro è un fiume splendente per continua chiarezza, abbondante di ottimi pesci.  Questo giudizio sulla bontà delle acque del Lambro ricalcava un’espressione pronunciata e scritta dal famoso sommo poeta Francesco Petrarca, il quale scrivendo all’amico Guido Sette dal castello di San Colombano, affermava che “ai piedi del colle scorre il Lambro, un fiume non troppo largo, ma limpido e capace di sostenere barche di ordinaria grandezza”.  E siamo nel 1300. Sono note e celebri, comunque, le lotte al tempo dei Comuni del 1100 e 1200, tra Milano e Lodi, per il possesso delle acque di tutta la nostra zona, come condizione necessaria per la fertilità ed il lavoro nei nostri campi.  Un lungo discorso sarebbe da farsi sulle proprietà dei monaci della Certosa di Pavia che possedeva il più esteso patrimonio fondiario del ducato. Essi possedevano anche la grancia di Carpiano, una comunità di frati con organizzazione ed amministrazione propria. Un documento nell’archivio della Famiglia Bascapè‚ di Milano, riporta che il 9 aprile 1517 i monaci di Pavia concedono a livello (contratto agrario per il quale un bene rurale veniva concesso in godimento per un certo periodo di tempo a determinate condizioni) della grancia di Carpiano ad alcuni membri della famiglia Bascapè’, agli Omodeo e ad altri cittadini di Milano. La concessione che comprendeva le acque del Lisone, alcune rogge e fontanili, mirava a consentire l’irrigazione dei loro fondi, attraverso una equa rotazione nell’uso delle acque stesse.  Vanno, dunque, segnalate queste preoccupazioni di migliorare le colture fondiarie da parte di ricche famiglie residenti a Milano, ormai orientate ad investire le proprie ricchezze nell’agricoltura. Ma è nostra opinione che l’impulso principale all’agricoltura sia venuto dagli Ordini monastici, felicemente attivi nella nostra zona dopo il 1000: nell’abbazia di Calvenzano i Cluniacensi vennero nel 1093, a Chiaravalle i Cistercensi nel 1135, a Viboldone gli Umiliati nel 1176, a Carpiano i Certosini nella prima metà del XII° secolo, a Melegnano i Carmelitani nel 1393.  La costante attività dell’agricoltura locale era dovuta a diverse circostanze particolari nostre: il Lambro, la Vettabia, il colatore Addetta, il canale Muzza, il Redefossi, la roggia nuova Brivio, il cavo Marocco: quindi il tipo di irrigazione nel Melegnanese è di grande importanza per la qualità delle culture e dei prodotti.  Famose sono rimaste le “marcite” o prati marcitori: il mirabile sistema irrigatorio che parte dal canale base e via via si fraziona e dirama fino a formare il capillare condotto della marcita. E’ il sistema che ancora oggi, sia pur raro, perpetua una cantante spumosa bellezza nelle campagne in questo modo bonificate. Sul prato marcitorio nasceva erba sempre pronta e fresca per il foraggio più buono: la loglierella, la coda di volpe, il trifoglio, la festuca delle graminacee.  La maggiore produzione era quella destinata, quindi, all’alimentazione degli animali domestici, non soltanto delle marcite, ma anche degli altri prati, pascoli ed erbai.  Lungo le rogge e lungo gli argini dei campi sorgevano piante di tigli, olmi, pioppi, carpini e betulle. Questi alberi cingevano le distese dei campi sui quali crescevano il frumento, l’avena, la biada e più tardi il riso ed il granoturco. E un elemento tipico del paesaggio rurale erano i lunghi filari di piante, alcune delle quali alte e maestose e robuste come lo potevano essere le querce e gli ontani.  Pure molto comune era il salice.
Le cascine
Il tipo della cascina era anche allora a corte chiusa, come ancora oggi è dato ai nostri occhi, anche per quelle cascine che non sono più usate come centri rurali. La forma chiusa della cascina e derivata originariamente dalla casa romana, la cui forma è stata adottata dai monaci per stabilire la costruzione dei loro monasteri, ricuperando così un elemento romano antico. Dalla costruzione dei monasteri a sistema chiuso derivò la cascina lombarda. Comunque non era escluso che si usassero anche edifici fortificati, poi convertiti per uso agricolo, dove si trovava il nucleo organizzativo del lavoro rurale: contadini, bestiame, mungitura, magazzini e tutte le necessità e prestazioni per una buona e completa gestione e sfruttamento dei campi. 
La questione della manutenzione delle strade
Nella organizzazione ducale della manutenzione delle strade si prendevano persone, gruppi, intere cascine, cui era affidato un tronco stradale ben precisato. Si ricorreva, per la scelta dei lavoratori obbligati gratuitamente, alla mappa geografica di Milano e dintorni. Già da tempo i dintorni di Milano, nel raggio di circa sei miglia, erano chiamate gagge (oggi è di moda la parola circoscrizioni territoriali o anche quartieri). E sui registri del ducato erano segnate tre gagge: quella che portava il nome di borgo di Melegnano, quella che portava il nome di Castelvecchio, quella che portava il nome di villa di Melegnano.  A questi tre quartieri (o gagge) erano stati affidati alcuni tronchi stradali sulla strada provinciale del Naviglio che va dal borgo di Porta Ticinese al ponte di Castelletto presso Abbiategrasso (oggi è la strada Milano - Trezzano - Abbiategrasso).  Il tronco da tenere riparato ed efficiente era lungo 285 braccia (il braccio era una misura di lunghezza, a Milano misurava metri 0,595) per quelli detti del borgo di Melegnano: lungo braccia 48 per quelli del Castelvecchio; lungo 285 per quelli detti della villa di Melegnano. Teoricamente dovevano essere impiegati 285, 48, 285 persone, perchè‚ il criterio di scelta del numero dei metri da aggiustare era in proporzione al numero degli abitanti attivi e forze vive da lavoro.  Ma sorse ben presto una grossa questione: la zona denominata il Castelvecchio (oggi Cimitero) era deserta e senza abitanti; la zona detta la villa di Melegnano non era ben chiara; quindi rimaneva soltanto in realtà la zona detta del borgo di Melegnano; e proprio per questo gli uomini di Melegnano asserivano di non essere tenuti alla riparazione stradale se non per il tratto corrispondente alle persone realmente viventi solo nel borgo di Melegnano, cioè per un tratto (e per un impiego) di 285 unità di misura e di lavoratori. Tutto ciò avveniva nel 1429. 
Il mercato del giovedì
Un altro elemento economico melegnanese importante era il mercato di Melegnano al giovedì, ancora oggi assai attivo. Non sappiamo la data di fondazione, perchè‚ il mercato del giovedì è una realtà da tempo immemorabile come è documentato nel 1442 quando si dice: “...In Melegnani terra publicum mercatum singulo die Iovis”; cioè, nella terra di Melegnano si tiene il pubblico mercato ogni giorno di giovedì. E la sua riconferma è documentata il 4 aprile 1555 dal governo spagnolo a Gian Giacomo Medici, come trasferimento di diritti e di prerogative dello Stato ad un feudo ereditario in forza di contropartite militari e politiche.  Unitamente al mercato vi era anche il preciso obbligo del castellano a prestare ai venditori validum auxilium, consilium et favorem (valido aiuto, consiglio e favore), come Š imposto, per esempio, al castellano del castello di Melegnano, Beltramino Mainerio, il quale non doveva imporre il pedaggio del ponte sul Lambro nel giorno di mercato. E dal momento che questa imposizione a Beltramino Mainerio risale al 1343 per concessione di Giovanni Visconti, Luchino, e nipoti Matteo II°, Bernabò e Galeazzo, ciò significa che già nel 1343 era attivo il mercato del giovedì.  Transitavano sul ponte melegnanese oggetti di ferro, biade, sale, vino, calcina, carbone di legna, legname da costruzione, maiali, pecore, capre, manzi, vacche, buoi, cavalli da tiro e da macello. Alle merci di carattere rurale ed al bestiame si aggiungevano le some carico corrispondente all’incirca alla quantità di peso o di volume che può portare una bestia da soma) e cavallate (una quantità portata da un cavallo, anche su un carretto) di drappi, di panno e di lino.  Vi era un magistrato chiamato “giudice del dazio”, il quale poteva procedere contro gli evasori ogni giorno tranne che nel giorno di mercato. Oltre alle contrattazioni ed alle normali attività mercantili di piazza, di compera e di vendita, il mercato al giovedì rendeva anche per le osterie, le trattorie, per i ristoranti. Già nel 1400 in Melegnano avevano fama cordiali locande, alcune delle quali con il nome di sapore popolare: albergo della Campana, della Cernia, del Gallo.  L’importanza del borgo di Melegnano era vista sotto molteplici aspetti ed i documenti degli atti amministrativi riguardanti Melegnano, assai fitti, dimostrano che la nostra terra doveva essere un valore, o almeno doveva essere stimata produttiva. Non finiremo di ripetere che diversi erano gli elementi di tale merito, ma soprattutto tre sono gli elementi base che davano importanza economica e finanziaria: il castello, il mercato al giovedì, il ponte del Lambro.  Il castello poteva essere dato in prestito, cioè venduto temporaneamente, come pegno monumentale per una somma prestata e possibile da riscattarsi: difatti nel 1405 Giovanni Maria Visconti per necessità di denaro fu costretto a cedere il castello ed il territorio di Melegnano a Galeazzo Grumello. Più tardi il duca dovette aprire a suo favore un prestito pubblico per farsi dare dai cittadini milanesi quanto occorreva per ricuperare castello e territorio di Melegnano.  Il mercato, forse uno dei pochi nella zona, era attivo per la presenza nel circondano di una rete di cascinali e di aziende agricole.  Sul mercato di Melegnano il duca ricavava percentuali su quasi ogni tipo di merce, tassando non tanto direttamente sulle merci esposte in piazza, quanto sul pedaggio che doveva essere pagato al ponte del Lambro o all’entrata dalle porte del paese.  Il mercato, quindi, strettamente collegato al pagamento del pedaggio sul ponte era una fonte continua e sicura di acquisizioni fiscali. E non si intende qui il mercato del giovedì, sul quale vi erano privilegi ed abbuoni ducali, ma si intende il rifornimento in Melegnano dalle cascine e da Melegnano per le cascine.  Quando nel 1442 il sacerdote addetto alla chiesa di San Giovanni presso le autorità locali e presso le autorità religiose diocesane insiste per avere un aiuto nel lavoro pastorale, fino alla costituzione della parrocchia vera e propria con tre sacerdoti fissi e pagati, con la sua richiesta indirettamente ma chiaramente segnalava la crescente importanza numerica e funzionale del borgo di Melegnano, ormai non più esiguo come nel Medioevo.  Del resto Melegnano non appare più nei documenti un vicus, come era qualificato nel secolo IX°, ma è definito con il nome di oppidum che significa uno spazio cinto da mura ed un centro urbano vero e proprio, fortificato; talvolta è chiamato anche borgo, che dà l’idea di un agglomerato urbano con servizi di mercato e di un certo commercio e che ha una zona periferica prevalentemente agricola.  Melegnano era, quindi, nella posizione di avvenuto sviluppo come piccolo centro che certamente superava i millecinquecento abitanti. Era ancora circondata da mura perimetrali di difesa, ed i documenti del 1400 ne lasciano traccia; ma probabilmente non si teneva più conto della difesa mediante le mura cittadine, ma tutto si concentrava, come fortezza, nel castello; per tale motivo il nostro paese è nominato anche con il nome di castrum Melegnani, fortezza melegnanese.  Grande importanza per l’economia e le finanze melegnanesi e del ducato erano i pedaggi. Il più noto era quello stabilito sul passaggio del ponte sul Lambro. In generale il pedaggio era una tassa che veniva corrisposta al momento del passaggio di persone, animali o merci su di una determinata strada, su di un confine, un ponte, un traghetto o altro luogo di transito sottoposto al controllo di un signore. Oggi sussiste ancora per certe strade private e autostrade.  Durante il dominio visconteo-sforzesco vigeva a Melegnano il pontaticum, il diritto di riscuotere una somma da chi passava sul ponte.  Quasi sempre era sotto il diretto controllo del duca o dei suoi più fidati amministratori della tesoreria; ma era dato in appalto contro il pagamento di denari sonanti. Abbiamo, per esempio, la notizia che il 7 gennaio 1467, il pontatico fu venduto a Giacomo Stefano Brivio per lire 4437: a lui era concessa la facoltà di esigere, percepire ed avere da chiunque transitasse sul ponte la tassa di 14 denari, nove per il cavallo e cinque per ogni singola persona.
Le esenzioni fiscali
Per questo periodo visconteo-sforzesco sono segnalate alcune esenzioni fiscali per Melegnano, concesse dal potere ducale milanese.  Il duca Gian Galeazzo Visconti emanò il 10 novembre 1385 un decreto diretto alla communitati universitati et hominibus burgi, et villae nostrorum de Melegnano. In pratica il duca usava termini giuridici antichi: comunità significava il popolo ed i magistrati come insieme di paese a cui appartenevano anche i contadini; università significava una entità collettiva ed anche l’intero corpo della collettività; homines era un termine piuttosto generico che equivaleva a persone. Comunque nel documento ducale sono termini ormai stemperati e servivano soltanto a ricalcare la comprensione totale dei Melegnanesi. Tra costoro erano compresi anche quelli che nel documento si dicono della villa nostrorum de Melegnano, probabilmente un nucleo di persone separate dall’abitato in edificio isolato che erano in stretti rapporti o di parentela o di sudditanza con il duca.  Il duca, quindi, fece a noi una gratiam specialem, così è nel documento. Cioè tolse le imposte che gravavano sui Melegnanesi: la donazione di foraggio e di biada ai cavalli del personale ducale; il tributo che ogni magistrato locale poteva imporre in forza della sua autorità; l’imposta sul diritto di fabbricazione; l’imposta sulle donazioni; le prestazioni personali di fatica o con soldi per il godimento di un bene.  Gian Galeazzo ordinava il rispetto rigoroso di tali esenzioni da parte dei responsabili dell’amministrazione comunale volendo che nullo modo molestare vel inquietare praesumant, cioè essi non dovevano infastidire o impensierire i Melegnanesi.  Nel 1406 il nuovo duca, Giovanni Maria, riconfermò il precedente privilegio, anch’egli per far prosperare il borgo di Melegnano.  Queste esenzioni, che erano anche dette immunità, furono riconfermate il 2 settembre 1412 dal duca Filippo Maria Visconti, a soli quattro mesi della sua nomina ducale. Egli si rivolge alla comunità, al ceto intellettuale, ai suoi famigliari in Melegnano, ai suoi dipendenti tutti quorum integerrimam et inconcussam fidem sumus multipliciter experti et experimur in dies, il duca cioè aveva sperimentato e sperimentava ogni giorno l’incrollabile integerrima fedeltà che era in Melegnano per lui.  Si rivolgeva pertanto agli assessori delle finanze, al referendario della corte ducale che aveva l’obbligo di riferire agli impiegati gli ordini del duca, al capitano di Melegnano che era il vicario ducale, agli esattori perchè‚ anch’essi osservassero e facessero osservare inviolabiliter et firmiter (con assoluta precisione e fermezza) il contenuto del decreto.  Passò una generazione, e nel mese di novembre 1463 la duchessa Bianca Maria, anch’ella riconoscente per la fide et devotione che non erano minori delle precedenti verso i duchi passati, confermò e convalidò le esenzioni così come si trovavano, ma aggiunse una ulteriore esenzione, quella detta ab imbotaturis, che era l’imposta che si doveva pagare per ogni botte di vino nuovo che veniva riempita dopo la pigiatura del periodo della vendemmia. Ella stese questo decreto nel castello di Melegnano.
I motivi delle esenzioni
Dal tono del testo delle esenzioni si potrebbe, a prima vista, dedurre che i nostri duchi e duchesse fossero sempre mossi da sentimenti buoni e generosi, paternalistici e liberali nei riguardi dei Melegnanesi. In realtà non è così dopo un’indagine critica sulla datazione dei decreti.  Infatti il primo decreto del 10 novembre 1385 emesso dal duca Gian Galeazzo Visconti è dello stesso anno tragico della morte violenta procurata dallo stesso duca al famigerato Bernabò Visconti, suo zio e suocero. Questa coincidenza non è casuale. Bernabò lasciò una trentina di figli, tra legittimi ed illegittimi che potevano essere i futuri temibili concorrenti; ma vi e un altro principale motivo: nel suo decreto si legge che l’esenzione valeva anche per quelli della villa dei nostri di Melegnano, quindi potevano esserci in Melegnano familiari o parenti o stretti conoscenti del duca ancora legati a Bernabò e con i quali Gian Galeazzo forse doveva fare i conti. La concessione delle esenzioni fu un atto di fine astuta politica opportunistica perchè‚ tale misura liberatoria delle imposte certamente sarebbe stata accettata dai Melegnanesi, e quindi direttamente i Melegnanesi di tutte le categorie (che nel documento sono specificate in communitas, universitas, homines) avrebbero automaticamente riconosciuto come legittimo il nuovo duca, uscito incolume dal clamoroso colpo di mano con cui si sbarazzò di Bernabò, facendolo aggredire e chiudendolo nel castello di Trezzo. La vittoria per il potere doveva dunque portare l’impronta del riconoscimento dei sudditi, gratificandoli nel settore economico e promettendo che Melegnano doveva crescere e stare bene con l’aumento delle persone e dei beni.  Il decreto ducale del 2 settembre 1412 è di Filippo Maria Visconti, salito al potere nello stesso anno dopo l’assassinio del duca Giovanni Maria, suo fratello, avvenuto il maggio 1412. Durante l’estate Filippo Maria fu salutato come duca e si sposò con Beatrice di Tenda, che gli portò una ricca eredità in soldi e in terre.  Filippo Maria saliva al potere dopo un decennio di disordini e di sbagli tali che avevano fatto franare la mirabile costruzione politica di un secolo faticoso. Ed il nuovo duca si propose di riedificare, con fierezza e costanza, un regno che fosse robusto e saldo. In questo contesto rientrano le concessioni fatte anche ai Melegnanesi.  Quanto alla disposizione fatta da Bianca Maria vi è la maggior probabilità di credere veramente alla benevolenza: riconfermò le esenzioni, alle quali aggiunse, come si è detto, l’esenzione dell’imposta chiamata imbotitura, che era l’imposta che si doveva pagare su ogni botte di vino che veniva riempita di nuovo dopo la pigiatura.  Il tono del testo è più disteso e più conciliante: non dimentichiamo che il documento è stato scritto nel castello di Melegnano (Datum in arce nostri Melegnani), nel cuore di un paese che, per altri versi, fu beneficato dalla duchessa.
Lo stato giuridico degli abitanti
Nel primo decreto, quello del 1385 si dice che devono essere esonerati incolas et habitatores, dal latino incola e habitàtor. Probabilmente vi era una differenza che indicava diversità di abitazione.  Incola sarebbe colui che stabiliva il domicilio a Melegnano, ma Melegnano non era il suo paese originario di nascita; habitator significherebbe invece colui che ha la sua residenza per nascita.  Ma già nel diritto romano antico questi due termini si trovano usati promiscuamente, per cui anche nel Medioevo si danno confondimenti di significato.  Nella società milanese nell’età precomunale, per esempio, habitator significava abitante che aveva la residenza, indipendentemente dalla nascita. Nel diritto romano antico la parola incola significava prevalentemente abitante stabilmente domiciliato nel luogo.  Stando al tenore del testo e considerando la logica successione di importanza, incolas sarebbero quei melegnanesi che sono fissi stabilmente con la residenza in paese, habitatores invece sarebbero coloro che vi abitano senza necessariamente avere una fissa dimora.  Però, siccome nel documento del 1385 questo binomio è usato due volte, certamente una differenza ci doveva essere, o davanti alla legge o in senso pratico di abitabilità stabile o provvisoria.
La matricola della lana
Nella prima metà del 1400 era attivissimo il mercato della lana a Milano, ed in modo particolare i mercanti di lana sottile.  Ed è noto che la lana fu promotrice della grandezza economica milanese e dell’Italia nel Medioevo. Già nel 1300 milanesi e lombardi sempre operavano in Francia, soprattutto per l’acquisto di lana, che era l’oggetto ancora preminente nell’attività mercantile; inoltre vi erano acquisti di lana tedesca, e Francesco Sforza concesse ai mercanti milanesi di lana sottile di poter fabbricare in Broletto una “camera” per le loro adunanze, accanto alla sede dei mercanti delle Fiandre.  Vi era a Milano la matricola dei mercanti di lana sottile, cioè un registro in cui erano elencati i mercanti, quando i mercanti di lana sottile si erano costituiti in società.  In tale matricola - o registro - sono segnalati anche due melegnanesi: Mirano di Melegnano, figlio di Guglielmo, e Francesco di Melegnano, figlio di Federico e nipote di Mirano, abitanti nella parrocchia di Sant’Ambrogio in Solayrollo. Essi entrarono a far parte della matricola, come ufficialmente mercanti riconosciuti, il giorno martedì 30 giugno 1422.  Purtroppo, verso gli anni 1440-1450 l’economia milanese, per i continui conflitti di Filippo Maria Visconti e l’instabilità del potere oscillante sulle armi di condottieri malfidati, era alquanto decaduta, specialmente nel settore dell’industria della lana e del ferro, una per la concorrenza fiorentina, l’altra per la perdita delle miniere bresciane passate ai Veneziani. Soltanto il commercio era fiorente e stava raggiungendo dimensioni europee. 
Traffico de gli ebrei in Melegnano
Ad integrare la complessità economica melegnanese, nel 1387 un decreto ducale del 5 novembre permise agli ebrei l’entrata nel territorio di Milano, con la facoltà di emettere prestiti e mutui in denaro, con il sistema dell’usura. Essi trafficavano a Milano, ma portavano i loro pegni in località più distanti da Milano: Monza, Abbiategrasso e Melegnano. Questi ebrei potranno vivere in Melegnano per oltre cento anni, quando verrà loro proibito la permanenza di oltre tre giorni nel nostro borgo.  L’esosità ebrea talvolta esasperava i Melegnanesi, come il giovedì santo del 1450 quando fu dato una specie di assalto notturno ad una casa ebrea che ha richiesto l’intervento del magistrato. Nel 1471 un ebreo, di nome Benedetto, si lego’ amichevolmente al castellano Galeazzo Beccaria che tenne il potere per circa dieci anni, richiamato più volte al dovere dal duca: egli era d’accordo con gli assessori comunali e con i medici del paese, i quali, però, dovevano ascoltare il parere dei padri di famiglia a nome di tutta la comunità melegnanese. Ma il castellano tirava dritto per i suoi affari con l’ebreo, fino all’intervento personale del duca del 28 febbraio 1482.  Tra la schiera degli ebrei accettati e prediletti dai duchi vi era anche un certo Bonomo de’ Melignano il quale è definito dilecto familiari nostro. Egli ebbe pure il passaporto ducale per andare dove voleva, con due compagni di viaggio, sia a piedi, sia a cavallo con i necessari arnesiis, valisiis, bulgis, fardellis. Il nostro melegnanese, quindi, era tra i più graditi al duca - Ludovico il Moro, che fra poco avremo modo di incontrare - il quale scriveva di Bonomo che era in nos ac in statum nostrurn singulari fide et devotione, che significa: questo uomo è di una fedeltà eccezionale e di una devozione rara verso di me e del mio Stato.
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