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Il marchesato dei Medici
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  Gian Giacomo Medici, detto il Medeghino, primo marchese 
Durante le complesse vicende politiche e militari dei primi decenni del 1500, divampava sul lago di Como una lotta di portata locale tra il ducato di Milano ed un suo ex capitano e condottiero, Gian Giacomo Medici, discendente della famiglia dei Medici Nosigia di Milano. Il terreno conteso comprendeva Lecco, Bellagio, Varenna, Bellano, Malgrate ed altri paesi e località sulle sponde del lago comasco. Gli anni della maggior tensione furono dopo il 1530.  Alla base della lotta stava la necessità di impedire a Gian Giacomo la supremazia autonoma staccata da Milano: egli non avrebbe dovuto formarsi uno stato indipendente.  Intanto Gian Giacomo Medici occupava paesi, invadeva le valli, percorreva da padrone il lago di Como ed il ramo del lago di Lecco, imponeva tasse, spaventava famiglie e persone, rubava quello che gli era necessario, aveva allestito una flotta assai temibile con un nucleo di soldati pronti a tutto.  A Milano il ducato era stato ridato nelle mani di Francesco Sforza II, mediante i patti della Pace di Bologna del 23 dicembre 1529.  Francesco Sforza prese il possesso del ducato il 23 febbraio dell’anno seguente, e si trovò a dover affrontare anche la questione del lago di Como.  I successi di Gian Giacomo si mutarono presto in sconfitte o in una serie di disastri: la morte del fratello a lui tanto caro, Gabriele; la perdita in battaglie di parecchi amici fidati; la progressiva mancanza di soldi; la resistenza delle famiglie potenti del lago; la privazione di nuove armi e munizioni. Ma soprattutto egli comprese che la rinnovellata amicizia del duca con la Spagna e con l’Impero lo metteva in condizioni di estrema inferiorità in ogni settore, e che presto sarebbe arrivata la sua rovina totale. Il Medeghino capì che la partita era perduta.  A nulla gli poteva valere l’amicizia dell’imperatore Carlo V e del governatore di Milano Antonio de Leyva il quale aveva a lui fatto una concessione regolare di terre attorno al lago di Como, con decreto del 15 aprile 1528.  In tali evidenti condizioni di inferiorità assoluta Gian Giacomo oppose il calcolo politico dell’astuzia. Mediante delegati e rappresentanti che agivano come intermediari, venne a trattative per capovolgere la situazione o almeno ottenere una soluzione non svantaggiosa, voleva anche liberare i due fratelli Giovanni Angelo e Giovanni Battista, che si trovavano come ostaggi nel castello di Milano.  Il fiero Gian Giacomo si arrese e per lui furono stabilite alcune condizioni: versamento, da parte del duca, di 35.000 scudi; assegnazione di un marchesato che potesse rendere mille scudi ogni anno; collocazione libera dei suoi soldati, armi e bagagli, a spese del duca, mentre gli attrezzi bellici sarebbero stati del duca, tranne il sale e le polveri; concessione dell’amnistia a Gian Giacomo ed ai suoi fratelli e seguaci con la remissione di ogni pena ed il perdono di ogni colpa; cibo assicurato per i suoi soldati durante il trasferimento, da parte del duca; restituzione dei prigionieri; abbandono delle fortezze di Lecco e di Musso che erano le roccaforti di Gian Giacomo.  Queste condizioni furono sottoscritte dal duca, dai commissari degli otto Cantoni svizzeri, dai segretari di Giovanni Angelo Medici, da Marino Caraccioli rappresentante di Carlo V e protonotaio apostolico, da Augusto Ferrerio, vescovo di Vercelli mediatore.  Gli stessi Caraccioli e Ferrerio suggerirono al duca di elevare Melegnano in marchesato perchè la rendita assicurava i mille scudi annui.  L’11 marzo 1532 il duca Francesco Sforza II investì Gian Giacomo come marchese di Melegnano. Il 5 maggio il Senato approvò l’investitura. Il giorno il giugno arrivò anche l’approvazione di Carlo V. Melegnano divenne marchesato sotto Casa Medici. Il castello, che era di Francesco Brivio, fu consegnato a Gian Giacomo con un contratto di pagamento per l’ottenuta proprietà della nostra fortezza. Comunque il castello fu proprietà dei Medici fino al 1981, quando fu venduto alla Provincia. La serie di tutti questi avvenimenti spiega perchè l’Amministrazione Comunale abbia intitolato una nostra via a Gian Giacomo Medici.
Il castello di Melegnano dopo l’arrivo dei Medici
Gian Giacomo morì l’anno 1555 in Milano; la sua salma fu trasportata nella chiesa di San Giovanni di Melegnano e sepolta nell’antica cappella della Concezione. Nel 1562 fu trasferita per volontà del fratello Giovanni Angelo, diventato papa, nella cappella dell’Assunta del duomo di Milano dove si trova tuttora.  Il diritto al marchesato era del fratello Giovanni Angelo, ma questi rifiutò e il nuovo marchese fu un altro fratello di nome Augusto o Agosto, sposato a Barbara del Maino, figlia di Gaspare, membro di una potente famiglia politica lombarda. Con Augusto iniziava la lunga serie dei nostri marchesi fino ai tempi presenti, come è stato descritto su un nostro libro dal titolo Il Castello di Melegnano - la storia e l’arte, edito nel 1977.  Una sorella dei primi marchesi, Margherita, andò sposa a Gilberto Borromeo, signore di Arona. Da loro nacquero due maschi e cinque femmine. Uno dei figli fu Carlo Borromeo, che diventerà arcivescovo e cardinale di Milano.  Durante la narrazione della storia di Melegnano, nelle pagine e nei capitoli seguenti fino all’età contemporanea nostra, riporteremo anche i rapporti tra i marchesi Medici e gli eventi che interessano la nostra città. Qui, ora, ci soffermiamo a descrivere il castello, almeno nelle sue parti essenziali o più importanti, perchè fu con l’arrivo dei Medici che l’interno del castello si arricchì di affreschi.  Tutti gli elementi architettonici sono presenti nella tipica costruzione: la fossa dell’acqua; il segno del ponte levatoio grande e piccolo; il portone d’ingresso; la scalinata costruita con la tecnica a scaglioni forse per permettere la salita con i cavalli; il cortile interno; le due torri di difesa e di osservazione; i porticati interni. Comunque oggi i lati del castello sono tre: la facciata, il laterale lungo, il laterale breve.  Nella facciata sono ben visibili gli interventi delle diverse epoche, aperture e chiusure di finestre, riduzioni ed ampliamenti.  Passando sotto il portone di ingresso, a sinistra si sviluppano i porticati con le attuali abitazioni o ex magazzini e antiche stalle.  Sulla destra sta un cortiletto: lì erano le prigioni ed altre abitazioni.  Di fronte si apre la vastità del giardino che circonda in buona parte il castello. Salendo sullo scalone ci troviamo davanti all’abitazione del custode. Poi salendo ancora entriamo nella sala dell’imperatore, lunga metri 20 e larga 7,30. E’ detta sala dell’Imperatore perchè sono affrescate città tedesche che furono interessate agli avvenimenti politici, militari e religiosi al tempo dell’imperatore Carlo V, cioè nella prima metà del 1500. L’imperatore tenne sempre buoni rapporti con Gian Giacomo Medici, che era capitano del suo esercito anche in quelle città.  Questo salone vi appare sfigurato dalle troppe azioni di vandalismo perpetrate da villani negli ultimi decenni. Segni di chiodi, buche scavate e poi cementate, graffiti indecorosi e malversazioni. Le pareti, che sono dipinte di finto muro, distinto da lesene, da sezioni di finto marmo a diversi colori, con grosse mensole pitturate in prospettiva, con una stretta architrave che sorregge i dodici tabernacoli dove stanno le donne seminude, furono attaccate da carpentieri per feste della befana, da apparatori per feste da ballo, da falegnami per impiantare un teatro dei burattini, da gente di ogni genere che ottenevano il permesso di poter svolgere le loro manifestazioni, sconciando le superfici affrescate. Non si sono salvate neppure le città dipinte in alto, e neppure le cosiddette donne seminude, simbolo delle Virtù e delle Arti.  Per spiegare il significato delle pitture in alto, partiamo guardando il camino che sta al centro della parete, ed osserviamo seguendo il senso delle lancette dell’orologio.  La città di Worms a destra del camino e due figure femminili: la Fortezza con una colonna ed un oggetto non identificabile, e la Fede che ha una croce, un ostensorio, un panno candido, un libro ai piedi.  Incomincia la parete piccola dove c’è la città di Colonia, la Giustizia con la spada e la bilancia, la Temperanza che versa l’acqua da un recipiente ad un altro.  Ora ecco la parete grande, quella delle finestre sul cortile. Le tre città sono rispettivamente Erfurt, Fulda, Francoforte, e le figure femminili si susseguono così: la Pace che tiene la cornucopia, simbolo dell’abbondanza; la Speranza che medita davanti ad un vaso; la Grammatica che abbraccia due bambini; la Caccia nella figura di Diana cacciatrice con arco e frecce.  Ecco ora la parete piccola, quella dell’entrata dalle scale. Si osserva la città di Basilea, tra la Medicina rappresentata da una donna seduta che si toglie la spina dal piede e la Carità che allatta un bambino.  Ora incomincia la parete, ed è la parte sinistra del camino, dove si vede la città di Spira, la Musica raffigurata con l’arpa, e la Prudenza con uno specchio per guardarsi alle spalle, un compasso e un libro delle Scritture.  E’ chiaro che questi affreschi manifestano uno spiccato simbolismo ed una volontà di ricordi e di celebrazioni storico commemorative. Il pittore - oppure i vari pittori - si ispirarono alle illustrazioni in xilografia della Cosmographia di Sebastian Munster, pubblicata nel 1544 e che ebbe una larga fama e diverse edizioni immediatamente successive. Tuttavia le città affrescate furono protagoniste, nella prima metà del 1500 ed oltre, di assemblee, scontri, proteste, trattati, convegni vari nell’ambito delle relazioni politiche e diplomatiche, religiose e militari che coinvolsero Carlo V ed i suoi capitani e uomini di fiducia, tra i quali vi era anche il nostro Gian Giacomo Medici.  Quanto alle Virtù ed alle Arti, simboleggiate nelle figure femminili, quasi tutte “santificate” da un angioletto che le incorona,
l’ispirazione ai pittori venne da una lunga tradizione che è rappresentata da grossi nomi nel campo dell’arte figurativa, ma che ha alle radici la cultura greca: Eirene, dea della pace era rappresentata con il corno dell’abbondanza già in tempi classici; così pure la Prudenza aveva nelle mani un serpente ed uno specchio nell’iconografia paleocristiana; la Fede di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova tiene nelle mani una Croce ed una scrittura; la Carità di
Pietro del Pollaiolo è una donna che allatta un bambino, e famosa e la Carità di Raffaello come particolare della predella della Deposizione nella Pinacoteca Vaticana rappresentante una donna che allatta i bambini.  Una fonte molto importante, che sta nella metà del 1500, è la pittura di Giorgio Vasari. Egli ha pitturato una numerosissima serie di “Virtù” con tutti gli attributi che ritroviamo nel castello di Melegnano, talvolta con qualche piccolo cambiamento (la donna con la cornucopia non è per lui la Pace, ma la Felicità).  La tradizione, tuttavia, continua anche dopo i nostri affreschi: basti pensare che il pittore Jean-Baptiste Simeon Chardin dipinge la Natura morta con gli attributi delle Arti, olio su tela che misura cm. 112 per 140,5, dipinto per l’Accademia di Belle Arti di Pietroburgo nel 1766, ora nell’Ermitage, dove si vede come simbolo della medicina un uomo che si toglie la spina dal piede.  Del resto l’arte italiana e straniera è piena di questi simboli, ripetuti sulle tombe, sui monumenti, sulle facciate delle chiese e dei palazzi, sulle entrate degli edifici e sugli archi trionfali: un nome vale per tutti, il già citato Raffaello Sanzio che nella Pala Baglioni dipinge la Speranza che guarda in alto, la Carità che è una donna con bambini, la Fede che è una donna con il calice e l’ostia.
La sala degli Dei o biblioteca
Dal salone dell’Imperatore si accede da due porte di sinistra alla Sala degli Dei, dove oggi si trova la biblioteca civica popolare fondata nel 1969, a cura del Comitato Fiera del Perdono, nell’ambito delle celebrazioni per il Decennio di Melegnano città.  Dopo due piccole sale ecco il luogo che doveva essere la sala da pranzo per le occasioni speciali e solenni dei marchesi.  Questa sala misura metri 8,80 per 8,10.  Degni di rilievo sono gli affreschi in alto che descrivono le divinità dell’Olimpo classico. Si osservi, per orientarsi, l’affresco di Giano bifronte, sopra un carro dal lungo timone: siamo nel Lazio, ai piedi del colle Gianicolo, in un clima freddo e nevoso.  Giano era il dio italico la cui festa si celebrava il 9 gennaio, e dal suo nome venne il mese ianuarius. Nell’affresco il dio Giano è seduto, con due volti, con la chiave (custode della porta di casa) che era la sua insegna; dietro a lui in piedi è il dio Saturno con la falce che è la sua caratteristica perchè Saturno era il dio-re dei raccolti abbondanti. Un fanciullo sta seduto a metà carro e sta mangiando e bevendo, in ricordo delle feste di Giano, quando si mangiavano focacce con abbondanti bevute di vino entro grosse anfore.  Il quadro di destra, parzialmente rovinato, mostra un cavallo che traina il carro con attorno personaggi femminili: una donna totalmente nascosta dalla striscia di calce, un bambino, un personaggio in atto di scrutare, ed alcuni animali. La scena raffigura la dea italica Giunone cui era sacro il corvo (visibile in parte nell’affresco) ed era chiama Iter duca, ossia colei che guidava gli sposi. A lei era caro il bosco di cornioli di cui si vede una pianta a destra dell’affresco. Aveva il soprannome di Curitis che si collegava con il vecchio vocabolo sabino giavellotto o picca per infilzare animali nocivi e grossi rospi.  Nella parte rivolta verso la piazza gli affreschi descrivono il tema della festa di Bacco, dio del vino, dove si osserva Bacco con il corimbo, il vecchio beone Sileno sull’asinello e le fanciulle che, nella festa di Bacco, portavano corone di fiori in testa.  Nella parete di centro sopra il camino ecco altri tre affreschi: il dio Marte, suprema divinità della guerra che abbraccia e che bacia Venere, la dea dell’amore (nella mitologia classica greco-romana il tema degli amori tra Marte e Venere è famoso). Al dio Marte si sacrificavano i cani, mentre Venere aveva i cigni (tali animali sono presenti nell’affresco). La Fama con la sua tromba divulga la notizia che il dio della guerra si accorda con la dea dell’amore.  L’affresco centrale rappresenta Afrodite (Venere) che è tra le più famose divinità. La dea dell’amore è mollemente seduta su un aureo carro con trono. In alto il piccolo Eros, dio dell’amore, si presenta alato con l’arco e la freccia in atto di scoccare. Un satiro ed un’ancella accompagnano la scena.
Il terzo affresco centrale mostra il dio Mercurio. Ha in mano il caduceo, simbolo del potere magico; in testa porta il petaso (largo cappello rotondo dei viaggiatori greci). Mercurio era considerato il protettore dei viaggi, messaggero degli dei, intermediario fra la terra e il cielo. La scena completa dell’affresco allude al furto delle mandrie di Admeto che erano state affidate in custodia ad Apollo, il quale però si calmò e regalò a Mercurio la sua verga d’oro, cioè il caduceo, simbolo dell’eloquenza e degli araldi.  Nella parete che segue a destra vi sono altri tre affreschi; il primo rappresenta il re Nettuno con il tridente, Trittolemo che reca le spighe agli uomini, Demetra, la dea dell’agricoltura e Persefone sua figlia, la dea della vegetazione. Forse nella figura di Trittolemo è da vedere uno dei Medici per la fisionomia del volto che ricalca i lineamenti dei nostri marchesi.  L’affresco centrale rappresenta il trionfo di Cerere, la dea dei cereali e dei raccolti. L’affresco che segue raffigura Apollo citaredo, dio del sole, legato al fenomeno oracolistico. La donna seduta è Deifobe, il nome della famosa Sibilla cumana, che dava responsi sul futuro e sul passato, ispirandosi al dio Apollo.  Ancora a destra ecco l’affresco della personificazione di Asteria, che rappresentava la notte. Essa fu amata da Giove che è nelle vesti del personaggio di sinistra. Ma la fanciulla venne in odio a Giove, e da lui fu trasformata in quaglia: la sua isola fu detta isola delle quaglie.  Occorre notare, in questi affreschi, gli sfondi naturalistici, i paesaggi, alcuni veristici, altri simbolici, altri verosimili; dove la campagna, i monti, le pianure, i villaggi, i cieli, gli alberi, i fiori, ricompongono e legano in un’atmosfera tra umana e divina le scene mitologiche.  Sono chiari i temi ricorrenti: la vita libera e gaudente, bella e priva di ogni pesante preoccupazione; i personaggi divini agiscono in un’atmosfera di affettuoso idillio e tra loro rappacificati nel clima sereno del bel vivere. Manifesti sono i temi dell’amore, della festosità, della fecondità, dell’allegria, della beatitudine. E il quadro che tutto potrebbe riassumere è il Trionfo di Venere, quello che sta sopra il camino: un tema assai sviluppato nella letteratura e nelle arti figurative.  I significati di questi affreschi non sono stati scelti a caso.  Due direttive hanno guidato il ciclo pittorico: il ricupero della mitologia greca e romana come materiale già pronto e organizzato, nell’ambito dell’indirizzo dell’estetica dell’imitazione dei classici propria del Rinascimento italiano (questi affreschi sono la trasposizione pittorica delle descrizioni mitologiche del poeta Ovidio e di ben note leggende classiche); e l’ambizione di gareggiare o almeno di allinearsi con le grandi corti italiane, centri dell’arte e della cultura oltre che della politica, creando, entro il castello, ambienti e situazioni che erano la sostanza delle dimore dei più famosi signori italiani del 1400 e del 1500.
Il salone delle Battaglie
Dopo il salone dell’Imperatore si entra nel salone delle Battaglie, detto così perchè i nove affreschi che vi sono dipinti nella parte superiore ricordano le imprese avventurose, le battaglie, gli atti di pirateria di Gian Giacomo Medici sul lago di Como ed in altre località prima che fosse nostro marchese.  Entro un’architettura pitturata, con zoccolo ricco di armature, colonne ed architrave, si impostano gli affreschi. Sopra la porta verso il terzo salone, a destra del grande camino è la scena dell’arrivo al castello di Musso, conquistato in nome del duca Francesco Sforza Il. Il castello si eleva sul ciglio di uno scosceso promontorio. La torre in mezzo stava dai tempi antichi e forse costruita dai Longobardi.  Qui Gian Giacomo si fortificò. Qui raccolse il suo piccolo esercito.  Qui visse con i suoi familiari quasi per dieci anni. La scena è ben descritta: Gian Giacomo vi giunse con il fratello Gabriele e con il suo seguito di fedelissimi, con lo stendardo a strisce bianche ed oscure. Nel castello intanto vi si nota molta agitazione. In alto, nel cielo, vi è il simbolo della vittoria già assicurata: un falcone ghermisce al volo un altro uccello.  A sinistra del camino si rappresenta la conquista del paese di Morbegno; l’azione era nel contesto della volontà di Gian Giacomo di occupare tutta la Valtellina. Ma l’occupazione fu di breve durata.  La presa di Morbegno suscitò una vasta eco in tutta la Valtellina e mise in pensiero il duca di Milano.  Si osservi ora la parete che guarda verso la piazza, in fondo al salone, avendo alla nostra destra il camino. Gli affreschi sono due.  L’affresco di sinistra ricorda la lotta che Gian Giacomo dovette sostenere contro i Grigioni (gli Svizzeri con capitale Coira); si nota la scogliera ripida con un sentiero scavato nel sasso. Sul lago in primo piano vi è un porticciolo. Gian Giacomo affondò le loro barche.  Arrivò sul monte attraverso sentieri conosciuti solo alla capre, e rotolò giù i cannoni degli avversari.  L’altro affresco della stessa parete, quello che è a destra, rappresenta un episodio della guerra di Musso, nell’ambito della generale riconquista milanese contro la Francia. Tale affresco è simile a quello che sta sulla parete dirimpetto al camino sulla porta di entrata dal primo al secondo salone.  Si guardi ora la grande parete, quella dirimpetto al camino e che ha tre affreschi. Il primo rappresenta uno scontro navale durante la guerra di Musso, come abbiamo già detto. Nella parte inferiore è visibile il castello di Musso con tutte le sue fortificazioni.  Sul promontorio spicca la fortezza che domina sulla vista gran parte del lago. Qui si radunava la flotta di Gian Giacomo: sette navi con tre vele e quarantotto remi, munite di bombarde, e moltissime altre barche più leggere. Per sè, come nave ammiraglia, teneva riservato un brigantino di vasta capacità, con i migliori rematori. Su tale brigantino sventolava lo stendardo con le palle d’oro in campo rosso e con il motto: Salva Domine Vigilantes, salva, Signore, quelli che vigilano.  L’affresco di centro rappresenta l’assedio e la presa di Lecco, nel completamento della conquista totale dei luoghi sul lago di Como.  Proprio a Lecco Gian Giacomo si vide abbandonato dal duca di Milano ed allora pensò di affiancarsi ai suoi nemici: l’impresa fu ritenuta importante e come tale sta al centro della parete. Dopo la presa di Lecco per conto suo e non più del duca di Milano, Gian Giacomo coniò proprie monete per dimostrare interamente ai Lecchesi il diritto alla sua sovranità. Comunque l’affresco è una bella veduta della Lecco cinquecentesca.  L’affresco di destra rappresenta la conquista del castello di Monguzzo, dove Gian Giacomo pose il suo fratello Giovanni Battista per controllare i lavori dei contadini e per assicurare i rifornimenti nei casi più necessari.  Nella parete minore, quella che guarda verso l’interno del castello, vi sono due affreschi. Uno è simile a quello di sinistra della parete di fronte; l’altro, quello che sta a destra della parete, sul finestrone, rappresenta una delle diverse battaglie navali che avvenne a Menaggio, mentre il Medici alla fine era inseguito da tutte le parti.  Questa battaglia segnò la parabola discendente del Medici.  L’affresco superiore al camino raffigura, pur nella sua condizione rovinosa, l’officina di Vulcano, antichissimo dio del fuoco e dei metalli, ed anche del focolare domestico. L’ispirazione per questi affreschi venne certamente dai racconti diretti dei marchesi stessi.
Il salone di Ercole
Si entra nel terzo salone, detto di Ercole, perchè‚ in alto sono raffigurate molte fasi e vicende della vita dell’eroe mitico Ercole. Il salone è lungo metri 14,40 e largo 7,30, ed era un passaggio piuttosto che di permanenza.  I 18 affreschi narrano la vita di Ercole, l’eroe nazionale greco, colui che personificava la vigoria e la robustezza fisica, due doti che erano unite a generosità ed altruismo, offuscate però a tratti da impeti violentissimi di ira.  Entrando dalla porta fissiamo lo sguardo sulla lunga parete che sta alla nostra destra e vediamo: Ercole allattato da una dama; il mito di lole, di Eurito, di Ifilo e la lite con Apollo; Ercole uccide il mostro marino che stava per divorare Esione, figlia di Laomedonte, re di Troia; l’uccisione del centauro Nesso che si offrì di portare Deianira, moglie di Ercole, ma che tentò di rapirla; la lotta con il leone di Nemea, una mostruosa belva che terrorizzava; l’incendio del bosco per bruciare le teste dell’Idra, e con il sangue bagna le frecce che daranno ferite inguaribili.  Sulla parete di fondo, iniziando da destra in continuità a quanto visto finora: l’uccisione dell’idra di Lerna con Iolao, l’Idra era un serpente con tante teste che rinascevano dopo essere state tagliate; l’uccisione di Orto, un cane mostruoso bicipite che custodiva le mandrie di Gerione, anche Gerione fu ucciso perchè si potesse rubare il patrimonio zootecnico; l’ultimo affresco nell’angolo a sinistra e illeggibile.  Sulla lunga parete che continua vi è l’uccisione di Anteo, un gigante che voleva costruire un tempio fatto di crani umani.  Ercole lo potè uccidere sollevandolo da terra, perchè la terra era sua madre e quindi riprendeva forza ogni volta che toccava il suolo; Ercole porta le colonne, dette nella cultura antica “le colonne d’Ercole” che erano lo stretto di Gibilterra; Ercole dà sepoltura al corpo di Icaro sulla riva del mare; Ercole appena nato strozza i serpenti mandati dalla moglie di Zeus verso la culla per uccidere il bambino, nato dagli amori extraconiugali di Giove; Ercole sta mettendo la camicia di Nesso che gli darà una morte straziante; Ercole è sottratto da una divinità all’ira di Giunone, moglie di Giove, sua implacabile nemica.  Nella parete che segue ecco Ercole che prende a sassate una lupa; la scena della lotta per la cintura di Ippolita, regina delle Amazzoni: Ercole si recò da lei per rapirla, essendo una cintura bellissima e riccamente ornata; quindi vi è un ulteriore episodio di Ercole bambino.  Questi episodi sono ben noti alla mitologia greca e romana e si ispirano a tante fonti letterarie. Qui vi sono gli echi degli scritti di Omero (Iliade, VIII), Esiodo (Scudo di Eracle), Pisandro di Rodi (Eracleia), Pindaro (Prima Nemea), Apollodoro (Prima biblioteca), Bacchilide e Stesicoro (Odi e racconti di gesta), Paniasi di Alicarnasso (Eracleia), Sofocle (Le Trachinie), Euripide (Eracle), Prodigo (Ercole al bivio), Teocrito (Idilli: Ercole fanciullo), Plauto (Anfitrione), Ovidio (Metamorfosi, IX), Orazio (0di III/III, Epodi, II/I), Seneca (Ercole furente), Virgilio (Eneide, VI), Stazio (Tebaide, V, VIII, XI), Apuleio (Metamorfosi, III).  Il ciclo pittorico di Ercole è nella tradizione artistica già sviluppata anche da scrittori italiani, come Dante, Cieco da Ferrara, Ariosto, Giraldi.  Noi non sappiamo chi sia l’autore di questi affreschi. E ci sfuggono anche i motivi che indussero i marchesi Medici alla scelta di tale soggetto erculeo: probabilmente per riecheggiare le dure imprese e la vita avventurosa dei primi marchesi.
La sala degli Argonauti
Da questo salone entriamo nella sala degli Argonauti. Forse rappresentava lo studio del marchese ed il luogo degli incontri riservati, dove il marchese riceveva gli amici più intimi.  Vi si narra il mito famoso degli Argonauti, principi e re partiti con Giasone per andare nella Colchide sul Mar Nero alla conquista del vello d’oro (si diceva, infatti, che in quelle zone le pecore e gli agnelli avessero non la lana, ma fili sottilissimi d’oro). Ma il mito simboleggiava la storia dell’avanzata lenta e continua dei Greci lungo le coste del Mar Nero. Questi affreschi risalgono certamente ad un periodo successivo al 1565, anno in cui apparvero libri che riproducevano queste scene tali e quali, naturalmente in forma ridottissima sulla pagina, nella tecnica della xilografia.  Entrati nella sala osserviamo gli affreschi sopra la porta da cui siamo entrati e troveremo la raffigurazione del raduno degli Argonauti che arrivano da tutte le parti (la mitologia ci dice anche i nomi: Anceo, Anfiarao, Castore e Polluce, Achione, Meleagro, Telamone, Zete, Calai, Ercole, Orfeo, Mopso).  Nel secondo affresco la nave Argo è pronta per la partenza con il favore dei venti che soffiano favorevolmente.  Nella parete del camino l’affresco di sinistra mostra l’incontro degli Argonauti con il re Fineo che non poteva più mangiare perchè uccelli sozzi, detti Arpie, gli sporcavano il cibo: Giasone libera Fineo dalle Arpie; l’eroe Giasone è ben visibile tra gli altri perchè porta un abito guerriero di color giallo, così come si ripeterà negli altri affreschi.  Nell’affresco di destra vi è la sintesi del mito di Medea, la maga che si innamorerà di Giasone. Medea è una figura femminile molto discussa nella mitologia antica. In questo affresco sono radunati molti fatti della sua vita: noi qui li riassumiamo in una nostra narrazione che rispecchia i particolari dell’affresco in questione. In alto cammina sul carro notturno la Luna; Medea in ginocchio fa una preghiera mentre si prepara a ringiovanire il padre di Giasone che sta disteso su un cavalletto davanti a lei. Riesce a far atterrare il carro notturno e vi monta su, palpando le teste dei draghi e scuotendo le briglie leggere, andando verso regioni dove crescono erbe incantate contenenti succhi per filtri magici. Poi ritorna; nel vaso bollente ficca rami secchi ed erbe. Quindi brandisce la spada, squarcia la gola al vecchio e lascia uscire il sangue senile mentre riempie le vene con il liquido della pentola che bolle: sparisce la macilenza del vecchio e lo squallore, la pelle non è più avvizzita, le rughe si riempiono di carne fresca e tutte le membra lussureggiano.  I due affreschi sulla parete sopra le finestre rappresentano, a sinistra, l’arrivo di Giasone e compagni presso il re della Colchide, Eèta, padre di Medea: gli Argonauti gli chiedono il vello d’oro, ma il re vuole prima sottoporre Giasone a difficili e terribili prove.  L’affresco di destra raffigura Medea che si reca al tempio di Ecate, mentre ormai ferve di amore e di passione per Giasone.  I due affreschi sopra la parete seguente sono tra i più significativi del mito. Il primo, quello sopra la porta, presenta le prove che deve affrontare Giasone: egli dovrà arare un campo con un aratro trainato da tori spiranti fuoco, che nell’affresco si vedono in alto e sullo sfondo; e, quando avrà arato, dovrà seminare denti di drago da cui nasceranno guerrieri pronti ad uccidere, e l’affresco mostra precisamente il momento in cui stanno spuntando dalla terra seminata i guerrieri. Ma Giasone, per evitare che tali guerrieri si rivoltino contro di lui, lancia in mezzo a loro le sue armi, ed essi, per averne possesso, si ammazzano tra loro.  L’ultimo affresco raffigura la presa del vello d’oro. Giasone, cosparso di un unguento datogli da Medea, avendo assopito il drago custode, si impadronisce del vello d’oro. L’impresa è compiuta.  Anche questi affreschi sono sostenuti da un’architettura dipinta. Gli affreschi sono intercalati da figure femminili ornamentali (cariatidi) e da membrature decorative di sostegno con figura maschile (talamoni) che nel volto hanno talora una maschera, anche di sembiante straniero indio-americano.
La sala degli Stemmi
Dopo la sala degli Argonauti ora ci inoltriamo nella sala degli Stemmi, detta così perchè nella parte superiore delle quattro pareti sono dipinti sedici stemmi di importanti famiglie nobili, alcune imparentate con i Medici, altre amiche.  Esisteva nel castello una piccola chiesa, dedicata alla Madonna Assunta, un semplice oratorio, luogo per il servizio interno degli abitanti del castello. Col tempo questa cappella fu abbattuta e fu adattata a cappellina la sala degli Stemmi, che divenne la cappella di corte. Sulla porta di entrata, dalla parte del salone di Ercole si legge a malapena l’iscrizione: Non homini sed Deo (Non per gli uomini ma per il Signore).  Questa sala, apparentemente meno bella delle altre, irregolare, è invece la chiara e diretta documentazione pittorica degli sviluppi e delle fortune, dei comportamenti e delle ambizioni della famiglia Medici, specialmente nel periodo degli inizi della sua fama italiana ed europea.  Politica e religione, diplomazia e amori, spregiudicati intrighi e nobili sentimenti, conquiste vittoriose e sconfitte umilianti, crudeli vessazioni e generosi altruismi: questi stemmi affermano e commemorano i tempi in cui vissero ed agirono i protagonisti della storia lombarda.  La collocazione affrescale di questi stemmi fu la cornice della cappella di corte, dopo l’abbattimento del piccolo oratorio già esistente nella seconda metà del 1500, come simbolo della sacralità e della fedeltà.  Gli stemmi si sviluppano sopra la dipinta architettura che ha la preoccupazione di creare una certa prospettiva. Essi stessi sono tra loro separati da puttini che li reggono come decorazione e come simbolo di buon augurio per i tempi futuri.  La descrizione degli stemmi inizia, in questa sala, dalla parete che sta sopra l’ingresso, la parete cioè che confina con la sala degli Argonauti, avendo alla sua destra le finestre che guardano verso la piazza.  L’ordine, dunque, degli stemmi affrescati, rappresentanti le famiglie sono: Visconti Morone, Sforza, Calvi; sull’altra parete, proseguendo, vi sono Balsamo, Castaldi, del Maino, Crivelli; continuando sull’altra parete ecco Altemps, Medici, Gonzaga, Serbelloni; sull’ultima parete vi sono Borromeo, Medici, Orsini di Pitigliano, Rainoldi.
Gli affreschi dell’ala orientale del castello
Dal cortile del castello si accede, mediante una scala, alle stanze private. L’ingresso e tutte le pareti delle scale sono affrescate con scenette mitologiche, con paesaggi, con decorazioni che danno un senso di gioia spontanea, di netta visione della vita allegra e serena.  Tutto il lato orientale, lungo 77 metri e largo 15, fu trasformato ad uso di abitazione quando i Medici non abitarono più nel loro castello, ed il tutto fu suddiviso in 25 stanze che ospitavano, fino a poco tempo fa, sei famiglie.  Salendo per le scale, nel soffitto delle volte, si trova lo stemma del cardinale Angelo Medici, il futuro papa Pio IV. Salendo ancora si trova il mito di Fetonte che guida il carro del sole, in una posizione pittorica non troppo visibile.  Ai termine dell’atrio e delle scale, prima di entrare nelle stanze, si osservano affreschi simbolici: dalla parte sinistra il dio Marte in trono, il protettore mitico di Firenze, una città ideale che sta raffigurata alle spalle, giudice della pace e della guerra; difatti una donna a sinistra ha nelle mani il ventilabro, che era l’arnese rustico con cui si spargevano al vento le biade per separarne la crusca, simbolo del lavoro dei campi e delle opere di pace; a destra del dio sta il guerriero con donne agitate come simbolo della conseguenza della guerra.  Ai lati vi sono gli stemmi della famiglia Borromeo (Margherita Medici fu la moglie di Gilberto Borromeo e madre di San Carlo); l’altro stemma è la sintesi nobiliare di Gian Giacomo Medici (le sei palle e l’aquila) sposato a Marzia Orsini di Pitigliano (parte destra dello stemma).  Dirimpetto vi è l’affresco del rapimento di Ganimede: l’aquila di Giove rapisce Ganimede un giovane cacciatore della Frigia; Giove lo fece rapire perchè fu colpito dalla sua bellezza fisica. In cielo Ganimede divenne coppiere degli dei.  I due affreschi - regno di Marte e rapimento di Ganimede - segnano l’origine e la conclusione della parabola dei Medici.  L’inizio del ceppo familiare dei Medici si perde nei tempi mitici, imparentato con il dio Marte. Al termine dell’itinerario ecco la glorificazione della stirpe. Naturalmente siamo qui sul terreno della mitologia simbolica e non del tutto sulla storia documentata, anche se qui sono evidenti le due strade percorse da due fratelli: Giovanni Giacomo capitano di ventura e poi marchese; Giovanni Angelo, ecclesiastico, poi vescovo, poi papa: due diverse strade, due versanti, due destini, provenienti da un’antichissima origine ed arrivati in un terminale associato nella gloria della celebrità immortale dell’Olimpo mitico.  Ai lati di Ganimede vi sono dipinti, a sinistra, lo stemma di Augusto Medici, secondo Marchese, sposo di Barbara del Maino; a destra lo stemma della famiglia di Volfango Teodorico Hohenems (italianizzato in Altemps) sposo di Clara Medici; tale famiglia nobiliare aveva come stemma un caprone rampante.  In alto vi è l’affresco rappresentante il brigantino di Gian Giacomo con il suo motto personale “Salva nos vigilantes” in ricordo delle imprese del lago di Como. Simbolicamente l’affresco rappresenta anche l’arrivo in porto dopo le diverse vicissitudini abbastanza travagliate.  L’affresco di fronte in alto raffigura la glorificazione del valore, con la scritta “Non frangitur pondere virtus” (il peso non spezza la virtù), e tutto il disegno è la spiegazione figurativa di questo motto.  Nella parete di centro, che sta dirimpetto alla finestra, sopra la porta, vi è lo stemma del cardinale Giovanni Angelo, futuro papa Pio IV, fratello del primo marchese Gian Giacomo. 
Gli affreschi delle stanze
Non sono troppo visibili ancora. Comunque qui si accennano per completezza di descrizione. Una serie di affreschi è in una stanza relativamente piccola, dove è descritto il viaggio di Enea dopo la distruzione di Troia: sono undici affreschi, in buon stato di conservazione.  Seguendo il senso delle lancette dell’orologio, partiamo dall’affresco che porta la frase latina: “Post tot discrimina rerum” (dopo molte pericolose avventure) si vedono Venere che parla ad Enea, la dea vicino al pavone e che sta parlando con un giovane; il re Eolo, signore dei venti sta eseguendo un ordine di Giunone; Venere invoca Giove; Venere ritorna a Pafo; Enea raduna gli uomini; la profezia di Eleno; Enea ed Acate suo amico ammirano le sculture della nuova città di Cartagine; Didone ascolta i compagni di Enea; Enea ed Acate sono accolti da Didone e dalla sorella Anna; il banchetto offerto dalla regina; il musico Iopa che suona la cetra.  Questi affreschi si ispirano al racconto virgiliano dell’Eneide ed in modo particolare al secondo canto del poema.
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