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L'epoca spagnola
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La Spagna nel Milanese

Rapporti tra i marchesi Medici ed il governo spagnolo

La politica finanziaria

La questione della finanza melegnanese

I dissidi economici e politici tra Melegnanesi

La nuova costituzione melegnanese

La seconda guerra del Monferrato e le nuove invasioni
 
 
 


 
 
 
 


 
 
 
 


 
 
 
 
 


 
 
 
 
 


 
 
 
 
 


 
 
 
 
 


 
 
 
 
 


 
 
 
 


 
 
 
 
 


 
 
 
 
 

La Spagna nel Milanese
Dalla metà del 1500 al 1600 avvenne, per la Lombardia, la completa soggezione alla Spagna che si prolungherà per tutto il secolo 1600 fino alle soglie del 1700. Carlo V, il quale aveva tenuto costantemente sotto tutela l’ultimo degli Sforza, sorvegliava la situazione interna, amministrativa e finanziaria, del ducato di Milano, così che quando nell’ottobre 1535 l’ultimo degli Sforza si ammalò, il governatore spagnolo in Milano, De Leyva, ebbe un compito ben preciso: occupare tutte le fortezze del ducato e le città, mantenere l’ordine e far prestare giuramento da tutti all’imperatore.  La Francia, dopo ripetuti tentativi di ricuperare il Milanese, con deboli vittorie e con sconfitte, comprese che la partita per la Lombardia era del tutto perduta, e Milano fu ormai un dominio spagnolo incontrastato, con un Senato che aveva compiti amministrativi e giudiziari; l’Ufficio Camerale per amministrare tutti i beni dello Stato; un Consiglio Segreto ed una Congregazione dello Stato. Alla testa era un governatore spagnolo.  A questi organi governativi si affiancava l’organizzazione della Chiesa Milanese, che aveva una sua autonomia, un suo stile pastorale, una sua amministrazione e uomini di forte tempra culturale ed accessibili a tutti gli uffici. Gli uomini di governo spagnolo avrebbero sempre dovuto fare i conti con gli uomini della Chiesa, anche se nel suo interno la Chiesa si trovava ad avere settori di decadenza e di scandalo.  Vi erano, comunque, continui motivi di agitazione, in modo particolare per la mancanza di frumento e di farina e per l’esosità dei tributi. Per esempio, nel luglio 1548 scoppiò un moto di rabbia contro gli amministratori spagnoli a Vigevano, a Lodi, a Piacenza, a Cremona per il rincaro del frumento, perchè si vociferava che i ricchi erano “i lupi che magnano i poveri”, e che tenevano nelle loro case migliaia di sacchi di frumento.  Carlo V° riteneva, comunque, che la Lombardia gli era troppo importante e la metteva al medesimo livello dei territori imperiali che aveva in Europa. Per la Lombardia aveva steso gli Ordini di Worms il 6 agosto 1545 con i quali stabiliva i gradi di intervento ed i comportamenti di lui stesso come sovrano e dei sudditi verso di lui, ed in genere dei modi in cui doveva essere governato il territorio lombardo.  Egli lasciò al loro posto gli esperti italiani nelle funzioni di tesorieri, cancellieri, senatori, magistrati vari, capitani di giustizia, assumendo i dottori in diritto tra le famiglie più quotate del ducato.
Rapporti tra i marchesi Medici ed il governo spagnolo
La nobiltà milanese si era pacificamente orientata verso i nuovi padroni, ed era quella medesima nobiltà che aveva giurato per gli Sforza o che aveva le sue origini nel lontano dominio visconteo o previsconteo: la storia della nobiltà italiana è la storia del suo adattamento ai diversi invasori delle nostre regioni. Ed anche i nostri marchesi rientrarono in questa logica.  Il primo marchese, Gian Giacomo, accolse in castello ed ospitò con grande sfarzo l’arciduca Filippo d’Austria, futuro re di Spagna, i giorni 8 e 9 gennaio 1549, rinsaldando strettamente i legami con la potente casa regnante.  Ferdinando Medici, figlio di Gian Giacomo 11, ottenne dal magistrato ordinario di Milano la riconferma degli antichi privilegi delle esenzioni fiscali sul mercato di Melegnano il 21 marzo 1600.  Gian Giacomo III nel 1658 ebbe la patente di rinnovo degli antichi contratti: le entrate finanziarie dei marchesi di Melegnano dovevano essere esonerate da ogni imposta in forza dei patti del 1532, come corrispettivo dei beni allora ceduti a Lecco ed a Musso.  Si fece rinnovare i privilegi sul mercato di Melegnano, come era stato fatto prima del 1555 e nel 1600, con un rescritto personale del re Carlo II e firmato di suo pugno “Jo el Rey”.  Lo stesso Gian Giacomo III si adoperò perché il castello di Melegnano fosse dichiarato allodiale, cioè con piena e libera proprietà, non soggetta ad oneri ed a diversi servizi e prestazioni varie al governo.  Ed il legame tra il governo spagnolo e i nostri marchesi era talmente stretto che ogni volta che moriva un marchese e ne subentrava un altro come discendente o collaterale legittimo, occorreva l’approvazione del Senato di Milano, che rappresentava l’organo supremo del governo in Lombardia direttamente dipendente dal governatore spagnolo.  Morto Gian Giacomo III subentrò come marchese reggente il fratello Giuseppe (1633 - 1712), il quale contrasse una relazione amorosa con una popolana melegnanese, Caterina Calvenzani e se la sposò.  Frattanto continuava a Melegnano un ramo della antica famiglia milanese dei Visconti. Il 24 settembre 1607 nacque Bernabove Visconti figlio di Estore; al suo battesimo furono presenti Scaramuzza Visconti e la moglie Silvia Maria di Carlo Maria Visconti di Riozzo. Ed ancora il 15 dicembre 1620 da Estore nacque Carlo Galeazzo.  Ai battesimi dei figli dei Visconti talvolta fungevano da padrini anche i nostri marchesi Medici, un segno evidente di buoni rapporti tra queste due famose casate.  La vita in Melegnano si svolgeva attorno alla chiesa ed al suo castello. Getta luce una testimonianza di Andrea Scoto, viaggiatore sulla strada da Milano a Bologna nel 1615, quando dice: « Caminando più oltra, nel territorio di Pavia, ritrovasi la Terra di Landriano, poscia 10 miglia discosto da Lodi è posto il nobile e ricco Castello di Marignano, per il quale, passa il fiume Lambro. Questo Castello è molto dilettevole et abondante delle cose necessarie per il vivere...».
La politica finanziaria
Le fonti del reddito al governo spagnolo erano i dazi, soprattutto quelli sulle merci, sul sale, sui cavalli, sull’esportazione di frumento; altre fonti erano la confisca dei beni ai condannati, il prestito forzoso imposto ai cittadini, le conciliazioni pecuniarie per reati.  La Spagna introdusse oppure rese più gravi le tasse sulla macinazione del frumento, della segala e del miglio. Inventò il contributo allo Stato detto mensuale, una specie di tassa straordinaria che si doveva pagare una volta al mese per poco tempo, ma che poi divenne fissa, e serviva per il mantenimento dell’esercito, perché si temeva sempre un attacco dei Francesi o dei loro alleati in Italia.  Nel 1540 la tesoreria ducale impose la tassa detta annata su chi conduceva il lavoro di mugnaio e che divenne un peso assai impopolare ed insopportabile.  Ad aggravare la situazione economica si aggiungeva il fatto che coloro che avevano soldi non li impegnavano nel commercio o nell’industria per farli fruttare e per creare ricchezza e produzione di beni, ma comperava dallo Stato gli appalti e le giurisdizioni su terreni e paesi per riscuotere in proprio i tributi un ciclo vizioso, perché si impegnavano soldi per riscuotere soldi. Il fisco per il fisco: il commercio e l’industria erano svalutati.  Con un tale sistema fiscalista pesante ed inerte, la Lombardia iniziò la sua decadenza, con passaggi assai lenti, perché alla metà del 1500 Milano ancora teneva i commerci attivi con parte dell’Europa. Invece, verso la fine del secolo e nel 1600 le industrie milanesi diminuirono paurosamente.Iniziò a rarefarsi l'arrivo del ferro per la costruzione di armi, con conseguente crisi dell'industria più prestigiosa e ricca di Milano, seguirono la stessa china le industrie manifatturiere della seta, che erano un antico vanto per la città lombarda.  In breve tempo l'artigianato milanese, che costituiva l'ossatura dell'economia precipitò, portando con se tutto quell'indotto di attività commerciali e di intermediazione, che avevano fatto ricca Milano.  Le botteghe chiusero, migliaia di artigiani emigrarono verso nazioni vicine e lontane, spesso un principio involutivo riportò alle campagne un proletariato non più qualificato, in una sorta di ritorno al feudalesimo, quando in mezza europa le regole feudali venivano soppiantate da forme di governo più decentrate.    Durante questo periodo furono i conventi a rimettere in moto 
La questione della finanza melegnanese
Melegnano, come tutte le altre comunità del ducato milanese, doveva sottostare alla politica fiscale imposta dal governo spagnolo; nonostante i benefici concessi per il giorno del mercato, i pesi dei tributi erano forti.  Un’eco della situazione locale ci perviene da una grossa questione scoppiata verso gli anni 1570-1572, in una situazione assai complessa nella quale è dato vedere alcuni elementi chiari: verteva una lite sulla tassa del sale e su altre imposizioni fiscali tra gli amministratori comunali e le famiglie ricche di Melegnano (i nobili); gli amministratori comunali chiedevano al Senato di Milano che venisse eletto un esperto fiscale per fare da arbitro tra le parti e che terminasse le operazioni di stima dei beni da censire già iniziata ma non terminata; la volontà degli amministratori di ripartire ugualmente tutte le tasse; quali tasse dovessero pagare i più ricchi.  Inoltre esistevano anche contenzioni fiscali tra gli amministratori comunali ed alcune famiglie melegnanesi: i Visconti, i Rastelli, i Gallarati, i Grandati, i Palazzi, i Grassi, i Carcano, i Rancati, i Settala, i Della Palude, il gruppo degli abitanti della Cascina dei Lassi.  La questione melegnanese arrivò al Senato di Milano, dove erano discusse tutte le situazioni delle comunità anche rurali. Il Senato scelse un esperto, l’avvocato Gerolamo Monti, il quale decise sulla base di tutta la documentazione prodottagli dalle parti in causa: le tasse ordinarie le dovevano pagare tutti, specialmente la tassa sul sale, con una differenza tra quelli che vivevano in Melegnano e quelli che vivevano nelle cascine rurali, dai sette anni ai settanta.  Vennero fatte alcune eccezioni a particolari famiglie, diminuendo loro la quota o esonerando del tutto. Tutti i beni immobili delle famiglie melegnanesi, tranne alcune eccezioni, furono gravati da tasse. I beni ecclesiastici erano esenti.  Quanto a qualche altra eventuale somma o tassa straordinaria che il sovrano avrebbe voluto imporre, essa doveva essere tempestivamente imposta metà sugli abitanti maschi dai quattordici anni ai settanta ed a coloro che esercitavano un mestiere o un’arte, metà in vece dovrà essere imposta su coloro che esercitavano il commercio ed i trasporti.  Tutta questa legislazione per la finanza locale, che ha visto come protagonisti gli amministratori di Melegnano, il Senato di Milano, le famiglie ricche locali, gli avvocati dei cittadini privati e diversi procuratori di famiglie nobili, si concluse con il raduno delle parti il 16 gennaio 1572.
I dissidi economici e politici tra Melegnanesi
Pochi anni dopo divenne più acuta la questione dei poteri politici, amministrativi ed economici che era nata tra gli stessi Melegnanesi. Fu inviata una supplica da parte degli assessori all’imperatore Filippo III, re di Spagna e duca di Milano. La questione che si era convertita in lite aperta tra le varie famiglie melegnanesi riguardava chi e come si doveva amministrare, quanto tempo dovesse durare la carica degli amministratori, quanti dovevano essere, chi dovesse eleggere il sindaco, quali compiti specifici dovessero avere gli assessori.  Si trattava, cioè, di stabilire con chiarezza i compiti della giunta, del consiglio comunale e delle altre cariche. Naturalmente tutto questo aveva alla base una politica economica e fiscale scottante.  Prima del ricorso estremo a Filippo III furono mandate lettere al governatore di Milano, al magistrato dei redditi, al visitatore generale: queste autorità effettivamente emanarono ordini per regolare la questione. Però, nonostante gli ordini emessi dalle superiori autorità, le liti continuarono. Allora Filippo III intervenne di persona ed inviò un suo delegato per risolvere la questione alla radice, il questore Luigi Melzi, il quale venne in Melegnano e più volte sentì le parti in causa, volle conoscere chiaramente le controversie, propose rimedi per sedare le liti e ridare la pace pubblica.
La nuova costituzione melegnanese
Il magistrato Melzi preparò, quindi, una nuova costituzione per Melegnano. Chiamò in assemblea il 4 febbraio 1608, nel palazzo del Municipio, 124 capifamiglia melegnanesi che erano i due terzi di tutte le famiglie (e che, dunque, dovevano essere in tutto 186 famiglie). La costituzione conteneva 15 articoli: 
1 - Il consiglio generale dei capifamiglia elegge quattro persone le quali a loro volta eleggono otto regolatori (come il nostro attuale Consiglio comunale), i quali devono giurare nelle mani del podestà di Melegnano che rappresenta la Spagna. I regolatori devono saper leggere e scrivere ed aver compiuto i venticinque anni. Ogni due anni quattro scadono ed altri quattro subentrano, nominati a scrutinio segreto dai regolatori in carica durante l’Ottava di Natale e iniziando con una messa dello Spirito Santo. Gli otto regolatori devono, quindi, rappresentare i vari interessi e le varie tendenze di tutti i melegnanesi.
2 - Ogni anno i regolatori devono eleggere il console (il nostro sindaco) con funzioni anche di ordine pubblico e quattro deputati (i nostri assessori) tra i più intelligenti e colti e nativi di Melegnano.
3 - Nella elezione del console se non si trova un accordo, avviene lo scrutinio segreto. Il console ha un salario di 40 scudi annui.
4 - Regolatori e deputati devono avere 25 anni, sani di mente, non di una stessa famiglia, non debitori o in causa con il Comune, non evasori fiscali, non coloro che sono stati allontanati dalle cariche pubbliche, non ex regolatori o deputati prima che passino quattro anni di vita privata come semplici cittadini.
5 - I deputati devono redigere l’elenco delle tasse, i bilanci, compilare gli avvisi fiscali, consegnarli al messo comunale per la riscossione, controllare il registro delle tasse per la regolare riscossione, pubblicare in piazza per otto giorni l’elenco dei contribuenti e la somma da pagarsi con la specifica fiscale.
6 - Deputati e regolatori devono provvedere agli alloggiamenti per le truppe di passaggio e di sosta.
7 - L’ufficio della riscossione delle imposte deve essere messo all’asta e sarà affidato a chi offrirà di più e che dia serie garanzie.
8 - Il console, i deputati, l’agente delle tasse devono rendere conto della loro amministrazione ai regolatori. I conti saranno ritenuti legittimi dopo l’approvazione dei regolatori.
9 - Il consiglio dei regolatori si raduna su invito del regolatore più anziano. Il consiglio è valido se vi è la presenza di almeno cinque regolatori. Il consiglio dei deputati avviene su convocazione del più anziano dei deputati.
10 - I regolatori ed i deputati che risulteranno eletti devono accettare forzatamente la loro carica, sotto pena di una grave multa. 
11 - Nel consiglio dei regolatori o dei deputati si deve assentare quel consigliere che risulta essere famigliare o cugino della persona di cui si discute.
12 - Se non si trova l’accordo si ricorre allo scrutinio segreto con il ballottaggio.
13 - Il consiglio dei regolatori e dei deputati deve essere convocato una volta al mese, salvo il legittimo impedimento.
14 - Se qualche deputato, per servizi urgenti al Comune, deve tralasciare i propri interessi professionali, sarà risarcito dai regolatori con una somma stabilita in bilancio.
15 - I regolatori devono eleggere un notaio pubblico (il nostro segretario comunale), per registrare ogni deliberazione su un registro che sarà conservato nell’archivio comunale. Tale notaio si chiamerà cancelliere e terrà quei registri necessari per una buona amministrazione, con repertori per documenti vecchi e nuovi.
Questa costituzione melegnanese assicurò per un po’ di tempo una certa tranquilla amministrazione e rese più chiari i rapporti politici tra l’autorità centrale e quella periferica.  Alla pacificazione fiscale ed amministrativa interna melegnanese non corrispose tuttavia la tranquillità delle armi: nuovi motivi di apprensione apparivano all’orizzonte per lo scoppio della seconda guerra del Monferrato che coinvolse anche la nostra zona.
La seconda guerra del Monferrato e le nuove invasioni
Tra il 1612 ed il 1615 Carlo Emanuele di Savoia studiava la possibilità di impadronirsi del Monferrato che era possesso dei duchi di Mantova. Ma si trovava contro la potente Spagna. Ed un primo tentativo armato falli nella prima guerra del Monferrato.  L’occasione propizia venne quando morì il duca di Mantova senza lasciare figli maschi, Vincenzo Gonzaga. L’eredità stava per cadere nelle mani di un suo parente collaterale abitante in Francia, Carlo di Gonzaga-Nevers: era chiaro che, ancora una volta, la Francia si sarebbe inserita nel cuore del dominio spagnolo. Inoltre il Monferrato era una zona di vitale importanza commerciale per la Spagna per le comunicazioni tra Genova e Milano. Fatti i suoi conti anche il duca di Savoia volle inserirsi nell’intricata questione. E fu nuovamente la guerra tra Francia e Spagna, per cacciare il Gonzaga-Nevers da Mantova e dal Monferrato.  Un esercito imperiale fu inviato dalla Germania in Italia verso Mantova che, assediata e colpita dalla fame e dalla peste, fu conquistata nell’estate del 1630 e sottoposta a saccheggio.  Durante questa guerra del Monferrato la Lombardia fu percorsa dai Lanzichenecchi, una terribile milizia tedesca che rimase tristemente famosa per la ferocia dei saccheggi e per le rovine causate alla popolazione civile durante i suoi spostamenti. Li comandava Rambaldo XIII di Collalto, un italiano della stirpe dei Collalto iscritta nell’albo della nobiltà di Venezia dal 1306.  Già i Lanzichenecchi erano nel territorio dell’Alto Milanese l’anno 1629 e già tra loro serpeggiava la peste. Le alte autorità milanesi intervennero presso i governatori spagnoli Ambrogio Spinola ed il successore Alvaro Bazan per evitare che tali truppe percorressero tutto il ducato ed in modo particolare non entrassero in Milano. Contemporaneamente le truppe imperiali stringevano d’assedio Casale Monferrato, che era un altro territorio dei Gonzaga-Nevers, e che doveva passare nelle mani degli Spagnoli.  In questo contesto si inserì una fermata a Melegnano del comandante supremo dei Lanzichenecchi, il Rambaldo, il quale scrisse una lettera datata Meregnano 26 giugno 1630 e diretta al cardinale principe Franz di Dietrichstein, diplomato e commissario imperiale, per chiedere ordini sulla strada del ritorno: il territorio di Venezia, infatti, non era sicuro perché insidiato anche dalla peste.  La permanenza a Melegnano del comandante dei Lanzichenecchi si potrebbe, quindi, spiegare con la preoccupazione di portare in salvo le truppe, passando al di fuori del territorio veneziano, da Mantova a Melegnano e poi risalire per la Valtellina. Ma si potrebbe anche pensare che Rambaldo fosse venuto a Melegnano per incontrarsi con alcuni del quartier generale delle truppe imperiali che stavano assediando Casale Monferrato.
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