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Melegnano nel Risorgimento
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  Il congresso di Vienna
Quando si parla di Risorgimento Italiano, cioè di quel periodo che seguì alla dominazione austriaca dopo il 1815, vi è il pericolo di deprimere con giudizi denigratori il governo austriaco e di cadere nella esaltazione degli eroi italiani. Non vi è stata un’Austria tutta tiranna e tutta negativa, come non vi fu un Risorgimento tutto eroi e tutto gloria.  Vissero gli austriaci e gli uomini del Risorgimento come tutte le creature umane, con i loro pregi ed i loro difetti, senza bisogno di collocarli nella cornice retorica di condanna o di beatificazione.  Dopo il periodo napoleonico si aprì a Vienna un congresso europeo che terminò con un solenne documento detto Atto finale del 9 giugno 1815: trionfò a Vienna il legittimismo ossia il ritorno sui troni dei vecchi re o principi spodestati, l’assolutismo ossia l’abolizione delle forme popolari repubblicane, e si formò la Santa Alleanza che tuttavia fu meno accolta dai Congressisti e meno sentita da alcune parti, specialmente dall’Inghilterra e dalla Santa Sede.  La Lombardia e la Venezia vennero assoggettate all’Austria con decreto del 7 aprile 1815 ed unite per formare il Regno Lombardo Veneto, con un viceré e due governatori, uno a Milano e uno a Venezia. L’esercito italico fu sciolto; abolita la bandiera italiana; i soldati lombardo-veneti inviati a presidiare le provincie straniere, mentre arrivavano presso di noi i soldati tedeschi, croati, boemi, ungheresi.  Melegnano, dopo il Congresso di Vienna, è inserito nel Distretto XII° della provincia di Milano con la denominazione di «Comune di Melegnano ». Amministrativamente a Milano funzionava la Imperiale Regia Delegazione Provinciale. Conseguentemente l’autorità più importante a Melegnano era l’imperiale regio commissario comunale, scelto tra gli italiani di stretta fede austriaca.  L’amministrazione imperiale austriaca era scrupolosa, retta, sostenuta da uomini generalmente integri, teorici di una legislazione spesso anche umiliante per noi; tuttavia l’Austria si rivolgeva con uguale scrupolo agli austriaci come a tutti i sudditi dell’imperatore: non faceva differenza tra un austriaco, un boemo e un lombardo.  E già in questo contesto non ci si stupisce di trovare alcuni nostri concittadini inseriti e attivi come pubblici ufficiali addetti ai servizi dei lavori pubblici, dei problemi dell’alimentazione, dell’insegnamento scolastico, della vigilanza urbana, dell’ufficio delle imposte e dell’esercizio commerciale.  Parecchi melegnanesi servivano sotto le armi austriache in Polonia, in Ungheria, in Austria: Luigi Barozzi, Filippo Belloni, Giovanni Donati, Giuseppe Magri, Antonio Saporiti, Pietro Vertua furono quelli che, militando sotto le armi austriache, vi trovarono anche la morte.
L’opera de’ parroci
Più stretta e maggiormente pressante era la richiesta di collaborazione che le autorità austriache chiedevano al clero. Dal 1815 al 1848 a Melegnano pervennero centinaia di circolari dirette al parroco per i più vari motivi, alcuni dei quali furono: la leva militare e l’elenco dei giovani coscritti; la pensione ai militari inabili; nuove disposizioni per i registri parrocchiali; l’invio dello stato di famiglia dei melegnanesi alle autorità superiori specificando gli ammogliati, i nubili, le vedove, il sesso femminile, i forestieri; la disciplina matrimoniale tra austriaci e lombardi; il suono delle campane a martello; i parroci possono e debbono sorvegliare di continuo le scuole elementari private i cui maestri siano muniti di regolare autorizzazione nel circondario della loro parrocchia; leggi riguardanti i tutori dei minorenni; gli onori da rendersi alla pubblica autorità politica in processione; lo scioglimento della Congregazione di Carità cui succede provvisoriamente l’Amministrazione e Direzione Elemosiniera, fondata dal parroco e dal primo deputato, più l’amministratore nominato dall’Imperial regio delegato provinciale; l’istruzione religiosa ai carcerati; la segnalazione tempestiva di elementi antigovernativi; e soprattutto il giuramento di fedeltà al governo austriaco quando un parroco veniva insediato come nuovo prevosto nella chiesa di S. Giovanni.
Questioni sanitarie
Negli anni 1821-22-23-24 l’Imperial regio governo di Milano emise una serie di disposizioni per la vaccinazione contro il vaiolo. Parecchi medici, addetti alla vaccinazione nei singoli Comuni, non avevano compiuta l’operazione di vaccinazione senza specificare il motivo, e dal momento che il vaiolo si diffondeva maggiormente, si prescriveva che ciascun vaccinatore di parrocchia o di condotta, prima di procedere all’operazione dell’innesto, dovesse recarsi accompagnato dal proprio parroco o coadiutore e da un delegato dell’autorità comunale, in ogni famiglia per formare l’elenco di tutti gli individui da vaccinarsi; nelle campagne e nei paesi i parroci dovevano leggere dal pulpito ogni tre mesi i nomi degli individui che fossero morti per vaiolo nel trimestre antecedente e con breve e chiara allocuzione facessero sentire ai genitori il dovere che avevano verso Dio e lo Stato di non trascurare un mezzo che tendeva a preservare i loro figli da molte deformità e malattie e dalla morte, che non di rado era cagionata dal vaiolo umano: era questo il senso dell’ordinanza austriaca.  E queste malattie da contagio non erano rare, perché già nel 1818 scoppiò una epidemia di tifo esantematico tale da sospendere la festa del Perdono e quella dei Rioni, che erano feste anche a carattere largamente popolari. E nel 1836 una disgrazia ancor maggiore: per oltre due mesi estivi infierì il colera che uccise più di duecento persone su una popolazione che appena arrivava a 4000 abitanti. A queste calamità si univa anche la periodica inondazione del Lambro che creava disastri nelle zone basse di Melegnano, come fu quella terribile del 1839 che spazzò via cantine, orti, depositi e magazzini, con crolli di vecchie mura.
Urbanistica
Economicamente, con l’arrivo del governo austriaco, non vi furono grandi cambiamenti, e neppure grosse novità nel settore urbanistico. L’abitato di Melegnano era distinto in tre zone: due si estendevano ad ovest del Lambro (borgo S. Rocco e Ponte di Milano), ed una ad est (borgo Lambro). La denominazione di questi « borghi» si conservò a lungo soprattutto nel linguaggio dei vecchi, e si può dire che sussista tuttora.  Intorno alle piazze Castello, Centrale di S. Giovanni, Visconti attuale Garibaldi, ruotava la vita dei melegnanesi così come anche oggi quasi tutti i servizi di interesse pubblico (municipio, banche, cinema, sedi di partito e di sindacato, assicurazioni, mercato) si trovano accentrati in questa zona. La chiesa di S. Giovanni era il centro di tutta la vita religiosa; ed anche oggi, nonostante le nuove parrocchie periferiche, essa detiene in modo insostituibile la sua primaria antica importanza.  Le case che costituivano il centro abitato fronteggiavano le sedi stradali, con andamento rettilineo, sinuoso, o interrotto da improvvise rientranze. La loro altezza era di due o tre piani; l’accesso ai piani superiori era dato da scale talvolta strette, ripide e buie. Numerose erano le case a «corte », cioè dimore rurali a forma quadrilatera recinte da muri che formano uno spazio chiuso. Le maggiori dimore a corte, cioè le vere e proprie cascine (ad esempio la Maiocca e la Montorfano) erano situate in periferia e costituivano un solido organismo autonomo con spiccata tendenza all’isolamento che si riscontrava nel costante tentativo di creare nell’interno di essa, per gli addetti fissi, condizioni che vincolassero all’ambiente e riducessero al minimo le necessità e le possibilità di contatti con l’esterno, che avvenivano per mezzo del conduttore, del proprietario, del fittavolo e dell’agente. Fulcro di tale dimora era l’aia, intorno alla quale si sviluppava la casa padronale (con granaio sovrastante), le dimore dei salariati con abitazioni in fila fronteggiate dai relativi rustici e un cortile secondario, il settore riservato alle vacche, ed il caseificio. A volte vi era anche la chiesetta che un tempo era ufficiata settimanalmente, quando esistevano i conventi ed il clero era dedicato solo ai riti.  In alcune corti vigeva l’uso della campanella, con la quale il conduttore regolava l’attività quotidiana e la chiusura serale, ad ora stabilita, del grande portone di ingresso, cui si accompagnava il divieto per i contadini di entrata e di uscita.  Per quanto riguarda la cascina, l’organizzazione del lavoro era imperniata su due fondamentali categorie di lavoratori: i salariati fissi, legati all’azienda con un contratto fino a S. Martino, il giorno 11 Novembre, ed ai quali erano assegnati i lavori che avevano carattere di continuità; ed i giornalieri chiamati all’azienda saltuariamente, nei periodi di maggiore esigenza di mano d’opera e pagati a giornata. I salariati si distinguevano in alcune categorie: il fattore, il camparo, i cavallanti bifolchi, gli artigiani. Le cascine alla periferia melegnanese inserite nel Comune erano 15. I terreni argillosi e sabbiosi prevalentemente impermeabili e l’abbondanza di acque consentivano la cultura a marcite nella stagione invernale ed a riso nella stagione estiva, colture che oggi non esistono quasi più.
L’evoluzione sociale
Questa situazione economica rurale si modificherà con il passare dei decenni, anche se non scomparirà mai del tutto, perché la fascia agricola di circa cinque chilometri che separa Melegnano da Milano impedisce l’assorbimento da parte della grande città lombarda. Forse il tentativo di Melegnano per diventare una periferia industriale di Milano sarà totalmente riuscito qualora avvenga l’agganciamento urbanistico con Milano stessa, e soprattutto quando siano diminuite le spinte e le proposte agricole, radicate da secoli immemorabili nel tessuto della storia melegnanese.  La situazione economica melegnanese, alla vigilia e durante il Risorgimento fu ancora essenzialmente e quasi unicamente agricola.  Ma tale periodo fu l’inizio dell’ultima grande stagione agricola per Melegnano.  L’Ottocento melegnanese, insomma, concludeva definitivamente la storia dell’economia agricola due volte millenaria; e la concludeva in modo irreversibile: Melegnano non sarà più agricola. E la concludeva con forme sociologiche della vita moderna: l’impianto delle industrie; la rete di comunicazione per Milano con l’aggancio a mentalità cittadina; la svalutazione della stima per i lavoratori dei campi con epiteti spregiativi; la concorrenza estera dei prodotti agricoli; il graduale disinteresse governativo; e conseguentemente lo spirito delle nuove generazioni che osserveranno ed opteranno per altre forme di lavoro e di scelte diverse dal mondo rurale. Fu una trasformazione continua ed inarrestabile, fino alla introduzione della meccanizzazione con conseguente diminuzione rapida e massiccia della mano d’opera nei campi.  Ed oggi, a cento anni dalla conclusione del Risorgimento, non possiamo dire quanto sia rimasto a Melegnano di veramente agricolo: non vi è più terreno ancora disponibile a colture, e il numero dei coltivatori diretti, o massari, o contadini è del tutto esiguo; nel 1860 la superficie geografica di Melegnano era di 439 ettari così suddivisi: 378 ettari di superficie agraria; 61 di strade, fabbricati, acque ed aree esenti da estimo. La superficie agraria occupava quindi l’86% dell’intera superficie, e la destinazione agricola del paese era un fatto innegabile. La popolazione di Melegnano, nel 1860, era di 4.528 abitanti, e la parte occupata nell’agricoltura superava il 70%.
La popolazione di 4.528 abitanti era vivente sia nelle cascine sia in Melegnano che comprendeva la contrada del Carmine, la stretta del Ponte di Milano, la contrada della Gendarmeria (via Cavour), la contrada delle Monache (via Trento e Trieste), contrada dei Pellegrini (Via Mazzini), contrada S. Pietro (via S. Pietro), contrada del campanile (via Stefano Bersani), stretta delle Due Spade (via Oberdan), piazza comunale della stadera o somaglia, ex piazza Visconti (piazza Garibaldi), contrada dei giardini ossia valletta (via Solferino), contrada lunga (via Castellini), contrada S. Giacomo (via Bascapé), stretta di S. Giacomo (via Marsala), piazza grande (piazza S.  Giovanni), contrada del mercato (via Conciliazione), piazza del mercato (piazza della Vittoria o castello), borgo S. Rocco (via Zuavi e adiacenze), borgo Lambro (via Dezza e adiacenze), contrada dei Servi (via Piave); la fossa attorno al castello si chiamava fossa Medici; la via Roma che era l’arteria principale, era nominata come la via postale ed anche la postale mantovana.
Commercio
Commercialmente il punto più forte era sempre il mercato al giovedì che, anche con il governo austriaco, era disciplinato con ordinanze e leggi. Abusi e disordini si erano introdotti da parecchio tempo e sembravano impossibili ad estirparsi. L’ordinanza sul buon ordine del mercato fu del 1825, stesa nella casa comunale melegnanese su insistenza della Imperiale regia delegazione provinciale. Il commissario austriaco, in accordo con la Deputazione di Melegnano, che era la giunta comunale, ordinò che l’incaricato del plateatico fosse responsabile più diretto per l’assegnazione del posto sulla piazza; che gli esercenti melegnanesi, che avevano il plateatico gratuito, non avessero il diritto di scegliere a loro arbitrio il posto più o meno buono; che in particolare i banchi degli zoccolai, tra i più numerosi sul mercato, avessero a loro disposizione la piazza del mercato, che era la piazza castello. Inoltre si definì la questione del concime animale che stava sulla strada al passaggio dei cavalli e delle bestie, perché era stato dato in appalto il contratto della raccolta e vi erano liti perché, anche per il concime, sorgevano raccoglitori clandestini.
La Milano Asburgica
Lo stato lombardo era diviso in nove provincie: Milano, Brescia, Mantova, Cremona, Bergamo, Lodi, Como, Pavia e Sondrio; l'amministrazione di ogni provincia era affidata ad una regia delegazione, dipendente direttamente dal governo. Le provincie erano suddivise in distretti, dove regii commissarii amministravano e gestivano sia i registri del censo che le operazioni di polizia e di controllo. Nei distretti suddivisi in comuni, si adunava due volte l'anno un'assemblea dei cittadini maschi maggiorenni possidenti, esclusi i militari, i parroci ed i debitori nei confronti del Comune, per discutere ed approvare il bilancio comunale  preventivo e quello consuntivo, nonchè per eleggere la deputazione comunale, composta da trè membri scelti fra i convocati all'assemblea..  La deputazione comunale amministra il patrimonio della municipalità, vigila sull'osservanza delle norme, istruisce le indagini sui delitti da parte delle guardie comunali o da quelle di finanza, impone l'arresto dei presunti rei. L'assemblea, nomina inoltre gli addetti agli uffici, i maestri, il medico o i medici, le levatrici. I conti comunali sono controllati da revisori che operano gratuitamente.  I Comuni più grandi possono darsi una struttura più corposa, con un Consiglio di 30 consiglieri, due terzi dei quali scelti fra i proprietari terrieri, il rimanente terzo tra artigiani, industriali e commercianti; ogni anno si rinnova un terzo del consiglio per elezione durante una delle due assemblee generali.  Sui Comuni gravano le spese di mantenimento della Polizia locale, delle fabbriche comunali, delle chiese parrocchiali, delle strade interne e ovviamente degli stipendi dei propri impiegati.  La partecipazione al governo del paese o della città è motivo di orgoglio e di lustro, pertanto la prestazione è a titolo completamente gratuito.  La provincia di Milano era suddivisa in sedici distretti: I) Milano II) Corsico III) Bollate IV) Saronno V) Barlassina VI) Monza VII) Carate VIII) Vimercate IX) Gorgonzola X) Melzo XI) Milano XII) Melegnano XIII) Gallarate XIV) Cuggiono XV) Busto Arsizio XVI) Somma. 
Il 1848
Ma le condizioni agricole e commerciali, pur con le loro problematiche locali furono ben poca cosa in confronto agli avvenimenti politici e militari che si andavano preparando verso la meta’ del secolo.  Il 1848, infatti, segnò per l’Europa un anno di violento risveglio patriottico: le sette rivoluzionarie ed i movimenti clandestini di liberazione passarono dalle affermazioni teoriche all’azione di piazza: la resistenza silenziosa divenne rivolta tumultuante ed accesa. I movimenti forti ed intensi scoppiarono a Berlino, Vienna, Praga, Milano, Venezia. Nessun legame preordinato legava tali agitazioni, che tuttavia erano uniti in un comune denominatore: la costituzione, cioè la partecipazione al governo; le libertà di stampa, le riforme discusse in un aperto e libero parlamento.  Le notizie dei moti stranieri esaltarono anche i liberali milanesi che nella notte del 17 marzo tennero un’assemblea, prepararono ed affissero un manifesto ai milanesi, in sette punti con un programma moderato. Ma al mattino del 18 scoppiarono le famose Cinque Giornate di Milano. Il maresciallo Giovanni Radetzky si ritirò con tutto l’esercito nel Quadrilatero formato dalle fortezze di Verona, Peschiera, Mantova e Legnago.  Nel giorno della sua ritirata, il 28 marzo, uscì da Porta Romana, percorse la via Emilia ed arrivò a Melegnano. Giunto alla Rampina inviò in paese una staffetta di tre uomini che furono accolti a fucilate. Il gruppo dei patrioti estremisti melegnanesi era radunato al Caffè delle Due Spade, seguaci dei Dezza e dei Cordoni. Il melegnanese Polli si oppose a qualunque violenza, fermò gli estremisti ed insistette perché i tre della staffetta austriaca, che erano stati fatti prigionieri, fossero liberati. In realtà i melegnanesi stavano facendo un gioco pericoloso con Radetzky ed i suoi quindicimila uomini. Lo stesso Polli si incaricò di raggiungere Radetzky alla Rampina per contrattare, mentre le truppe austriache erano attestate alla Maiocca ed alla Valle.  Giunto il Polli presso l’avanguardia austriaca parlò con un capitano, che si arrabbiò gettando per terra il cappello e bestemmiando che i melegnanesi l’avrebbero pagata cara.  Intanto dalla Rocca Brivio arrivò qualche fucilata contro gli Austriaci ed un soldato cadde morto. Immediatamente vennero rivolte contro quella direzione alcuni pezzi di artiglieria e si investì la Rocca Brivio di cannonate, mentre una compagnia di assalto bruciò quella frazione agricola. La risposta di Radetzky fu precisa e secca: libertà per i tre prigionieri; lasciare il passo libero alle truppe.  Se non fosse stato possibile ciò, Melegnano sarebbe stata distrutta.  E nel frattempo Radetzky ordinò il bombardamento su Melegnano.  Sanguinarono i primi feriti melegnanesi, mentre tutti cercarono scampo nelle cantine e serravano le case. Un commandos di cacciatori austriaci dell’avanguardia entrò in Melegnano e raggiunse immediatamente il ponte sul Lambro. Pochi minuti dopo entrava Radetzky, ed i suoi militari incominciarono il saccheggio.  Subirono gravi perdite l’osteria dell’Isola, le case più nobili degli Annoni e dei fratelli Pogliani; furono assaliti ristoranti, osterie, trattorie, drogherie, i caffè. L’archivio del Comune, ricco di documenti della vita melegnanese di parecchi secoli passati, fu interamente distrutto ed incendiato. E rubarono tutti i soldi.  Dodici furono i morti melegnanesi, ed oltre novanta i feriti di tutte le età: Giuseppina Bonifazzi, vedova Rossi, filatrice, di anni 58, trucidata in casa sua mentre saliva la scala con un piccolo involto; Giuseppe Fiocchi, albergatore dell’osteria della Fiocca, di anni 69; Pietro Lazzari, di anni 45, fittabile, strappato a viva forza dalla sua casa e condotto al Ponte di Milano dove fu ferito a morte e gettato nella roggia Spazzola; Carlo Lombardini, di anni 92, morto dissanguato perché fu abbandonato sulla strada; Domenico Maggi, di anni 62, colpito da sparo di fucile nel proprio giardino, dove si era rifugiato sostenendosi con le stampelle e recitando il rosario; Celestino Martinenghi, di anni 16, studente, ucciso alla Maiocca dove si era rifugiato; Giuseppe Mondini, di anni 52, manovale trucidato in casa sua mentre saliva la scala per ripararsi; Edoardo Pandini, di anni 27, abitante a Balbiano; Innocente Perrucca, di anni 50, facchino, colpito dalla mitraglia; Natale Quattrini, contadino, di anni 25, domiciliato alla Cascina Montorfano; Rosa Roveda, vedova Chiappa, di anni 75; conte Carlo Porro di Milano, condotto come ostaggio dagli Austriaci.  Una ventina di famiglie rimasero senza tetto e trovarono rifugi di emergenza. Gli austriaci persero due soldati, uno dei quali annegato nel Lambro.
La ricostruzione
Dopo la partenza degli austriaci incominciò l’opera della ricostruzione sulle rovine. Una lettera del capo dell’ufficio distrettuale era diretta al comitato politico di Melegnano per meglio precisare le modalità, con queste parole: “Italia libera, Viva Pio IX°.  Melegnano 30 marzo 1848. Al Comitato di Melegnano. Pel saccheggio e per l’incendio stato appiccato in questo Borgo e sue adiacenze dalla barbara ed esecrata truppa austriaca nel suo passaggio del 23 corrente, molte famiglie da agiate sono divenute indigenti e molte altre ridotte definitivamente al sacco. Se non pochi dei nostri cittadini hanno esposta la loro vita per la santa causa dell’indipendenza e tuttora prestano incessante opera per espellere definitivamente il nemico straniero e le reliquie della schiavitù da tutta Italia, importa che gli altri provvedimenti dalla parte di mezzi pecuniari concorrino cogli sforzi del vero e reale patriottismo a soccorrere l’indigenza.  Egli è perciò che qual presidente di questo Comitato ho determinato di scegliere una commissione composta dai signori Antonio Spernazzati, Antonio Cordoni, don Gaetano Bozzi, don Ferdinando Saresani, ond’abbiano a presentarsi alla santa e religiosa impresa, e mentre vado a porgere ai medesimi officioso invito, ne rendo edotto il Comitato a dovuta sua direzione e norma. Il capo dell’Ufficio distrettuale Bossi”.
Prima guerra per l’Indipendenza
Ma gli entusiasmi per la libertà ed i propositi per una Lombardia libera, riceveranno una terribile delusione proprio nell’estate del 1848, quando le sorti della guerra peggioreranno per i Piemontesi, e quando dovranno ripassare ancora per Melegnano alcuni dei grandi protagonisti: Carlo Alberto e lo stesso Giovanni Radetzky.  La campagna militare, nonostante gli entusiasmi delle prime vittorie dei Piemontesi e la conquista di Peschiera, doveva urtare contro la realtà di Radetzky deciso alla riscossa organica e violenta: il 25 luglio 1848 infatti Carlo Alberto subì la terribile sconfitta a Custoza, in provincia di Verona: Milano fu in ansia, la sua libertà si trovò in estremo pericolo, perché Radetzky sarebbe certamente rientrato nella metropoli lombarda. Difatti, dopo la generale ritirata dei Piemontesi, ai primi giorni di agosto l’esercito austriaco entrava nel lodigiano, mentre Carlo Alberto da Lodi si ritirava a Milano, passando per Melegnano.  Ed il mattino del 4 agosto nuovamente Radetzky a Melegnano per la seconda volta, ora trionfante e desideroso di rientrare in Milano e di riprendere ogni potere civile e militare, come avvenne il giorno 6 agosto. Ed a nulla valse la ripresa delle ostilità nella primavera del 1849, perché i Piemontesi con Carlo Alberto furono ancora sconfitti a Novara.  Anche a Melegnano, come in tutta la Lombardia, l’Austria nuovamente arrivata impose misure restrittive delle libertà personali e stabilì provvedimenti fiscali in maniera pesante. Avvenne fatalmente una maggiore separazione morale e fisica tra milanesi ed austriaci, e furono ripresi gli arresti, le bastonature e le fucilazioni.
I distretti
Secondo la notifica governativa stesa nd 1844 e nuovamente approvata dopo il 1848 riguardante i compartimenti territoriali, Melegnano era sempre nel Distretto XII° (i Distretti erano 16), e sotto il distretto territoriale di Melegnano gravitavano Arconago, Gnignano, Bustighera, Carpiano, Cerro al Lambro, Colturano, Mediglia, Pedriano, Riozzo, San Giuliano, Sesto Ulteriano, Viboldone, Vizzolo Predabissi, Zivido, Zunico; erano i paesi tutti formanti il XII° Distretto.  Nel 1850 la popolazione di Melegnano era di 4.023 abitanti e nel 1848 avvennero 604 nascite, 107 matrimoni, 657 morti.  Vi era la residenza di Pretura. Dipendevano dall’Imperiale Commissariato Distrettuale il commissario Fabrizio Bossi, l’aggiunto Cesare Magnaghi, lo scritturale Angelo Romello, il normale minutante Ferdinando Spernazzati. Pietro Tensali era l’ispettore delle guardie comunali che tenevano il posto ora esercitato dai vigili urbani. Era assai attivo ed aveva la sua sede a Melegnano il Consorzio acque per la disciplina irrigua e la custodia del cavo Redefossi, un pro-presidente Annibale Brivio, cancelliere Gabrio Sormani, doganiere Francesco Pirotta.  La Stazione postale aveva il direttore nella persona di Santo Mola ed il suo impiegato si chiamava Stefano Busné, futuro sindaco.  La Stazione della gendarmeria era formata da un gendarme a piedi, quattro a cavallo e tre soldati sussidiari che avevano la custodia anche del magazzino per la truppa di passaggio.  Tra gli Enti locali funzionava prioritariamente il Luogo Pio Elemosiniere, fondato da Maria Teresa con decreto del 31 maggio 1770, e fu accresciuto con vari testamenti, tra i quali si ricordavano i grossi nomi della vita melegnanese: Gallina, Bertuzzi, Spernazzati, Visconti, Sesti, Cremonesi, Securi, Buttafava. Il suo reddito annuo serviva per pagare il maestro della scuola, il medico chirurgo, gli ammalati poveri, i medicinali ai bisognosi, la dote alle ragazze che dovevano sposarsi e che non avevano niente. Funzionava anche la Causa Pia Ciceri, fondata dal sacerdote Francesco Ciceri che in testamento del 3 ottobre 1764 dispose una somma per gli infermi di Melegnano.
Cronaca storica
In questi decenni, intanto, nella memoria del popolo melegnanese e nei racconti quotidiani, tenevano il primo posto non soltanto i grandi fatti lombardi e italiani, ma soprattutto quelli locali: fatterelli di poca entità o di nessuna importanza, ma furono efficacemente ricordati fino a noi: il canale Redefossi e la roggia Spazzola erano tutti ingombrati di roba e di arnesi, gettati o caduti nel viaggio che gli austriaci fecero da Milano a Melegnano, impiegando parecchie ore; e dopo il passaggio sono stati necessari parecchi giorni di lavoro per sgomberare i fossati, ammucchiando ogni cosa in campagna per bruciare con grandi falò; varie pattuglie austriache avevano percorso anche le vie di campagna ai fianchi della via Emilia, entrando nelle case per la maggior parte abbandonate, e i soldati avevano fatto ogni sorta di bottino; alla Rampina vi era da secoli una bottega di posteria, fornita di ogni bevanda e di tutti i generi alimentari, ed il proprietario aveva tenuto aperto il negozio; ma in pochi istanti scomparve ogni cosa per la fame degli austriaci: salsicce, formaggi, salami, frutta e tutte le bottiglie; i Croati si erano segnalati per le razzie più strane, ma rubavano dalle case oggetti di rame e la biancheria, soprattutto i pantaloni. Erano questi i fatterelli che tutti sapevano.  Si raccontava ancora che la milanese Luigia Gnocchi scappata da Milano e sfollata a Melegnano, era ospite di una cascina nei pressi del paese. Nel cortile della cascina le contadine stavano incuriosite a raccontare le ultime notizie, mentre agli sfollati era distribuita una tazza di brodo e un po’ di pane, uova ed un pezzo di formaggio.  Un gruppo di milanesi, arrivati prima degli austriaci si era raccolto in questa cascina; ma, mentre si gustavano il cibo agreste, ecco un grido: i croati! i croati! e tutti scapparono lontano.  In un campo al di là della Spazzola, vicino al Molinazzo, un contadino stava rivoltando un mucchio di letame. Lo vide un soldato austriaco del corpo dei cacciatori, si volse al suo compagno, un altro croato, e gli gridò in milanese storpiato: guarda mi! il contadino stava semplicemente fermo osservando quei due; ma il croato che aveva detto: guarda mi, lasciò partire un colpo di fucile contro il contadino che cadde morto sul suo mucchio di concime, mentre la risata dei due croati accompagnava gli ultimi rantoli di morte del contadino.
Gli ostaggi
Tra gli ostaggi portati a Melegnano era il marchese Gilberto Porro; il conte Giulio Porro; il nobile Carlo Porro che venne ucciso; il conte Giuseppe Belgioioso, che era assessore comunale di Milano; il nobile Pietro Bellotti anch’egli assessore comunale; Marco Greppi assessore; il segretario generale Silva; il generale Teodoro Lechi; il poeta Felice Bellotti; Francesco Briochi; il marchese Litta Modigliani; l’avvocato Gerolamo Bonola. Tra questi ostaggi vi fu anche Filippo Manzoni il terzogenito figlio del grande letterato e poeta Alessandro Manzoni; in una lettera scritta dal Manzoni alle figlie Vittoria e Matilde il 31 marzo così si legge: “Sapete che il nostro caro Filippo è uno di quelli che furono presi al Broletto e condotti via. Ho avuto ieri l’altro una lettera da Crema: era sano e fermissimo d’animo; e sono trattati con riguardo. Abbiamo qui ostaggi di loro e persone d’importanza; sicchè oltre all’essere chiusi i passi al nemico, abbiamo una malleveria che i nostri ritorneranno presto...”.  Questi erano dunque i fattarelli e le cose più note che si raccontavano, accanto a tutto ciò che era accaduto nella terribile giornata del 23 marzo 1848, come memorie che si collocavano tra cronaca e storia.  Quando si chiuse la campagna del 1848, anno in cui anche Melegnano, come già dicemmo, subì il famoso triste saccheggio operato da Radetzky, ogni cittadina lombarda era ormai presidiata da truppe austriache. In Melegnano, presso il castello ed alcune case di via Dezza e dell’attuale via Cavour, stazionavano i soldati del secondo reggimento Gustav Ghepper, comandati da un italiano, il maggiore ufficiale Vamagini. Per posizione geografica e tattica, il nostro paese vedeva un continuo afflusso di truppe di presidio e di passaggio.  E quando furono scaduti gli otto mesi dopo l’armistizio dell’agosto 1848, Carlo Alberto riprese le operazioni di guerra, il 16 marzo 1849.  Ma ora l’iniziativa era maggiormente favorevole nelle mani di Radetzky, che volle condurre un’azione più massiccia e più a fondo contro il Piemonte per scoraggiarlo definitivamente.
La fine delle speranze
A Melegnano arrivarono 19.000 austriaci, parecchie batterie e decine di carri di munizioni e di materiale bellico. Le truppe trovarono il posto per vitto e alloggio nelle case private, nelle osterie e negli scantinati. Furono i medesimi 19.000 che, uniti ad altre migliaia, si scontrarono con le truppe piemontesi.  La clamorosa sconfitta di Carlo Alberto è troppo nota da doverla qui rievocare: era il 23 marzo 1849 a Novara, la fatal Novara di carducciana memoria perchè da Carducci evocata in una sua celebre poesia.  La prima guerra per l’indipendenza italiana era perduta. Carlo Alberto abdicò, e partì per la cittadina portoghese di Oporto.  Il figlio, Vittorio Emanuele II° divenne il nuovo re del Piemonte. La pace fu segnata in Milano il 6 agosto 1849. L’Austria aveva vinto, e in Italia rimanevano, come a Melegnano, i segni doloranti delle rovine.  Ma la vittoria austriaca segnò lo scatenarsi della più cruda reazione vendicativa: Brescia, Firenze, Napoli, dopo poco tempo di libertà politica e amministrativa, ricaddero sotto il pieno assolutismo dell’Austria, mentre Venezia crollava per fame e per colera.
Cavour
Iniziarono gli anni del ripensamento politico ed ideologico, di meditazione retrospettiva e di riassetto dei programmi operativi, e soprattutto furono gli anni della audace e realistica politica di Camillo Benso conte di Cavour.  Davanti alla constatazione di una forza austriaca in Italia, maturava, in senso più vasto e maggiormente popolare, il concetto più moderno e più logico di riunirsi tutti intorno alla monarchia piemontese, come unica possibile nella lotta per l’indipendenza. Lo stesso movimento garibaldino accettava praticamente di collaborare con le direttive monarchiche, lasciando da parte le pregiudiziali repubblicane.  In tale atmosfera rinnovata politicamente e militarmente maturarono le grandi giornate del giugno del 1859. Il giorno 4 giugno avvenne la battaglia di Magenta dove l’Austria fu messa alle corde con una forte sconfitta; ed il mattino del l’8 giugno Vittorio Emanuele II° e Napoleone III° entrarono in Milano libera dall’Austria.  A Melegnano, dopo la vittoria di Magenta e l’entrata in Milano dei due sovrani, stava ritirandosi un forte contingente di truppe austriache, sia per passare la notte, sia per riprendere fiato e riorganizzarsi prima di ulteriore ritirata verso zone più sicure.  Ma la presenza degli austriaci a Melegnano, poco lontano da Milano, poteva creare difficoltà militari agli eserciti franco-piemontesi, ed allora si decise un azione su Melegnano. La battaglia avvenne la sera di mercoledì 8 giugno 1859. Il paese fu investito dagli zuavi al comando di Eugenio Paulz d’Ivoy. Fu un combattimento breve ma sanguinoso, che i Francesi vinsero ma a caro prezzo. Il ricordo di tale battaglia è il monumento Ossario, opera di Donato Barcaglia, dove ogni anno si tiene la commemorazione civica.  Assolutamente parlando non fu una battaglia decisiva delle sorti del conflitto armato, perché ciò era già avvenuto a Magenta ed avverrà a S. Martino e a Solferino il 24 dello stesso mese di giugno; tuttavia psicologicamente e strategicamente la battaglia di Melegnano doveva essere vinta dai Francesi, almeno per non turbare l’equilibrio di vicende belliche che si avviavano alla conclusione.
Analisi della battaglia
Il racconto della battaglia ci è pervenuto da parecchie fonti storiche. Noi abbiamo seguito sostanzialmente quella di Giacomo Frassi (1831-1893), melegnanese, perché fu testimone oculare. Tuttavia abbiamo consultato anche altre fonti, per controllarne le convergenze.  In seguito alla battaglia di Magenta del 4 giugno, essendosi deciso dall’Austria lo sgombero della Lombardia, incominciarono a passare per Melegnano diversi corpi di truppe diretti verso il quadrilatero. Il giorno 5 vi passarono in disordine circa 12.000 uomini appartenenti a diversi corpi provenienti da Milano, oltre diversi altri trasporti separati ed una quantità di bagagli. La notte dal 5 al 6 passarono molti carri carichi di feriti e di viveri provenienti da Pavia. La mattina del 6 alle ore 9 passò, proveniente pure da Pavia, una quantità di buoi e carri di farina scortati da panettieri e da alcuni ulani. Verso sera dello stesso giorno arrivò la brigata comandata dal maggiore generale barone Ròden forte di circa 8000 uomini appartenenti all’80 corpo d’armata di Benedeck, che si fermò.  Alle ore 9 del giorno 7 passò il rimanente dell’armata di Benedeck, dai 20 ai 30 mila uomini diretti verso Lodi, ed alle ore 16 un reggimento di cavalleria dragoni conte Horvath e degli ulani.  Il generale Ròden, appena arrivato, fece occupare militarmente anche le vicine frazioni della Maiocca, l’osteria della Rampina e la Rocca Brivio, s’impossessò di tutte le chiavi dei campanili ordinando che si staccassero le corde delle campane, ritirò tutte le scale a mano che potè rinvenire, fece praticare feritoie in un muro di cinta che trovavasi in principio del paese a sinistra entrando dalla parte di Milano, organizzò il servizio degli esploratori con un corpo di dragoni, alcuni dei quali il giorno 7 spintisi fino alla Cascina Gamboloita a due chilometri da Milano, requisirono il fittabile signor Vincenzo Albertario conducendolo a Melegnano per provare al loro generale che si erano spinti fin là, e constatarono la presenza dei francesi in Milano.  Prese insomma tutte quelle misure che dimostravano chiaramente esser sua intenzione di fortificarsi nel paese, forse per dar tempo alla sconfitta armata di Magenta di guadagnare le fortezze.  Allorché l’imperatore Napoleone ebbe avviso di questa intenzione degli austriaci, ordinò che il nemico venisse tosto snidato da questa posizione troppo vicina a Milano. La mattina del giorno 8 assai per tempo il I° corpo d’armata comandato dal generale Baraguey di Hilliers, formato dalle divisioni Forey, Ladmiraut e Bazaine, si avviava per la strada Romana verso Melegnano mentre il II° corpo d’armata di Mac Mahon, posto per questa circostanza sotto gli ordini di Baraguey, lo aveva già preceduto nella medesima direzione con incarico di deviare a levante per formare l’ala sinistra, e quello di Niel fece altrettanto verso ponente per l’ala destra. Era così combinato l’investimento del paese a destra a mezzo di Niel, nel centro, ossia di fronte, col corpo di Baraguey ed a sinistra con quello di Mac Mahon; anzi quest’ultimo, per la sua special posizione, era destinato ad occupare la strada di Lodi al di là di Melegnano, prendendo il nemico alle spalle ed intercettandogli la ritirata da quella sola parte in cui questa era possibile.  Questi diversi corpi però, per poter più speditamente avanzarsi, sembra si fossero in varie località suddivisi prendendo diverse strade, per cui si può dire che nella giornata dall’avvenuto combattimento trovavansi truppe francesi (tre corpi d’armata) sparsi in una gran zona di territorio per un quattro o cinque chilometri tutto all’ingiro di Melegnano, eccetto che nella direzione di Lodi.  Infatti non son pochi i testimoni oculari che ne videro in diverse località senza potersi formare una chiara idea della strada che potevano aver percorsa né dove intendessero recarsi, e forse anche in posizioni non troppo in armonia col piano generale d’attacco, poiché i comandanti erano sprovvisti di carte, inconveniente questo di tanto maggior conseguenza trattandosi di una zona attraversata in mille direzioni da numerosi corsi d’acqua e da fitte piantagioni.  Verso le ore 16 del giorno 8 furono dagli austriaci segnalate alcune vedette francesi a Carpiano verso il confine della provincia nostra con quella di Pavia, come da relazione fatta da un ufficiale dei dragoni al generale Ròden sulla piazza di San Giovanni; altre se ne segnalarono contemporaneamente a S. Giuliano sulla strada di Milano, e, avendo quasi nello stesso tempo il Municipio di Melegnano spedito a Colturano un facchino con un croato per requisire del vino, questi, abbandonò il carico requisito e se ne fuggì precipitosamente in paese a raccontare di aver veduti colà i francesi.  Questa scoperta quasi simultanea di truppe francesi nelle dette località, ad una distanza dai due chilometri e mezzo ai quattro di Melegnano fece persuasi gli austriaci che il momento decisivo era assai prossimo e che bisognava apprestarsi a sostenere la lotta da diverse parti in una sol volta.  Si appostarono due cannoni all’ingresso del paese dalla parte di Milano dietro una barricata con terrapieno elevato attraverso la strada; fu collocata la truppa dietro il muro di cinta con feritoie esistenti là vicino a sinistra entrando e furono occupate diverse case sulla via allora detta il Ponte di Milano, poi dopo quel giorno, via della Vittoria. Al portone di S. Rocco fu munita di truppa la barricata ivi costituita con una grossa botte e qualche altro attrezzo, e ne fu pure collocata nella casa stessa del Portone, negli orti vicini e nei locali del Castello. Altra ne fu collocata poco fuori del paese all’imbocco della strada di Landriano dietro un parapetto fatto con mattoni posticci tolti ad una vicina fornace, e furono pure occupati il caseggiato ed orto di S. Francesco dominante la strada che viene da Pedriano.  Nel cimitero, posto a circa 200 metri dal paese sulla strada di Milano, erano stati fatti dei rialzi di terra dietro i muri di cinta per conseguire l’altezza necessaria al tiro del fucile, furono applicate le scale per lo stesso scopo, fu puntellato con alcuni tronchi di piante il cancello di ferro sull’ingresso, ed una larga breccia fu fatta nel muro di mezzodì per provvedersi di una uscita.  Nessuna difesa fu predisposta all’uscita del paese verso Lodi, forse nella persuasione che da quella parte più che una difesa sarebbe occorsa una strada libera per lo scampo.  Sulla piazza centrale di S. Giovanni trovavasi schierato un battaglione delle migliori truppe (boemi) e fu osservato dagli abitanti come quegli uomini colla loro trepidanza lasciassero intravvedere che il coraggio difficilmente può tener saldo nell’attendere a piè fermo un nemico già preceduto dalla fama di riportate vittorie e che poteva piombar loro addosso non visto se non quasi a tiro di baionetta.  Verso le ore 18 si udì un colpo di cannone; era il corpo centrale di Baraguey d’Hilliers, divisione Bazaine, che sullo stradale di Milano ingaggiava combattimento contro i due pezzi di artiglieria austriaca appostati all’ingresso del paese. Gli abitanti si rinchiudono nelle loro case, ed alcuni più ansiosi di vedere pei primi la divisa francese e che quindi tardavano a rincasare, vengono pregati dai comandanti austriaci di ritirarsi per il loro meglio, con raccomandazione di non affacciarsi né ad usci, né a finestre. Con tutto ciò un garzone bottaio per nome Lorenzo Negri, d’anni 17, che abitava la casa a destra dell’albergo delle Due Spade al N. 84, chiusa la bottega e salito nella camera superiore andava muovendo le griglie della finestra dietro le quali stava spiando cosa avvenisse nella strada, ma una palla francese lo colpì nel capo e lo stese morto. Fu questa la sola vittima cittadina che si ebbe a deplorare, vittima piuttosto della curiosità che della guerra.  Dicemmo che il corpo di Mac Mahon costituendo l’ala sinistra era destinato ad occupare la strada di Lodi per intercettare al nemico la ritirata. Sembra che, soltanto ad un convenuto segnale di questa mossa riuscita, il Corpo Centrale di Baraguey dovette attaccare il nemico dalla parte di Milano, ma tardando il convenuto segnale, facendosi ora tarda ed essendo sopravvenuto un forte acquazzone i soldati di Bazaine vollero rompere gli indugi e sollecitare l’occupazione del paese onde passarvi la notte ad asciugarvisi ad un buon fuoco, come essi medesimi ebbero ad asserire. Dopo una mezz ora di cannoneggiamento si precipitarono quindi a corsa verso il paese e molti zuavi poiché erano già bagnati dalla pioggla, approfittarono del riparo naturale della roggia Spazzola che fiancheggia il lato sinistro della strada, percorrendola con l’acqua fino quasi alla cintola onde sottrarsi alla meglio agli ultimi colpi dei cannoni austriaci: superano la barricata ed incominciano la micidiale impresa di espugnare ad una ad una diverse case, dalle cui finestre piove una grandine di proiettili.  Dei due pezzi di artiglieria austriaca uno scampò, l’altro fu abbandonato nel paese, vicino all’albergo Madonna, oggi sede della Cariplo.  Frattanto un distaccamento francese si era portato alla Rocca Brivio dove fece prigioniera una intera compagnia austriaca senza tirare un sol colpo, e per il semplice incidente di trovarsi tale compagnia comandata da un capitano ungherese, il quale, al primo tuonar del cannone aveva già dichiarato agli impauriti abitanti di quella specie di fortilizio essere sua intenzione di arrendersi tosto che la divisa francese si fosse a lui presentata.  I prigionieri furono condotti a S. Giuliano e rinchiusi in una chiesetta, donde furono tratti a Milano la seguente mattina all’albeggiare.  Un’altra colonna staccatasi dal corpo di Baraguey alla Cascina Maiocchetta sulla destra della strada maestra, dopo avere subito forti perdite per il nemico appostato negli orti e nelle case di quel cascinale e dell’altro della frazione Maiocca che viene in seguito, si presenta ad espugnare il portone di S. Rocco.  Gravi qui furono le perdite del I° Reggimento Zuavi che doveva combattere allo scoperto contro nemici difesi dietro ripari e celati dietro il fogliame degli alberi, e vi fu un momento in cui si suonò a raccolta, forse per girare il nemico o per appostare qualche pezzo d’artiglieria, ma non sentendo i combattenti il segnale ed essendosi spinto avanti il loro colonnello Paulz d’Ivoy per fare ritirare i suoi, venne ferito a morte vicino alla chiesa di San Rocco, sull’angolo della casa del Sig. Luigi Gallina. La caduta del loro colonnello segnò il momento, in cui gli zuavi, esasperati dall’ira si precipitarono sulla barricata e la superarono non dando quartiere a quanti loro capitava nelle mani. Anche un capo tromba che accompagnava il colonnello e che chiamava incessantemente a raccolta vi trovò la morte poco lontano dal suo comandante.  Corsero poi defilati al castello, e dopo breve resistenza ne sloggiarono i difensori.  Quantunque sia difficile il constatare con precisione quale dei due fatti d’armi abbia avuto luogo per il primo, cioè se questo al Portone di S. Rocco o l’altro all’ingresso della strada di Milano, e ciò per la notevole distanza che corre fra le due località, pure non si può andare lontano dal vero congetturando che siano avvenuti quasi contemporaneamente.  Intanto si era scatenato un furioso temporale, che mescolava insieme urla, sparatorie, sangue ed acqua. I testimoni oculari riferivano che il ribollimento delle pozzanghere colpite dai goccioloni fitti e rapidi dava l’idea di un macabro ributtante risotto quando bolle nella pentola.  Nella via altre volte detta della Gendarmeria, ora Cavour, trovasi un caseggiato, ora Casa di Riposo, detto il Castellazzo, dietro il quale era un vasto giardino che scende a pendio verso il Lambro a guisa di un colle. Sia che un certo numero di austriaci, fugato forse dalle case espugnate in principio del paese, attraversando orti e giardini fosse pervenuto in questa località che pareva opportuna a prendere un po’ di fiato, sia invece che il luogo fosse stato preventivamente occupato come opportuno a sorvegliare l’accesso in paese dalla parte di Colturano standosene a riparo dietro il fiume, il fatto è che una forte mano di turcos comparsa sull’opposta sponda della strada del Cimitero fu accolta a fucilate.  Questi non perdettero tempo a consultarsi sulla migliore via a
prendere per arrivare al Castellazzo, né s’accontentarono di scambiar colpi di fucile, ma gettatisi nel fiume sotto il tiro nemico guadagnarono la riva e fecero un massacro generale di quanti poterono agguantare senza dare tregua né ad armati, né a disarmati (circa una settantina). Un austriaco fu trovato cadavere sopra una pianta di gelso, dove forse erasi ricoverato sperando di allontanarsi alquanto dal tiro delle baionette francesi, ed un comandante andò a precipitare col proprio cavallo giù per la scala di una cantina che si trova nella corte, facendo barricata coi due corpi contro l’uscio della cantina stessa con non poco spavento dei proprietari che vi si erano rifugiati.  Altri combattimenti di minore importanza ebbero luogo nelle vie interne del paese e specialmente nella via S. Giovanni, che dalla Piazza omonima mette a quella del Castello, ed all’uscita dell’abitato sul principio della strada di Lodi, dove il 33° di linea francese tentò inseguire il nemico.  Il grosso del corpo austriaco, uscito per la strada di Lodi, trovò presso l’osteria della Bernarda, posta a circa un chilometro dal paese, la brigata Boer che si apprestava a venire in suo soccorso, il quale non poteva aver effetto perché la posizione era perduta. Si limita quindi il Boer a tirare su Melegnano alcuni colpi di cannone onde impedire un inseguimento, il quale però era già da se medesimo impossibile per essersi fatta notte e per le gravi perdite subite dal vincitore.  Di questi ultimi saluti del fuggente nemico si osservavano le tracce in alcune palle sferiche da cannone da campagna infisse nei muri, di cui due nella facciata prospiciente la strada di Lodi della Cascina Pallavicina, una al di sopra della porta Sud dell’Osteria S. Giorgio ed una nella cucina nella casa di Via Cavour del dott.  fisico Luigi Moro. Una poi colpì lo spigolo di una finestra della casa ora posta sulla Piazza Risorgimento, gettandone nella camera frantumato il telaio, casa che si distinse il giorno appresso per l’accoglienza e le cure che in essa si prestarono ai feriti, talché il signor Francesco Spernazzati studente farmacista, figlio del proprietario si acquistò la medaglia al valore civile conferitagli dal nostro Governo.  Vennero così le nove di sera che tutto era finito, ed il silenzio della notte non veniva interrotto ad intervalli che dalle grida di gioia dei vincitori che bivaccavano sulle piazze e nelle vie intorno a crepitanti falò, forbendo le insanguinate lame destinate ad altre imprese.  Breve fu la durata del combattimento, ma relativamente grande fu la strage subita da ambe le parti, poiché si calcolano a 940 i francesi morti o feriti e 1200 austriaci. Questi poi ebbero, dicesi, circa un 800 prigionieri e perdettero un cannone. E’ voce comune in Melegnano che lo stesso generale Ròden sia stato ferito mortalmente e che sia spirato nel trasportarlo a Lodi.  Le forze austriache che presero parte alla pugna erano circa 8000 uomini dei quali sofferse maggior perdite il reggimento Principe Alberto di Sassonia composto di boemi. Le forze francesi erano circa 5 o 6 mila uomini, di cui soffersero maggiormente i reggimenti 1° zuavi, che, come si disse perdette anche il proprio colonnello, e 33° di linea che ebbe ferito il colonnello Bordas e che fu in pericolo di perdere la propria aquila avendone avuta spezzata l’asta.  Sembra che la sola divisione Bazaine con poca parte di quella Ladmirault abbia sostenuto la lotta, poiché la divisione Forey staccatasi a destra ed il rimanente di quella Ladmirault a sinistra non pervennero a guadagnare Melegnano che a fatti compiuti o poco meno: anzi qualche fucilata fu scambiata fra i soldati di Bazaine già padroni del paese e quelli del Forey che arrivarono più tardi, e vi furono dei feriti. Dei due corpi d’armata poi di Mac Mahon e di Niel si sa che il primo fu trattenuto nei dintorni di Dresano dalle difficoltà topografiche del terreno ed il secondo non si mosse dai dintorni di Carpiano per tenere in soggezione un corpo di austriaci che accampava a Landriano. Dicesi che fosse intenzione del Baraguey non già di prendere Melegnano d’assalto, ma di bombardarlo, se il paese fosse stato di minore importanza e che gli dispiacque assai quando seppe che si trattava di una grossa borgata anziché di un villaggio.
I Melegnanesi nel Risorgimento italiano
I Melegnanesi di cui si ha notizia certa della loro partecipazione al Risorgimento italiano sono diversi e con differenti presenze. Santo Garavaglia imprigionato nelle carceri di Mantova per le sue idee liberali. Conobbe lo strappo della famiglia, la lontananza degli amici, l’abbandono di Melegnano, i rigori e le persecuzioni inflitti ai patrioti. Era un fervente mazziniano. Morì in Melegnano circondato dall’affetto di tanti conoscenti.  Gaetano Orlandi, combattè a Milano nelle Cinque Giornate del marzo 1848. Fu volontario nel 1859 con le truppe piemontesi durante la seconda guerra per l’indipendenza. Nel 1860 e 1861 era nell’esercito italiano del generale Fanti e Cialdini, e nel 1867 venne inviato contro il brigantaggio del Sud (metà esercito piemontese era stato inviato nel Mezzogiorno).  Luigi Zoncada figlio di Gerolamo un padre ardente patriota ed esemplare nella pubblica amministrazione. Luigi tornò a casa ferito durante una delle guerre per l’indipendenza. Parimenti un deciso aperto patriota liberale fu Giuseppe Sgarlini, uomo di forte tempra, colto, scrittore, circondato da tanta stima.  Francesco Bellada, partecipò sedicenne, abbandonando la madre ed i fratelli, alla campagna garibaldina del 1860 nel Sud. Nel 1866 era ancora con Garibaldi a Bezzecca, durante la sfortunata terza guerra per l’indipendenza, quando l’esercito garibaldino soltanto riportava, in territorio settentrionale, brillanti vittorie, e quando Garibaldi dovette telegrafare il celebre « Obbedisco » ed interrompere la marcia vittoriosa.  Carolina Dezza, madre di Giuseppe Dezza, morta a ottant’anni, credente nell’unità d’Italia, trepidante e sofferente per il figlio garibaldino, uno dei Mille, Giuseppe.  Giuseppe Dezza, tenente generale, nato a Melegnano nel 1830 e morì in Milano il 14 maggio 1898. Poco più che giovanetto ed ancora studente combattè la ,prima volta per l’indipendenza d’Italia nel 1848, dopo che l’università di Pavia, chiusa nel 1847 per ordine austriaco, non potè più ricevere gli studenti (Dezza era iscritto nella facoltà di matematica).  Nel 1859 fu tenente del battaglione dei Cacciatori delle Alpi, il corpo speciale militare creato da Garibaldi. Dezza era con Nino Bixio, comandante maggiore, ed in quell’anno si guadagnò la sua prima medaglia al valore. Quando la brigata garibaldina dei Cacciatori delle Alpi fu incorporata nell’esercito regolare, Dezza vi prestò servizio per pochi mesi, poi ne uscì per andare con la spedizione dei Mille, nella quale fu accettato come tenente della prima compagnia di Bixio.  All’assalto di Palermo era già capitano e comandava un battaglione. Ad ogni combattimento Dezza è tra i primi e tra i più attivi.  Al Pianto dei Romani, di fronte a Calatafimi, il primo scontro con i Borbonici, accorre presso Garibaldi che gli avevano detto in pericolo. Garibaldi lo accoglie sorridente e gli dice: « Siete qui, ingegnere? », e gli ordina di attaccare il nemico. Ancora Garibaldi, durante questo scontro, ad altra truppa sopravvenuta ordina « Seguite il capitano ». Ad una sosta durante la marcia, il capitano Dezza viene chiamato nella tenda di Garibaldi che era con Bixio, Sirtori, Turr ed altri. Garibaldi lo accoglie con un sorriso e gli dice: « Lasciate che io stringa la mano ad uno dei più valorosi che io abbia conosciuto ». L’emozione è tale che a Dezza manca la parola.  Dopo l’assalto al Ponte dell’Ammiraglio ed a Porta Termini in Palermo, Dezza è sulle barricate. Conquistata la città, Garibaldi lo chiama e lo saluta dicendo; « Caro maggiore!...».  Quando i garibaldini sbarcarono a Reggio tratta con Garibaldi la resa dei Borbonici. Poi la marcia si avvia verso Napoli, dove i garibaldini entrano il 7 settembre 1860 tra la folla in delirio. Bixio passa al comando della divisione e Dezza è nominato colonnello, ed a Maddaloni passa dal comando del reggimento al comando della brigata dove una mossa strategica contro il nemico assicura la vittoria.  Il 26 ottobre Garibaldi ordina alla divisione di Bixio di passare il Volturno, Bixio cade da cavallo e si rompe una gamba: il comando è affidato a Dezza, mentre Garibaldi gli dice: « Bixio desidera che siate voi a sostituirlo. Abbiate fiducia in voi stesso, caro ingegnere ».  Dezza riceve il re Vittorio Emanuele II° sulla strada di Teano per il famoso incontro con Giusepe Garibaldi. Da quel giorno incomincia la stima e l’amicizia del re per Dezza.  Dezza lascia Napoli e a Natale è a Melegnano con la divisa di colonnello garibaldino, uno dei famosi Mille. Nel 1862 è al comando di un reggimento, il 290, di stanza a Casalpusterlengo e contemporaneamente riceve la Croce Ufficiale di Savoia: Dezza ha 32 anni, entra nell’esercito regolare, come ufficiale.  Proprio nel 1862 Garibaldi, in giro di propaganda per l’istituzione dei tiri a segno, di ritorno da Lodi, si ferma, il 26 marzo, a Melegnano, espressamente per salutare la famiglia di Dezza; e nella ressa di tante autorità e personaggi Garibaldi si china a baciare la mano della madre di Giuseppe Dezza, Carolina.  Scoppiata la terza guerra per l’indipendenza il Dezza è al fronte, dove gli fu necessario prendere il comando di divisione in località Oliosi, Campagna Rossa, Montevento, Mongabbia. Qui Dezza dovette riparare agli sbagli altrui e ritirarsi al di qua del Mincio, dopo aver ordinato una carica a Campagna Rossa, un episodio che fu celebrato dal poeta Giovanni Pascoli. Dopo questo conflitto Dezza fu nominato maggiore generale ed insignito della commenda di Savoia, e nel 1872 è nominato aiutante di campo del re.  Fu al seguito del re nel 1873 a Vienna ed a Berlino e rimase accanto al sovrano fino al 1877. Inoltre preparò a Roma l’incontro tra Vittorio Emanuele II° e Garibaldi al Quirinale. Garibaldi, quasi immobilizzato dall’artrite, si trovò con il re per circa una mezzora, ed il Dezza dava l’annuncio ai giornali. Questo incontro, preparato e voluto dal Dezza, portò un grande servizio alla pacificazione degli animi repubblicani intemperanti che ancora erano in Roma e che volevano organizzare proteste e disordini contro la monarchia.  Dopo il 1877 Dezza fu nominato comandante di corpo d’armata ad Ancona, poi a Bologna, ed infine a Milano. Partecipò alla vita politica come deputato di Codogno nella XIII° e XIV° legislatura.  Gli venne offerto dal primo ministro Cairoli il ministero della guerra, ma egli rifiutò. Fu nominato senatore del regno e collocato in riposo con il grado di comandante di corpo d’armata. Alla sua morte ebbe funerali grandiosi. Oggi riposa nella cappella cimiteriale di famiglia in Melegnano.  Milano e Melegnano gli hanno dedicato una via ed un busto.  Il busto in Melegnano è posto sotto il porticato del palazzo comunale. Nel 1963 era stampato un libro dal titolo Memorie autobiografiche e carteggio per cura dell’editrice Renon di Milano.  Nell’elenco alfabetico di tutti i componenti la spedizione dei Mille in data 1 ottobre 1878, pubblicato in Supplemento ai numero 226 della Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia del 12 novembre 1878 alle pagine 1-24, troviamo due garibaldini melegnanesi: uno, appunto, è Giuseppe Dezza, il secondo è Carlo Adamoli di Francesco, nato a Milano il 22 marzo 1842 e residente a Melegnano, di professione fittabile.  Ed ecco anche i fratelli Secondi: Carlo che fuggì da casa e fu rimandato indietro da Garibaldi perché era troppo giovane; Vincenzo fu nei Cacciatori delle Alpi; Giuseppe era tra i Garibaldini di Bezzecca.  Chiudono la schiera Carlo Cordoni, cugino di Giuseppe Dezza, e che militò, egli pure, nei Cacciatori delle Alpi con il melegnanese Domenico Tensali a Como nel 1859; Ferdinando Cadei, farmacista, morto nella battaglia di Calatafimi il 15 maggio 1860; Giovanni Mamoli di Lodivecchio, agricoltore; Daniele Ricotti, medico di Landriano.  Rinaldo Massironi e Giuseppe Mazzoletti, reduci dalle guerre del Risorgimento, fondarono e diressero per tanti anni la Società patriottica melegnanese « 8 Giugno » per raccogliere i reduci delle pa-trie battaglie.  E’ importante, inoltre, ricordare che, dopo il 1859, a Melegnano si istituì un distaccamento garibaldino per l’arruolamento dei volontari, cui stava a capo il comandante Giovanni Battista Zafferoni, il quale aveva ricevuto espressamente da Garibaldi l’incarico di organizzare reclutamenti a Melegnano e nel distretto.  Grande festa a Melegnano, come dicemmo, quando venne tra noi lo stesso Garibaldi, fermandosi a salutare i Melegnanesi e la madre di Giuseppe Dezza, la signora Carolina. E Melegnano, nel ricordo di questi fatti e uomini, fissò nelle piazze e nelle vie le vicende garibaldine: piazza Garibaldi, via Giuseppe Dezza, via Nino Bixio, via Dei Mille, via Volturno.  Il 5 maggio 1982, a Genova, il sindaco di Melegnano, Michele Bellomo, riceveva dal presidente del consiglio Giovanni Spadolini la medaglia d’onore, perché Melegnano è città Garibaldina, con altre 280 città italiane degne di questo nome.
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