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Il dominio dei Visconti
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  La famiglia viscontea
Nel periodo dei Visconti, che va da Matteo I° (+1322) a Filippo Maria (+1447), Melegnano fu coinvolta in vasta misura nelle vicende locali milanesi, regionali lombarde, in avvenimenti nazionali fino alle grandi ambizioni e lotte sul terreno politico e militare, con i risvolti nell'economia e nei settori sociale, religioso ed artistico. Il ramo genealogico dei Visconti, con i quali Melegnano fu in stretto rapporto, è riportato più sotto. Per dare un'idea in estrema sintesi delle difficoltà e della tristezza anche di quei tempi, basti osservare che Matteo morì scomunicato, Galeazzo fuggiasco, Luchino avvelenato, Matteo II° ucciso dai fratelli, Bernabò in carcere, Giovanni Maria trucidato, Filippo Maria maledetto da tutti. Ma, nonostante questa tetra visione sulla fine di ogni membro della famiglia Visconti, per oltre un secolo si sviluppò un intenso e complesso cammino storico nel quale si manifesta non solo la storia di Milano, ma la storia dei Visconti e del loro ducato, cioè della dinastia che era al comando. In tale storia entra anche Melegnano come componente della vita ducale e della famiglia che reggeva il potere. Anzi, possiamo dire che Melegnano potrebbe essere un esempio in piccolo di ogni forma del dominio visconteo in ogni campo: amministrativo, politico, economico e sociale, religioso ed artistico, proprio per gli interventi diretti su Melegnano da parte dei Visconti ed anche per la presenza folta di uomini melegnanesi nel movimentato groviglio di interessi.


Gli atti amministrativi
L'organizzazione centralizzata del dominio rese più efficace l'intervento per la manutenzione della rete di strade e di acque nella Bassa Milanese. Difatti nel 1313 fu concesso ai monaci di Chiaravalle il permesso di scavare un fosso luogo la strada per Melegnano, tra Rogoredo e San Martino. Si afferma che “...strata de Mellegnano, Communis Mediolani, que valde est utilis dicto Communi, pro negotiacionibus et salle et aliis que ducuntur per ipsam stratam ad civitatem Mediolani...” che, tradotto, significa: la strada di Melegnano, del Comune di Milano, è assai utile al detto Comune, per l'approvvigionamento sia del sale sia di altre merci che entrano in Milano attraverso la stessa strada. Melegnano fu la frequente dimora dei Visconti. Qui potevano continuare il controllo e l'amministrazione delle loro terre e le azioni della loro politica. Un altro figlio di Matteo, Giovanni, che divenne arcivescovo di Milano, da Melegnano inviava molte lettere diplomatiche e di un certa importanza politica, specie negli anni 1351-1352. 
Alla morte di Matteo II° (28 settembre 1355) i fratelli superstiti si divisero i poteri e così “ civitas et comitatus Mediolani pro medietate divisa remansit et castra comitatus. Nam castra Modecie, Vigleveni et Albiate habuit dominus Galeaz, castra autem Melegnani Pandini et Vapri habuit prefatus dominus Bernabos...”. Si dice che la città ed il contado di Milano furono divisi per metà, e lo stesso avvenne per i castelli che erano fuori Milano: Galeazzo ebbe i castelli di Monza, Vigevano ed Abbiate, mentre Bernabò ebbe i castelli di Melegnano, Pandino e Vaprio d'Adda. 
Bernabò Visconti
La figura che maggiormente colpì la fantasia e che rimase lungamente nella memoria dei melegnanesi fu quella di Bernabò, nipote di Matteo. La sua opera più importante in Melegnano fu la ricostruzione del castello, non sappiamo in quale misura e con quali aggiunte strutturali. E' certo che dopo di lui il castello ebbe bisogno di interventi per restauro; ma la forma definitiva fu data da Bernabò: lo scrittore Paolo Giovio, storico e letterato vissuto tra il 1483 ed il 1552, riporta che Bernabò, signore di Milano, edificò sulla riva del fiume Lambro nella terra di Maregnano, una grandissima casa simile ad una forte rocca con ponte.  La dimora di Bernabò nel nostro castello era usuale. Teneva una fitta corrispondenza epistolare: sono circa sessanta le lettere partite dal nostro castello dagli anni 1347 al 1384, un anno prima della morte. In alcune di queste lettere sono ricordati anche personaggi melegnanesi, come nella lettera del 20 dicembre 1346 in cui fa sapere di aver dato alcune risposte agli ambasciatori del Comune di Cassano d'Adda, tra i quali figurano prete Giovanni da Marignano e Mercato dei Ronzoni di Cassano d'Adda, dove veniamo a sapere anche che i Cassanesi sono accolti e considerati come buoni sudditi. Oltre alla dimora in castello, Bernabò aveva in Pedriano una palazzina, diroccata ed atterrata verso la fine del 1700, dove allevava i cani. 
In genere queste lettere di Bernabò sono scritte tutte nei mesi di luglio, settembre e ottobre; rarissime quelle scritte in inverno o negli altri mesi. Il contenuto delle lettere riguarda i capitani di ventura, l'amministrazione concreta del dominio visconteo, notizie di battaglie e di scaramucce, ordini ai podestà, ringraziamenti per favori ricevuti, questioni giuridiche o penali, atti politici, informazioni sui sudditi. Tali lettere nominano parecchie città italiane: Bologna, Brescia, Canossa, Cremona, Ferrara, Mantova, Mirandola, il Monferrato, Padova, Parma, Reggio Emilia, la Sovoia, Treviglio, Venezia, Verona. Vi sono anche stati e nazioni come la Germania e l'Ungheria; ceti sociali come cardinali spagnoli. Furono, cioè, queste lettere viscontee un motivo indiretto per rendere meglio conosciuto, nella geografia del tempo, il paese di Melegnano come dimora pacifica e tutta viscontea. Si potrebbe asserire che, ancora prima del 1500, proprio i Visconti avessero portato Melegnano ad un livello di conoscibilità più ampiamente italiana ed europea, perchè i destinatari delle lettere in Italia e all'estero osservavano alla fine dello scritto epistolare la data ed il luogo di partenza che era appunto Melegnano, un paese che prima era solo conosciuto nell'ambito delle lotte comunali in un raggio locale e ristretto, mentre con i Visconti stava assumendo qualifiche territoriali di una delle signorie più conosciute. Porta il segno di Bernabò Visconti un'altra opera pubblica: la strada Pandina, tra Melegnano e Pandino: un rettifilo che congiunge Melegnano attraverso Mulazzano e lungo circa 18 chilometri: fu un'opera pubblica necessaria per un funzionale allacciamento dei castelli e delle riserve di caccia. E nel quadro strategico territoriale Melegnano si trovò al centro di collegamento tra l'Adda e il Ticino mediante la Pandina e la strada Landriano-Pavia; mentre, per mezzo della via Emilia era assicurato il collegamento tra Milano ed il Po. Nel castello di Melegnano il feroce Bernabò si portava molto spesso anche la sua amante, Donnina de Porri, naturalmente mal tollerata dalla legittima moglie Regina della Scala. L'amante Donnina de Porri era un valido aiuto anche nell'amministrazione del vasto dominio. Per l'amministrazione locale di Melegnano e soprattutto per la difesa del castello e del territorio, Bernabò usava il castellano, impiegato anche per controllare la riscossione delle imposte e del pedaggio al ponte Lambro. Ci sono arrivati alcuni nomi, un certo Nicolò Cavazia era castellano sotto Bernabò, ed il riscuotitore delle imposte aveva nome Beltramino Mainiero, figlio di Pietro, abitante a Milano. Talora Bernabò sceglieva i melegnanesi per motivi tributari: Mazzacane da Melegnano venne inviato per riscuotere le tasse a Novara e a Vercelli, ma la sua cattiveria gli procurò il soprannome di Mazzauomini. Tuttavia era un tipo gradito a Bernabò, perchè questo stesso Mazzacane nel 1347 era nel corteo nobiliare di Isabella Fieschi che andava a Venezia con dame e cavalieri rappresentanti di Milano, per sciogliere un voto. E un gruppo di capifamiglia melegnanesi saliva quasi ogni sera in castello per tenere compagnia a Bernabò, creando in tal modo una relazione di conoscenza e di amicizia con parecchie famiglie melegnanesi. 
Leggende e tradizioni su Bernabò
La vita di Bernabò Visconti e la frequente permanenza a Melegnano furono motivo di leggende, novelle, racconti e storielle: la novella del contadino che riaccompagna a Melegnano Bernabò che si era sperduto nei boschi andando a caccia, e che non conoscendo Bernabò parlava male di lui fino al castello di Melegnano, con grande paura poi di essere castigato; gli ambasciatori del papa che furono costretti sul ponte del Lambro a mangiare la bolla della scomunica se non volevano bere l'acqua del fiume affogando; i festini e le orgette in castello, quasi piccole abbuffate, terminanti con la misteriosa liquidazione delle belle donne melegnanesi; i trabocchetti agli angoli della piazza castello; i sotterranei cupi che univano i punti più lontani di Melegnano; la casa dei cani a Pedriano. Questi raccolti e storielle, che furono composti e divulgati nel medioevo ed anche dopo da parecchi novellieri, hanno pure un loro significato di fondo, anche se nelle narrazioni entrarono motivi inventati o elementi soggettivi con ricchezza di particolari per dare espressività, colore, scenografia e teatralità; ma al di là delle frange retoriche sta un nucleo di verità storica. La novella della scomumca, infatti, raccontava che due ambasciatori del papa portavano la bolla della scomunica a Bernabò, che aveva ripetutamente occupato i terreni e le città del dominio della Chiesa. Bernabò attese i rappresentanti papali sul ponte del Lambro a Melegnano e comandò ai due ambasciatori di scegliere: o mangiare la bolla della scomunica o bere l'acqua del Lambro perchè sarebbero stati gettati dentro al fiume che passava sotto il ponte. I due ambasciatori rimasero sbigottiti, e sotto lo sguardo feroce e divertito di Bernabò mangiarono pezzo per pezzo la bolla della scomunica che era di pelle di animale con il cordoncino ed il sigillo di cera lacca. In realtà, e sul terreno strettamente storico, i Visconti di Milano erano stati più volte scomunicati e si stavano abituando alle scomuniche papali. Matteo Visconti, nonno di Bernabò fu scomunicato dal papa Giovanni XXII°. Lo zio arcivescovo di Milano, Giovanni Visconti, fu scomunicato dal papa Clemente VI°. Lo stesso Bernabò fu scomunicato più volte sia dal papa Urbano V° sia da Gregorio XI°, scomuniche che poi, o venivano assolte o erano alleggerite. Il motivo era quasi sempre economico: la lotta per il possesso delle terre dell'Italia centrale, specialmente di Bologna che il papa voleva per se', mentre i Visconti desideravano annetterle al loro dominio.  La storiella del contadino che riaccompagnò al castello di Melegnano Bernabò, quando una sera si smarrì nei boschi circostanti mentre era a caccia, offrirebbe molta materia per una conoscenza di vita minore e quotidiana di Melegnano: le famiglie melegnanesi sono ricordate come molto accoglienti; il paese è descritto come rifornito di tutte le necessità per gli smarriti; i sudditi correvano incontro al loro signore Bernabò con le fiaccole; e Bernabò, che evidentemente non era conosciuto da quel contadino accompagnatore, era descritto come un tiranno. E, quando giunto a Melegnano, il contadino si accorse che aveva accompagnato Bernabò in persona, mangiò in castello perchè era stato invitato, ma tremava in cuor suo in attesa della vendetta di Bernabò per i giudizi sfavorevoli. Ma questa storiella mette in evidenza la realtà storica di un Bernabò che va a caccia: e tutti i Visconti furono gran cacciatori che emanarono speciali leggi per la difesa monopolistica delle loro riserve ducali. Nel 1393 un nipote di Bernabò pubblicò un editto sulla caccia: fu proibito andare a caccia di cervi in tutto lo stato; furono riservate le zone designate alla caccia per il duca: a Desio, Monza, Melegnano, Pandino, Belgioioso, Cussago, Vigevano, Abbiategrasso. In tali località era anche proibito rompere le siepi fatte con le frasche. Inoltre tale storiella mette bene in evidenza il carattere capriccioso, strano e bizzarro di Bernabò, perchè‚ il contadino non solo fu salvo, ma anche premiato da Bernabò nonostante la confessione aperta dei misfatti come portavoce dell'opinione di tutto il popolo. Attorno alla figura di Bernabò si collocavano anche le  descrizioni tradizionali melegnanesi sulla presenza di sotterranei e di cunicoli che collegavano il castello con la chiesa di San Giovanni o con altre località dentro e fuori di Melegnano. La questione dei sotterranei potrebbe essere avvincente se avesse al suo sostegno qualche documento e non soltanto la fantasia del popolo melegnanese. Inoltre la forma del territorio melegnanese e la presenza del Lambro con un alveo molto basso ponevano gravi problemi per l'apertura di sotterranei. Nei lavori di sterro per le fondamenta di case, per le fognature civiche o per gli impianti del gas e dell'acqua si sono trovati i resti delle mura di difesa perimetrali, ma non mai il segno vero di un autentico sotterraneo. La giurisdizione di Bernabò era ampia, da Melegnano a Pandino a Vaprio d'Adda, Lodi, Parma ed oltre. Nacque nel 1323 e morì il 19 dicembre 1385 nel castello di Trezzo, forse avvelenato dal nipote Gian Galeazzo, figlio di suo fratello, che riunirà in una sola persona tutto il dominio visconteo e che sarà nominato primo duca di Milano. Sembra che per un figlio naturale di Bernabò fu  costruito quel palazzo che si trova in piazza Garibaldi e che ospita il Bar Centrale, con l'interno ricco di sale e di appartamenti e con sale superiori cui si arriva da uno scalone; quel palazzo per secoli fu fiancheggiato da un vasto giardino, e la piazza antistante era detta piazza Visconti. 
Gian Galeazzo Visconti

Il nuovo signore di Milano impressionò tutta Italia per la sua spregiudicatezza nell'eliminare Bernabò, zio e suocero, e nel disperdere i figli del vecchio tiranno, che erano una trentina tra legittimi ed illegittimi. Galeazzo Visconti seppe presentare all'opinione pubblica una sua difesa altrettanto spregiudicata, mostrando che Bernabò stava tramando contro di lui e contro i suoi figli. Gian Galeazzo non era un uomo d'armi e non guidò mai un esercito; però era fornito di immense ricchezze ed aveva al suo servizio i migliori condottieri del tempo, sapendoli muovere al tempo giusto, con tutti gli accorgimenti della politica. Fu un lavoratore instancabile, sollecito del benessere pubblico e di una  amministrazione bene ordinata ed economa, sorretto da buona intelligenza al servizio di ambizioni personali. Tentò di costruire in Lombardia uno Stato moderno, favorendo autonomie locali. Tenne una splendida corte; iniziò la costruzione del duomo di Milano e della Certosa di Pavia che sono monumenti insigni dell'arte gotica e del Rinascimento; raccolse da ogni parte statue antiche, codici preziosi, dipinti pregevoli, ed ebbe la singolare passione della raccolta delle reliquie dei santi.  Si sposò due volte: la prima con Isabella di Valois di Francia da cui nacque Valentina; la seconda volta con Caterina Visconti, figlia di Bernabò da cui nacquero Giovanni Maria e Filippo Maria. Un capolavoro della sua politica fu l'amicizia e l'alleanza con il re di Francia, Carlo VI°, promettendo al fratello del re la figlia Valentina come sposa fin dal 1387. Difatti avvenne il matrimonio con Luigi d'Orleans, fratello del re, e la sposa portò in dote oro e argento da stupire tutta la corte di Francia, inoltre anche la città ed il territorio di Asti, aggiungendo il diritto di successione a Milano in mancanza di eredi maschi.  Tra il 1395 ed il 1396, per dare maggior solidità al proprio dominio all'interno e all'esterno della Lombardia, aveva acquistato dall'imperatore Venceslao il titolo di duca di Milano e conte di Pavia, cioè il riconoscimento ufficiale del potere effettivo su quasi tutta la Lombardia: ed è il primo esempio del genere, con una solenne festa dell'incoronazione avvenuta in sant'Ambrogio il 5 settembre 1395 per mezzo di un delegato imperiale. Il territorio milanese era così uno stato secondo la legge e legato al Sacro Romano Impero, e Gian Galeazzo divenne vassallo dell'imperatore. Da allora nello stemma ducale apparve l'aquila imperiale. La sua politica estera contemplò l'amicizia con Venezia per poter avere mano libera su Vicenza e Verona, minacciando anche Mantova. Poco dopo si mosse contro la potenza di Firenze: occupò la Lunigiana prendendo Pisa, Siena, Perugia, Assisi, Spoleto. E finalmente marciò contro Bologna per isolare completamente Firenze; ed il suo generale, Jacopo dal Verme, entrò nella metropoli bolognese il giugno 1402. Tutti avevano l'impressione che Gian Galeazzo occupasse l'Italia intera. Gian Galeazzo infatti si preparava al regno d'Italia e a cingere la corona.
Atti amministrativi di Gian Galeazzo per Melegnano
Con un editto del 16 febbraio 1386 steso a Melegnano, il duca ordinò che nessuno dovesse andare nei boschi delle cacce riservate alla corte che erano in Melegnano, in Pandino e in Sant'Angelo Lodigiano. Con un'ordinanza del 1393 stabilì che fosse il suo vicario in Melegnano a giudicare le cause giudiziarie civili e penali. Nella primavera del 1394 permise che la contessa sua moglie inviasse a Melegnano il nobile Giovanni da Casate per la custodia dei suoi figli. Un ricco melegnanese, amico del duca, Stefano de Bruxatis, fece una donazione di un terreno alla corte ducale nell'anno 1396. E durante il 1400 gli amministratori dei beni del duca, per suggerimento della moglie, vendettero i terreni nella zona di Colturano, dai quali prima si ricavavano alcuni affitti. 
La peste
Mentre Gian Galeazzo era al vertice della sua potenza e si preparava ad ampliare i suoi territori ed il suo dominio sull'onda del successo politico e militare, avvennero casi di peste a Monza ed a Milano nel 1393. Era una malattia infettiva contagiosa trasmessa dai roditori all'uomo, provocando febbre, cefalea, dolori. alle ossa, delirio e tumefazione delle linfoghiandole con evidenti bubboni. A Milano venne sospesa la festa di sant'Ambrogio in dicembre; chi potè‚ fuggì in Brianza o in campagna; il duca stesso si ritirò per un po' di tempo a Pavia. Egli poi scelse Melegnano come luogo sicuro, perchè‚ il castello, sulle rive del fiume Lambro, offriva una buona speranza di salute e di prevenzione dal contagio. Emanò un ordine: per le strade di Melegnano, Sant'Angelo, Belgioioso, Pandino, Cassano, Rivolta non dovevano passare i mercanti, perchè‚ tali terre erano state scelte per l'abitazione di lui e della sua corte. Per un po' di tempo fu sospeso il mercato del giovedì. In una lettera scritta da Melegnano l'8 dicembre 1400 ribadì la proibizione sui passaggi, ed allargò la zona proibita aggiungendo Pavia, Lodi, San Colombano. Sul ponte di Melegnano furono posti vistosi cartelli perchè‚ non si passasse verso Lodi nè‚ si entrasse da Lodi. Chi usciva dà Milano non poteva entrare in Melegnano, né in Binasco, nè‚ in Sant'Angelo nè‚ in altri luoghi sopra ricordati, ma doveva girare lontano. Contemporaneamente appariva in cielo una cometa, un fenomeno astronomico ben spiegabile oggi scientificamente, ma allora aveva un significato superstizioso di oscuro presagio di future disgrazie: inondazioni, terremoti, carestie, mortalità, guerre, cambiamenti di Stati, discordie e rivoluzioni. Mentre Gian Galeazzo era rintanato nel castello di Melegnano, venne tradotto da Pavia fino a noi qua, Niccolò da Uzzano, che era un prigioniero di guerra, cittadino di Firenze, il quale doveva testimoniare davanti all'opinione pubblica che Gian Galeazzo non aveva avuto intenzione di avvelenare il nuovo imperatore di Germania, Roberto di Baviera, avverso a Galeazzo ed amico dei Fiorentini, il quale annunciava una grande spedizione in Italia per punire il duca di Milano. 
Gian Galeazzo colpito dalla peste in Melegnano e sua morte
Ma la peste non perdonò neppure il duca di Milano. Durante il mese di agosto del 1402 Gian Galeazzo si aggravò. Era assistito dalla moglie Caterina e dai figli Giovanni Maria e Filippo Maria. I medici Gusberto de' Maltraversi e Marsilio da Santa Sofia, chiamati i monarchi della medicina, furono al suo fianco. Vennero a Melegnano parecchi della corte ducale milanese: il conte Antonio d'Urbino, il conte Francesco Barbavara, che erano i consiglieri ducali; Giovannolo da Casate ed Antonio Crivelli, nobili; i cancellieri Giovanni da Carnago ed Antonio da Lucino. Ma il male divenne inesorabile: il duca, all'estremo delle sue forze, volle il priore degli Agostiniani di Pavia, Pietro da Castelletto. La mezzanotte del 3 settembre 1402 Gian Galeazzo moriva, all'età di 51 anni, nel suo castello di Melegnano, dove svanì per sempre il sogno altamente ambizioso di riunificare sotto le insegne viscontee molta parte d'Italia. La comunicazione ufficiale della morte così citava:"dum enim febres eum invasissent et interiectis spaciis aliquando remitterentur, interdum fierent fortiores, tandem pluribus ipsarum secutis accessibus, ad extremum deductus fuit". I melegnanesi per primi tributarono le esequie, poi la salma fu trasportata a Viboldone. A Milano i funerali furono splendidi. Infine fu sepolto alla Certosa di Pavia. Della sua morte si impadronì la leggenda: un diavolo non visto era entrato nel castello di Melegnano e stava in un angolo con sguardo cupo e bieco attendendo la sua preda, mentre per tutta la notte si scatenò dal cielo un forte acquazzone, con vento, tempeste, fulmini, quasi che il mondo avesse a disfarsi in quel momento. Il dominio fu diviso tra i suoi figli. Giovanni Maria ebbe il titolo ducale signoreggiando su Lodi, Milano, Melegnano, Cremona, Piacenza, Bobbio, Parma, Reggio, Bergamo, Brescia, Como, Siena e Perugia. Filippo Maria ebbe il titolo di conte di Pavia, Novara, Vercelli, Tortona, Alessandria, Verona, Vicenza, Feltre, Belluno, Bassano. Pisa e Cremona furono assegnate al figlio illegittimo Gabriele Maria. Ma Giovanni e Filippo erano ancora minorenni, per cui l'amministrazione di tutto il ducato e le azioni politiche furono dirette dalla madre col titolo di reggente, assistita da un Consiglio di Stato. Comunque la reggente Caterina seppe destreggiarsi. Ella a Melegnano aveva terre, oltre a quelle di Balbiano e di Colturano. Durante la sua reggenza mise in vendita la possessione detta le Cascine di Melegnano, che erano la Maiocca e la Maiocchetta.
La dissoluzione del ducato e le vicende del castello
Nonostante la buona volontà della duchessa reggente, il ducato conobbe contrasti politici, litigi, lotte ambiziose personali tra casate potenti, trame e congiure. Ritornò la vita difficile: si era ad un passo dalla guerra civile. In questo contesto turbolento alcuni parenti odiosi alla duchessa riuscirono ad impadronirsi del castello di Melegnano. La duchessa organizzò una spedizione militare. Ma l'impresa andò fallita in un primo tempo. Poi, con maggiori rinforzi, fu ricuperato e fortificato. Intanto il potere veniva assunto dal figlio, il duca Giovanni Maria che stava rendendosi conto della situazione tragica del suo ducato. Per far fronte alle grandi spese cercava soldi da ogni parte. E per un po' di tempo cedette anche il castello di Melegnano a Galeazzo Grumello; poi aprì un pubblico prestito per farsi dare dai cittadini milanesi quanto occorreva per ricuperarlo, e fu di nuovo suo.  Naturalmente Giovanni Maria si rendeva conto che gli era necessario un aiuto militare da parte di esperti condottieri: e scelse Facino Cane, già famoso per brillanti imprese militari a Napoli ed a Verona. Il ducato di Milano riprese forza, ed il duca respirò.  Nello stesso tempo fu intensificata la politica dei lavori pubblici: nel 1408 si diede l'avvio alla più seria manutenzione ai ponti sopra il Redefosso e particolarmente presso la porta per la quale si entra in Melegnano. Lo stesso duca si prende a cuore la causa fiscale di Michele Baldironibus da Melegnano, ordinando che non sia più molestato sul continuo controllo delle rendite che l'Ufficio dell'estimo di Milano continuava nei suoi riguardi. Ma nel settembre 1409, nel contesto della confusione politica e delle difficoltà diplomatiche, a Melegnano il custode del castello, Filippino da Desio, aiutato dai condottieri e capitani di Ventura fratelli Malatesta e da Giovanni Vignati, governatore di Lodi, si tenne per sè‚ il borgo ed il castello di Melegnano. Frattanto il duca Giovanni Maria aveva assunto per difesa del ducato il capitano di ventura Facino Cane, il quale entrò solennemente in Milano il 6 novembre 1409 come governatore del ducato. Il 25 maggio 1410 Facino Cane stipulò una tregua di un mese con il governatore di Lodi e con il castellano di Melegnano ribelle al duca. Verso l'autunno Facino Cane aveva deciso di ricuperare Melegnano. Ma il castellano, Filippino da Desio ed i suoi fratelli Antonio e Maffiolo, nell'impossibilità di difendersi, avevano consegnato il castello al condottiero Pandolfo Malatesta il quale, al servizio del Vignati di Lodi, veniva così ad avere una base di operazione avanzata contro Milano ed a difesa della città di Lodi: Giovanni Vignati fu, dunque, signore di Melegnano. Il 16 ottobre 1410 fu annunciata la spedizione milanese contro Melegnano, spedizione che poi non avvenne. Facino Cane si accontentò di ordinare al podestà di Milano di formare un solenne processo di tradimento contro quei castellani di Melegnano, confiscarne i beni, atterrare le loro case in Milano e a Desio. Intanto il duca di Milano, con diverse ordinanze, una delle quali più forte in data 10 ottobre 1410, stabilì la costruzione delle bastie (fortificazioni campali fisse o mobili per assediare un castello o un villaggio) per circondare Melegnano. La cosa doveva stare molto a cuore al duca il quale dall'ottobre 1410 al maggio 1411 emanò ben otto decreti, in alcuni dei quali imponeva anche l'arruolamento di fanti. La signoria di Giovanni Vignati, governatore di Lodi e di Melegnano durò per tutto il 1411. Intanto, però, avvenne un capovolgimento dei fronti. I castellani di Melegnano, Filippino e fratelli che si erano ribellati al duca, fecero ogni tentativo per ritornare nelle sue grazie. Difatti passarono dalla parte del duca, aiutarono il comandante militare di Milano, Facino Cane, a cingere d'assedio Melegnano. L'assedio durò per tutti i mesi di ottobre, novembre e dicembre 1411. Poi Melegnano cadde, ed il castello fu restituito al duca Giovanni Maria. Il duca comunicò ai nobili milanesi ed ai governatori della città e del contado ed al Vicario di Provvisione la restituzione del castello di Melegnano. Inoltre comunicò che il castellano responsabile, Filippino, aveva giustificato la sua condotta; ed ordinò che per tre giorni si facessero feste, giochi, luminarie. La grande soddisfazione del duca per la riconquista del castello di Melegnano si spiega con diversi motivi: il castello di Melegnano controllava tutta la zona del sud Milano ed era un punto fermo per il deposito di armati e di persone che regolavano l'amministrazione economica e fiscale. Inoltre il possesso di Melegnano voleva dire possesso delle terre che erano già state dei Visconti al tempo di Bernabò, fino a Pandino e fino a Sant'Angelo Lodigiano. La stessa attività agricola e commerciale, ed in modo particolare i mercati settimanali nella zona del Melegnanese assicuravano un'entrata sicura e continua nelle casse esauste del ducato milanese. Da ultimo, la conquista del castello di Melegnano si presentava come un segno forte ed efficace politicamente per la necessaria saldezza ed il nuovo urgente consolidamento del potere, sempre in pericolo per il duca di Milano. Tutto era stato possibile per la forza bellica di Facino Cane, come garanzia militare e valido sostegno del duca Giovanni Maria che poteva così sopravvivere. Ma Facino Cane si ammalò ed i nemici aperti ed occulti del duca ripresero animo, ordirono una congiura e lo uccisero mentre usciva dalle sue stanze per andare alla messa nella chiesa di corte che era quella di San Gottardo. Ed anche Facino Cane morì. Era il 1412. La vedova di Facino, Beatrice di Tenda, sposò l'unico Visconti superstite al vertice del governo, Filippo Maria
Il ducato milanese con Filippo Maria
Filippo Maria Visconti aveva vent'anni quando si trovò alla testa del governo ducale. Avendo sposato in prime nozze la vedova di Facino Cane venne in possesso di beni e terreni, ed anche di una forte quantità di soldi. Mediante un'alleanza con i Genovesi, i Veneziani e la Savoia, attraverso azioni diplomatiche e promesse di denari, con le armi del condottiero Francesco da Bussone detto il Carmagnola, si assicurò il possesso di tutte quelle città che erano andate perdute: Lodi, Como, Trezzo, Piacenza, Brcscia, Bergamo, Vercelli, Bellinzona, e nel 1421 della stessa Genova. La potenza viscontea era, dunque, nuovamente accresciuta e diventata temibile, ed intorno a lei si andava formando una pericolosa rete infida di sospetti e di ostilità. Per frenare le sue ambizioni si formò una lega composta dai Fiorentini, Veneziani, Savoia, Stato Pontificio. Lo scontro frontale avvenne tra Milano e Venezia a Maclodio l'11 ottobre 1427. Il conte di Carmagnola, passato dalla parte dei Veneziani contro il duca milanese, inflisse una sconfitta grave e clamorosa ai Milanesi. Erano i primi colpi di piccone alla potenza ducale. Filippo Maria era disorientato per il comportamento dei suoi stessi capitani di ventura: ebbe perfino abboccamenti con il Carmagnola al quale aveva promesso in sposa la sua figlia Bianca Maria, ma era messo in guardia da ex amici del Carmagnola, uno di questi era il nostro Nicolò da Marignano che andava dicendo al duca di non fidarsi del Carmagnola. La Pace di Cremona nel 1441 portò una tregua tra i contendenti, Genova riotteneva l'indipendenza. Di fatto incominciò ancora una volta la decadenza del ducato, che era minacciato continuamente da una fortissima Venezia. Filippo Maria non ebbe figli maschi. La prima moglie, accusata d'adulterio, fu uccisa nel 1418. La seconda moglie, Maria di Savoia, fu la compagna della sua vita, ma senza prole. Dagli amori con Agnese del Maino nacque Bianca Maria che sposerà il condottiero Francesco Sforza nel 1441. Bianca Maria, come diremo, morirà in Melegnano l'anno 1468. 
I primi interventi per Melegnano
Una prima tempestiva azione di Filippo Maria fu la proclamazione di un decreto con il quale si stabiliva che tutte le città del ducato, tanto del Seprio e della Bulgaria che della Martesana e della Bazana, ritornassero sotto la giurisdizione diretta del podestà e degli alti magistrati della città di Milano, come al tempo del suo defunto genitore, eccettuata Melegnano il cui capitano o vicario aveva il mero e mistero imperio (mero imperio: la facoltà di punire con la morte i colpevoli; misto imperio: la facoltà di punire con pene minori per reati minori). Di conseguenza i melegnanesi erano sotto l'ampio potere del capitano di Melegnano che era il vicario del duca per l'amministrazione e per il tribunale. Forse È la prima forma di autonomia che ebbe Melegnano, in quanto ecclesiasticamente si era ancora alle dipendenze di San Giuliano che era l'antica chiesa battesimale e capo di pieve. Il decreto visconteo sull'autonomia è del 1412. Quattro anni dopo il duca scrisse al Vicario di provvisione e ai Dodici di provvisione di far pubblicare che chiunque trasportasse mercanzie e bestie dalla città di Milano diretto a Lodi e territorio, o viceversa, dovesse transitare necessariamente per il territorio di Melegnano e non seguire altra strada, sotto pena del bando e della perdita delle mercanzie. Questo provvedimento fu preso per favorire le trattorie e le osterie che stavano sul percorso, molte delle quali erano controllate o tassate o gestite da amici del duca, e quindi rappresentavano una fonte continua di guadagno per le casse ducali. Un secondo motivo era costituito dalla certezza che nessuno potesse sfuggire al pagamento dei vari dazi che si dovevano pagare al passaggio di ponti e di vari incroci o punti fissi collocati su varie strade. 
La diretta dipendenza di Melegnano e i benefici ai parenti
Sicuro del suo potere politico, Filippo Maria Visconti, tra le delibere di natura amministrativa e politica, ne ordinò diverse per ampliare la giurisdizione del podestà di Milano su alcune terre del contado, tentando di ricopiare lo schema e l'efficienza del padre, Gian Galeazzo. Però il territorio di Melegnano, che era già sottratto al podestà da diversi decenni, fu lasciato ancora in tale situazione amministrativa. Di conseguenza Melegnano, come già dicemmo, rimaneva sotto l'ampio ed unico potere del duca, il quale si serviva di un suo vicario per la normale amministrazione e per il tribunale. Si  prolungava, cioè, la situazione di una certa qual autonomia o, per meglio dire, di sganciamento dalle norme burocratiche intermedie.  Nel programma del nuovo assestamento del ducato milanese, per meglio consolidare la stabilità, dopo le amare esperienze politiche e militari, ma anche per rispettare alcuni patti, il duca Filippo Maria concesse in feudo ad alcuni suoi stretti familiari diversi fondi in Melegnano, Riozzo, Cerro, Bascape', Colturano, Balbiano, ed una località che era chiamata “Cascine di Melegnano”. Questa concessione creava la conseguenza che i suoi familiari beneficiati Giovanni, Francesco, Estore, Bernabò di Mastino, potessero riscuotere i tributi e gli affitti delle fattorie, delle cascine, delle case; avessero le entrate per l'uso dei torchi dell'uva, delle colombaie, di alcune rogge tra cui la roggia Spazzola. L'investitura, però, aveva alcuni limiti ben precisi, perchè‚ alcune tasse, il dazio, e specialmente il pedaggio che si doveva pagare passando sul ponte del Lambro rimanevano di stretto diritto del duca in persona. Ed era ovvio che il castello rimanesse sempre direttamente dipendente dal duca e non dai suoi parenti. Bisogna, comunque, ricordare che tutto questo avvenne già ai primi anni del dominio di Filippo Maria, cioè il giorno 10 aprile 1414. Tuttavia il duca non trascurava il potenziamento continuo della posizione melegnanese, sia nei primi anni fino agli anni più avanzati del suo governo, ne è un esempio l'ordine dato a Vanini de Ferraris di fare nella terra di Melegnano le provvisioni e le riparazioni opportune a miglior difesa del territorio.
I parenti del duca a Melegnano
I contrasti all'interno della famiglia Visconti erano sempre vivi, bisogna ricordare che i Visconti erano assai numerosi, e la maggior parte delle volte si litigava per il possesso di città, di paesi, di vecchi feudi, di ricchi privilegi. Per esempio, Francesco Bussone detto il Carmagnola stava assediando Monza per conto di Filippo Maria contro Valentina che era figlia di Bernabò. La lotta era quindi aspra. Ma Valentina, dopo un'accanita resistenza nella quale incitava gli assediati ad opporsi fermamente, dovette cedere nell'aprile del 1413, concludendo con il Carmagnola un trattato per cui i feudi nel territorio di Melegnano, già appartenenti a Bernabò, venivano restituiti. Alla presenza di Filippo Maria e dei suoi consiglieri fu steso il rogito il 10 aprile 1414, stilato dal notaio Catalano Cristiani. Furono restituiti i territori in Melegnano, Cerro, Riozzo, Cabiano, Colturano, Balbiano ed alcuni altri nei dintorni. Nel rogito si nomina la Spazzola, una località dal nome Calandrano, le Cascine di Melegnano (Maiocca e Maiocchetta). Questi beni furono restituiti a Giovanni di Lodovico, a Bernabò di Mastino, a Francesco ed ad Estore. Estore o Astorre, figlio naturale di Bernabò, fu il capostipite di un ramo della famiglia Insediata per oltre tre secoli sulle terre di Melegnano. Sua madre era della casata milanese dei Grassi e si chiamava Beltramola, amata da Bernabò. I Visconti sono nominati e registrati in Melegnano fino in pieno Settecento. A Melegnano sorgeva il Palazzo Visconti che è l'attuale edificio del bar Centrale in piazza Garibaldi. Alla chiesa del Carmine vi era una cappella dedicata ai Re Magi, alla cui sommità stava incisa l'arma dei Visconti. Sui resti del Ponte di Milano fino al 1745 vi era lo stemma visconteo; come anche tale stemma era dipinto sull'entrata del Castellazzo, ora Casa di Riposo. 
I rapporti tra il duca Filippo Maria e Melegnano
I rapporti tra il duca Filippo Maria Visconti e la Comunità di Melegnano furono intensi: l'anno 1425 si presenta a noi come uno dei più interessanti per la frequenza documentata di legami, con una fitta serie di atti politici ed economici riguardanti direttamente Melegnano. L'anno 1425, dunque, avvenne un controllo minuzioso delle azioni e delle responsabilità del vicario capitano di Melegnano, sospettato di abusi e di corruzione; la revoca di tutte le deleghe ducali che erano state concesse al melegnanese Speziario Ribaldini; l'esenzione da ogni tassa per Maffeo da Muzzano: costui era figlio di Ambrogio detto Muriano di Muzzano il quale aveva ricevuto donazioni in terre dal precedente duca Giovanni arcivescovo per remunerarlo degli zelanti servizi, e Maffeo da Mozzano era il segretario ducale, proprietario di terreni in Melegnano e in Vittadone. Vi furono, nello stesso anno, diverse consultazioni tra il duca con Guidetto Coconato, uno dei più fidati consiglieri, alla presenza del cancelliere ducale Piccinino sulla situazione e sulla efficienza militare di Melegnano e dintorni. Fu pure spiccato l'ordine di stendere una esatta statistica ed una precisa portata dei danni dell'epidemia che nel 1425 stava decimando paurosamente le nostre stalle del Melegnanese; e per i sudditi vi era l'obbligo di arrestarsi in Melegnano, prima di entrare a Milano, per il controllo sanitario preventivo antipeste. Scrisse al capitano di Melegnano di liberare dalle carceri del castello Francesco Matteo di Forlì e il suo nipote che vi giacevano da lungo tempo: questi dovevano andare in Romagna, presso il commissario Luigi Crotto, versando una cauzione. Inoltre firmò un salvacondotto per diverse persone, concedendo la libertà di muoversi entro il ducato: tra questi vi furono Antonio de Meldula e Mariotto di Camerino che attestarono di essere immuni dalla peste, ma il duca li obbligò a fermarsi in Melegnano, perchè‚ prima di entrare in Milano avrebbero dovuto avere ancora altre istruzioni ducali. Verso la fine del 1425, il 12 ottobre, ordinava al capitano di Melegnano di restituire a Matteo da Tottis di Imola, già qui detenuto e per ordine ducale rilasciato dalla prigione, i venticinque ducati richiesti in pagamento dei giorni di carcere, ammonendolo severamente per tale abuso. Concesse, inoltre, la facoltà ai relativi fittabili di tagliare e di disboscare parecchie pinete attorno a Melegnano e a Colturano, con la severa proibizione di non toccare le piante di rovere ed i vivai novelli. Rilasciò un salvacondotto o passaporto per la durata di due mesi a Scaramuccia melegnanese, che era un ufficiale nell'esercito del marchese di Mantova, perchè‚ venisse a scolparsi di un omicidio a lui attribuito.  Tra gli atti contrattuali vi sta la particolare concessione a Maria di Savoia, la sua seconda moglie, della riscossione del dazio delle merci che passavano sul ponte di Melegnano fino a reintegrarla della somma di 1105 ducati d'oro da lei prestati al marito, in data 2 gennaio 1442.
La fine di Filippo Maria Visconti
Si avvicinava la fine anche per il duca di Milano, colpito dalla malattia e dal fallimento dell'ultima avventura bellica contro Venezia che arrivò sotto le mura di Milano avendo invaso la Brianza, il Lecchese, il Comasco ed il Varesotto. I tormenti e l'angoscia della sconfitta diedero il colpo finale: morì il 13 agosto 1447 a cinquantacinque anni, ultimo duca della famiglia dei Visconti. Poche ore dopo la sua morte nasceva l'Aurea Repubblica Ambrosiana, con un Vicario e i Dodici di Provvisione, un Consiglio di 24 Capitani e difensori della libertà del Comune, la formazione di un'Assemblea di cittadini, il Consiglio generale dei Novecento: organismi politici supremi della nuova realtà milanese.
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